Nord Stream 2: il gasdotto che divide l’Europa
Lo scorso fine gennaio, l’Autorità Mineraria di Stralsung, città costiera nel Nord-Est della Germania, ha concesso le ultime autorizzazioni per la costruzione del primo tratto del gasdotto Nord Stream 2, che si avvia così verso l’inizio dei lavori. Si tratta di un ambizioso progetto infrastrutturale volto a duplicare la capacità del già presente condotto Nord Stream, attivo dal 2012. Il progetto, che dovrebbe entrare nella fase operativa nel secondo trimestre del 2018, prevede la costruzione di una coppia di pipeline lunga 1.200 km, capace di trasportare in Europa 55 miliardi di metri cubi di gas ogni anno. Il punto di entrata del condotto gasifero, che si estenderà lungo la medesima traiettoria attraverso il Mar Baltico, sarà poco distante da quello di Nord Stream, nei pressi di Ust-Luga nella regione di Leningrado. Per quanto riguarda il punto di uscita, sarà collocato vicino alla città tedesca di Greifswald, in Pomerania. Il gas naturale, che giungerà in Europa senza l’ausilio di alcuna stazione di compressione intermedia, proviene dagli enormi giacimenti di Bovanenkovo, nella penisola russa di Yamal, che si stima dispongano di riserve pari a 171.5 bilioni di metri cubi di gas. Di tutto il gas naturale di Nord Stream 2, circa un terzo sarebbe destinato al mercato dell’Europa centro-settentrionale, mentre il restante verrà probabilmente convogliato verso l’hub austriaco di Baumgarten per servire il mercato dell’Europa meridionale e dell’Est.
L’idea per la realizzazione di Nord Stream 2 è nata nel 2012, appena dopo la chiusura dei lavori del progetto Nord Stream, quando gli azionisti della società che controlla il gasdotto hanno condotto studi di fattibilità su un eventuale ampliamento della coppia di pipeline. Oggi, a dare vita al progetto Nord Stream 2, è Nord Stream AG, una società controllata al 100% dalla russa Gazprom con sede in Svizzera. Nell’aprile 2017 la Nord Stream AG ha siglato un accordo di finanziamento con altre cinque compagnie gasifere: la francese Engie, l’Austriaca OMV, l’olandese Royal Dutch Shell e le tedesche Uniper e Wintershall. L’accordo prevede che le quote di finanziamento di Nord Stream 2 siano divise in questo modo: 50% provenienti da Gazprom e 50% dai restanti cinque gruppi energetici, ognuno dei quali avrà una quota-parte del 10%. Il capitale complessivo fornito dalle aziende partner europee si attesta intorno ai 4,5 miliardi di euro (circa 950 milioni ciascuno). In passato, un primo piano per lo sviluppo del gasdotto tramite una joint venture tra Gazprom e Engie, OMV, Shell, Uniper e Wintershall come dirette azioniste di Nord Stream AG era stato bloccato da Bruxelles su pressione di alcuni Stati, tra cui in particolare la Polonia. Oggi, all’interno di questo nuovo contesto, le aziende europee sono al riparo dal sussistere di problematiche di questo genere, dal momento che nella nuova operazione non è previsto un finanziamento tramite equity. Nord Stream 2, che unito a Nord Stream verrebbe ad avere una capacità aggregata di 110 miliardi di metri cubi di gas, a pieno regime riuscirebbe a coprire il fabbisogno di circa 26 milioni di famiglie, pari quasi alla richiesta energetica di Francia e Germania. Il piano infrastrutturale, dopo anni di oculata progettazione, diatribe legali e politiche, si avvia verso la posa del primo tubo, in attesa che Danimarca, Svezia e Finlandia forniscano i risultati dei test sull’impatto ambientale all’interno delle proprie acque territoriali.
Nord Stream 2, nato da una partnership russo-tedesca, per lungo tempo ha rischiato di non vedere la luce, a causa di complesse dispute politiche. In un primo momento, infatti, durante i colloqui esplorativi per la formazione del nuovo governo tedesco, il partito ecologista (Die Grünen, I Verdi) e il partito liberale Freie Demokratische Partei (Partito Liberal-Democratico, FDP), che assieme alla Unione Cristiano-Democratica (Christlich Demokratische Union, CDU) avrebbero dovuto dare vita alla cosiddetta “coalizione Giamaica”, avevano posto il veto sulla realizzazione del gasdotto, preoccupati per l’impatto ecologico e per l’eventuale crescita dell’influenza russa nel continente.
