Libano, la guerriglia urbana e il fantasma politico dell’inchiesta sul porto di Beirut
Giovedì 14 ottobre, l’area meridionale di Beirut è stata teatro di violenti scontri tra supporter di Hezbollah e Amal da un lato e non meglio precisati uomini armati presenti nei quartieri cristiani dall’altro. Gli scontri sono costati sette vittime e oltre sessanta feriti. Le tensioni sono iniziate durante una protesta organizzata dal movimento sciita Amal che aveva lanciato una grande manifestazione di protesta alla rotonda di Tayyoune, nella parte sud della capitale libanese, in direzione del Palazzo di Giustizia per protestare contro il giudice Tarek Bitar, incaricato di indagare sulle responsabilità politiche dell’esplosione al porto cittadino dell’agosto 2020. Secondo alcune ricostruzioni, mentre i partecipanti al corteo si riversavano nelle strade, alcuni cecchini non ancora identificati hanno iniziato a sparare dai tetti dei palazzi lì vicino nella direzione della folla. La situazione è degenerata rapidamente, vedendo non solo il coinvolgimento delle forze speciali dell’Esercito, ma soprattutto dei miliziani armati di Amal ed Hezbollah. I gruppi sciiti hanno addossato immediatamente le responsabilità nei confronti delle Forze Libanesi (LF), il partito di stampo cristiano-liberale che avrebbe avuto un ruolo centrale nell’attacco. Queste ultime però si sono dette estranee agli eventi, accusando invece Amal ed Hezbollah di sfruttare la situazione per fomentare l’opinione pubblica a proprio favore.
La guerriglia urbana si colloca nel forte clima di tensioni che sta attraversando il Libano dal 2019, colpito da una recessione senza precedenti, da frequenti blackout elettrici e da una dilagante corruzione che ha colpito trasversalmente l’intera classe dirigente nazionale. Negli ultimi due anni il Paese ha vissuto, infatti, un deterioramento generale delle condizioni di vita dei suoi cittadini, malessere espresso ampiamente durante le manifestazioni che si tengono ciclicamente dall’ottobre del 2019, durante le quali i libanesi erano scesi in piazza nelle principali città del Paese per protestare contro l’inadeguatezza delle risposte governative ai problemi ordinari della comunità intera nazionale. In questo scenario, l’esplosione del porto di Beirut è stato un acceleratore di quelle difficoltà vissute dal Paese. Il nervosismo derivante dalle indagini sulla catastrofe ha mostrato quindi una trasversale “sensibilità” dei partiti a ostacolare il lavoro della magistratura. Allo stato attuale e in base alle prime indiscrezioni emerse dalle indagini, i principali indiziati sono alcuni ex Ministri appartenenti ad Amal che all’epoca dei fatti ricoprivano ruoli cardine nella politica libanese. Tarek Bitar, ha provato a mettere sotto accusa diversi deputati, i quali però hanno reclamato il diritto all’immunità e hanno tentato di ricusare il magistrato incaricato con il chiaro intento di portare a congelamento l’inchiesta.
Il fattore scatenante l’attuale nervosismo di buona parte della classe politica libanese è stato il mandato di cattura emesso nei confronti di Ali Hassan Khalil, ex Ministro delle Finanze, nonché braccio destro del Presidente del Parlamento e leader di Amal, Nabih Berry. Il provvedimento ha portato, soprattutto, i partiti sciiti ad assumere toni accesi nei confronti di Bitar accusandolo di essere di parte e inadatto al suo ruolo, minacciando addirittura di ricorrere alla forza qualora le indagini fossero diventate troppo politicizzate. Di fronte ad attriti e dissidi, le manifestazioni si sono trasformate in scontri armati, facendo rivivere a Beirut le tristi analogie con lo spettro della guerra civile (1975-1990).
Il diffuso nervosismo e il forte ostruzionismo mostrato da parte di Amal ed Hezbollah ha evidenziato un timore non tanto nei confronti delle indagini, quanto sull’emergere di possibili responsabilità che mettano in evidenza un ruolo politico dei suddetti attori nelle origini del disastro portuale. In questa prospettiva, il lavoro della magistratura libanese potrebbe rivelarsi un game changer per la classe dirigente nazionale, mettendo difatti sotto accusa un corrotto e stagnante arco politico e istituzionale. Tuttavia, nessuno degli attori coinvolti vorrebbe un’esacerbazione tale delle tensioni che potrebbe condurre il Paese a nuove situazioni di violenza e/o ad una messa in discussione delle fondamenta dello stesso Stato confessionale libanese. Difatti le principali formazioni partitiche mirano a mantenere lo status quo, tutelando la propria posizione nello scenario politico. La gestione del potere, così come il sistema di suddivisione delle cariche, per quanto problematico e non egualitario, regola da sempre non solo la vita politica del Paese ma anche quella sociale ed economica, rendendo estremamente complesso qualsiasi tipo di cambiamento in questo senso. Di fronte ad un establishment troppo impegnato a difendere il proprio status, l’inchiesta potrebbe essere boicottata, lasciando il Libano in una condizione di stallo che non prevede, almeno per il momento, vie di uscita.