Il progetto è tornato ad essere una delle priorità del dibattito politico interno alla Germania a seguito dell’accordo siglato tra CDU e il Partito Social-Democratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) per la formazione di una nuova Grosse Koalition a guida Merkel. L’SPD ha infatti legato il destino del gasdotto alla possibilità di sostenere il nuovo esecutivo, ritenendolo un progetto di alto interesse strategico per il Paese. Da sempre possibilista nei confronti di Mosca, basti pensare all’Ostpolitik degli anni ’70, il Partito Social-Democratico vede nel Nord Stream 2 una doppia opportunità. Da una parte è un’occasione per distendere i rapporti con la Russia, dall’altra per creare nuovi posti di lavoro (ricordiamo che Uniper e Winteshall sono due società tedesche da più di 10.000 dipendenti). Tra le fila dell’SPD troviamo importanti sostenitori del progetto, a riprova dei profondi legami politici che uniscono la Russia al partito socialista tedesco. Sigmar Gabriel, attuale Ministro degli Esteri ed ex-Ministro delle Politiche Energetiche, è stato sin dall’inizio un ferreo sostenitore del progetto, nonostante il forte scetticismo dell’allora Cancelliere Angela Merkel.
Fu lo stesso Gabriel, assieme all’attuale Presidente della Repubblica Federale Frank-Walter Steinmeier, nel 2014, alla luce dell’annessione della Crimea e del supporto fornito da Mosca ai separatisti del Donbas, a battersi per mantenere aperte le relazioni diplomatiche con la Russia, cercando alternative più morbide alle sanzioni economiche. Se il Nord Stream 2 si avvia verso l’inizio delle operazioni di posa, è anche grazie al supporto e all’influenza esercitata in sede europea e in varie capitali del continente da parte di Gerhard Schröder, ex-Cancelliere in quota SPD, che oggi si trova a ricoprire il ruolo di Presidente del consorzio che gestisce Nord Stream e a sedere nel consiglio d’amministrazione del colosso petrolifero russo Rosneft.
Ad oggi, una delle principali questioni che, se non ostacolano direttamente, inseriscono quantomeno elementi di insicurezza all’interno del progetto, riguarda l’aspetto legale. È infatti dibattuto se un progetto offshore come il Nord Stream 2, che attraversa acque dove vige la legislazione europea e acque territoriali appartenenti ad un Paese terzo, in questo caso la Russia, debba rientrare nella regolamentazione europea e vedersi applicare il pacchetto normativo della EU Energy Liberalization Law, conosciuto anche come 3rd Energy Package. Attualmente il gasdotto si trova a procedere all’interno di un vuoto legislativo, la cui soluzione potrebbe giungere addirittura oltre il termine dei lavori, previsto per la fine del 2019. Anche in un settore deputato all’obbiettività, come quello legale, si sta giocando una partita politica. Bruxelles infatti, su pressione di alcuni Paesi fortemente contrari all’implementazione del progetto, tra cui spiccano i Paesi baltici e i membri del Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia), vorrebbe porre le operazioni sotto la propria supervisione, riconducendole all’interno dello stringente framework normativo comunitario, volto a garantire maggiore trasparenza. A fronte di un forte interesse da parte della Commissione, dettato da uno scenario geopolitico profondamente mutato, che vede un attore para-statale affacciarsi con prepotenza all’interno del mercato unico, la Germania si difende affermando che, dal momento che si tratta di un semplice accordo commerciale, non è richiesto l’intervento di istituzioni nazionali o comunitarie. Ovviamente Berlino avrebbe tutti i diritti e le possibilità di porsi come attore primo all’interno delle trattative commerciali, in quanto il gasdotto rientra a pieno titolo nel novero delle infrastrutture ad alta rilevanza strategica per l’interesse nazionale. A monte della decisione di non inserirsi nelle dinamiche della regolamentazione europea, starebbe il fatto che per Gazprom un semplice accordo commerciale tra privati risulterebbe non solo più semplice, ma anche più conveniente da un punto di vista economico. Dall’altra parte, Donald Tusk, attuale Presidente del Consiglio Europeo e futuro candidato alla premiership polacca, si sta mobilitando, spinto dai governi dell’area baltica, primo fra tutti quello estone di Juri Ratas, a velocizzare l’iter legislativo europeo in materia di energia per ricondurre Nord Stream 2, un’infrastruttura che ha ripercussioni strategiche che vanno ben oltre il mero dato economico, sotto la supervisione di Bruxelles.
Oggigiorno la Russia è responsabile di oltre il 40% delle importazioni di gas naturale dei Paesi dell’Unione Europea. Qualora Nord Stream 2 venisse realizzato ed entrasse a pieno regime, le quattro pipeline del Mar Baltico fornirebbero complessivamente circa l’80% del gas proveniente dalla Russia. Ciò vorrebbe dire, inoltre, che circa un terzo di tutte le importazioni di gas in Europa sarebbero concentrate in un’unica tratta. Questo solleva importanti interrogativi riguardo i rischi strategici: a fronte di una politica energetica europea indirizzata sempre più alla diversificazione delle fonti di idrocarburi, lasciare una fetta sostanziale dell’approvvigionamento continentale nelle mani di un attore che, negli ultimi cinque anni, si è mosso con estrema assertività, potrebbe rivelarsi una mossa pericolosa. Dal canto suo, la Germania, ribadendo che la costruzione del gasdotto non può che mitigare le tensioni con la Federazione Russa, afferma che l’accordo non viola i princìpi di diversificazione stilati dall’authority europea.
Tale infrastruttura non preoccupa soltanto Bruxelles. La Danimarca ha da poco infatti varato una legge che consente al governo di intervenire direttamente, esercitando una sorta di “golden power”, per bloccare iniziative industriali offshore operate da privati all’interno delle proprie acque territoriali qualora fossero ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. La nuova norma, ovviamente indirizza in riferimento al Nord Stream 2, potrebbe portare Gazprom a considerare una costosa deviazione per non entrare nello spazio marittimo esclusivo danese, un riposizionamento che comporterebbe una lievitazione non indifferente dei costi e dei tempi di realizzazione. Fondamentalmente, a fronte del placet di Francia e Austria, tutto il blocco di Paesi dell’Europa baltica e centro-orientale si sta battendo strenuamente per impedirne la realizzazione. Il timore principale è che il gasdotto di Gazprom possa rivelarsi un Cavallo di Troia capace di proiettare l’influenza russa all’interno di tutta l’area, rendendo obsoleti i piani di sviluppo di tracciati gasiferi alternativi più sicuri e vantaggiosi per gli Stati in questione.
Mentre l’Ungheria si avvicina sempre di più alla Russia firmando un accordo che la inserisce di fatto come partner commerciale all’interno del progetto Turkish Stream, la Polonia è capofila tra gli oppositori del nuovo gasdotto. Il Presidente Morawiecki ritiene infatti che Nord Stream 2 costituisca un elemento di rischio, una minaccia per la coesione dei Paesi UE a fronte delle logiche egoistiche portate avanti unilateralmente da Berlino. Se in un primo momento Varsavia aveva posto sul tavolo negoziale la possibilità di rinunciare alla richiesta delle riparazioni di guerra, qualora il governo tedesco si fosse dimostrato disposto a declinare l’accordo con Gazprom, l’inasprirsi delle tensioni tra i due Paesi in seguito all’approvazione di leggi controverse come quello sulla memoria dell’Olocausto e sull’indipendenza degli alti istituti della Magistratura, rende sempre meno probabile il raggiungimento di un’eventuale intesa. Varsavia, il cui peso politico molto spesso non viene considerato adeguatamente in sede europea, si è addirittura rivolta al Segretario di Stato americano Rex Tillerson. Durante la sua visita in Europa, diversi Paesi dell’area nord-orientale hanno fatto importanti pressioni sul capo della diplomazia di Washington, affinché un ulteriore inasprimento delle sanzioni economiche contro le compagnie che operano con la Russia possa estendersi anche a due aziende come OMV e Royal Dutch Shell, forzandole a fuoriuscire dalla joint venture con Nord Stream AG. Una mossa politica degli Stati Uniti in questa direzione non sarebbe del tutto da escludere, dal momento che da tempo Washington sta perseguendo in Europa un’ambiziosa strategia energetica, volta a contrastare l’espansione di Gazprom e Rosneft e ad inserirsi prepotentemente nel mercato degli idrocarburi del Vecchio Continente. Già l’amministrazione Obama aveva infatti inviato in Europa orientale un uomo di grande esperienza come Amos Hochstein come Inviato Speciale per gli affari energetici del Governo americano. Hochstein, ad oggi amministratore delegato della Tellurian Inc., azienda che opera nella produzione di shale gas, era incaricato dello specifico compito di contrastare eventuali progetti per il raddoppio di Nord Stream e di preparare il mercato locale per l’importazione dello shale americano. Tale politica di penetrazione nel mercato europeo è stata inaugurata con la consegna delle prime forniture di LNG statunitense in Polonia (giugno 2017) e, parallelamente, con l’imposizione di sanzioni a tutte quelle imprese colpevoli di commerciare o fare affari con le personalità o le aziende russe già sanzionate nell’ambito delle misure punitive in seguito all’annessione della Crimea. In questo modo, Washington, oltre che ad aumentare la pressione economica su Mosca riguardo il dossier della crisi ucraina, cerca di condizionare le industrie europee e, soprattutto, quelle impegnate nello sviluppo di progetti energetici, ossia le poche che hanno continuato ad avere rapporti intensi con il Cremlino anche dopo i fatti del 2014.
In ogni caso, la Polonia avrebbe pronto un piano alternativo, chiamato Baltic Pipe, per la costruzione di un condotto che trasporti il gas norvegese in Polonia passando per la Danimarca. Nel giugno 2017, infatti, Varsavia e Copenaghen hanno firmato un memorandum d’intesa per dare il via alle consultazioni preliminari. Secondo le stime del gruppo energetico di Stato polacco PGNiC, il progetto comprenderebbe un doppio condotto, da costruirsi entro il 2020, capace di trasportare in Europa 10 miliardi di metri cubi di gas norvegese all’anno. Nonostante Varsavia stia facendo lobby affinché le istituzioni comunitarie inizino a considerare Baltic Pipe come un’alternativa valida e più sicura rispetto a Nord Stream 2, persistenti elementi di perplessità hanno fatto progressivamente scemare l’interesse di Bruxelles. Baltic Pipe vedrà il suo destino decidersi entro la fine del 2018, quando probabilmente i lavori dell’altro gasdotto baltico saranno già inoltrati. Gli elevati costi del gas norvegese e la minore capacità del condotto polacco porteranno probabilmente la Danimarca a considerare svantaggioso l’investimento, e a preferire l’acquisto di gas russo dalla Germania ad un prezzo decisamente inferiore.
In ultima analisi, nonostante le diffuse ed eterogenee preoccupazioni all’interno dell’arena europea, il gasdotto Nord Stream 2 costituisce una seria minaccia strategica soprattutto per l’Ucraina. Una voce importante delle entrate ucraine deriva infatti dalle imposte di transito che si applicano al gas russo che giunge in Europa attraverso il proprio sistema di pipeline. L’entrata in funzione di Nord Stream 2 rischierebbe di rendere obsoleta la tratta terrestre che attraversa l’Ucraina, privandola di una cospicua fonte di reddito. Secondo le stime, qualora il gas russo evitasse questa rotta, Kiev dovrebbe rinunciare ogni anno a circa 2 miliardi di dollari, circa il 2-3% del proprio PIL. Inoltre, attualmente il gas naturale trasportato attraverso la tratta ucraina costa in media quasi il doppio di quello di Nord Stream 2. Tale sproporzione di prezzo deriva principalmente da due fattori: le tasse applicate dal governo di Kiev sul transito e l’obsolescenza del sistema infrastrutturale, che risale agli anni ’70. Sono molti in Europa, infatti, a criticare aspramente Naftogaz, la compagnia energetica di Stato, dal momento che, a fronte di elevate tariffe e di 300 milioni di dollari investiti dalla European Bank for Reconstruction, il servizio è tutt’oggi farraginoso. Nonostante il punto di vista economico sia fondamentale, in un contesto di persistente dissesto delle finanze pubbliche come quello ucraino, Nord Stream 2 costituisce soprattutto una minaccia per la sicurezza nazionale del Paese. Il gasdotto rientra infatti in una strategia di lungo corso operata dalla Russia per bypassare il territorio ucraino, ritenuto rischioso, attraverso tanto Nord Stream 2 quanto il sistema TAP/TANAP sulla tratta anatolica. Il fatto che buona parte degli idrocarburi russi diretti in Europa passi per il proprio territorio, conferisce infatti a Kiev un solido potere contrattuale. Il contratto tra Kiev e Mosca per il passaggio del gas russo attraverso proprie condutture scadrà nel 2019 e non sembra esserci all’orizzonte la possibilità di un rinnovo, anche perché formalmente l’Ucraina si considera in guerra con la Russia. Qualora l’Ucraina, che non acquista direttamente gas dalla Russia da due anni, perdesse questa assicurazione strategica (benefit from transit), ciò potrebbe al contempo diminuire la sua importanza per l’Unione Europea e incrementare la propria vulnerabilità nei confronti di Mosca e dare eventualmente adito ad un’escalation del conflitto, ad oggi latente.
A fronte di una rapida crescita della domanda e di una netta diminuzione della produzione interna, l’Unione Europea avrà bisogno, da qui al 2035, di 120 miliardi di metri cubi di gas naturale aggiuntivi ogni anno. All’interno di questo scenario l’abbondante gas russo, (basti pensare che Gazprom ogni anno registra circa 100 miliardi di metri cubi di surplus), risulta indispensabile. Se da una parte aumentare la dipendenza europea da un singolo attore, per aggiunta assertivo e prossimo ai propri confini, rappresenta un evidente rischio strategico, dall’altra occorre riflettere sull’altro lato della medaglia, ovvero l’effettiva dipendenza del colosso gasifero russo dal mercato energetico europeo. Stretto da un lato dalla Cina che, perseguendo un’oculata politica di diversificazione delle fonti, è indisposta ad aumentare le proprie importazioni dalla Russia, e dall’altro da un mercato centro-asiatico già saturo, il futuro di Gazprom è in Europa. L’Europa dovrebbe dunque partire da questa considerazione per aumentare il proprio potere contrattuale in vista di una vera e propria strategia energetica comunitaria. Dal momento che il contesto geopolitico è profondamente mutato rispetto al 2011, ai tempi della costruzione di Nord Stream, è necessario prendere tutte le precauzioni securitarie ed economiche possibili per gestire gli import strategici, senza appiattirsi semplicemente alle logiche di mercato. Al fine di inserire il network energetico europeo in un quadro sicuro ed efficiente, non occorre che Bruxelles rinunci completamente al gas di Mosca, ma che lo inserisca piuttosto all’interno di un mercato concorrenziale ben regolamentato in cui tutti i player coinvolti si adeguino a ferrei standard di trasparenza e accountability. Accordi opachi e privilegi concessi bilateralmente, per quanto snelliscano le ipertrofiche procedure comunitarie, rischiano di rivelarsi armi a doppio taglio, in cui l’interesse particolare di un singolo attore rischia di ripercuotersi negativamente sull’interesse universale. Non è infatti un caso se da sempre la Russia predilige le modalità di contrattazione bilaterale, attraverso le quali può perseguire la logica del “divide et impera” all’interno del contesto europeo. Nonostante Mosca si sia tenuta ufficialmente al di fuori dell’aspro dibattito politico nato intorno a Nord Stream 2, ponendosi come parte terza interessata soltanto ai risvolti economici del progetto, nella valutazione globale dei rischi non va mai dimenticato il fatto che, tradizionalmente, il Cremlino ha sempre perseguito un uso strategico-militare degli asset economici, non ultimo il gas naturale.