Le prospettive di riconciliazione fra Stati Uniti e Iran
Le elezioni iraniane tenutesi lo scorso 14 giugno hanno visto la vittoria del candidato pragmatico conservatore, Hassan Rouhani, unico membro del clero in corsa per le presidenziali. Esse rappresentano l’inizio di un nuovo capitolo per questo paese, non solo dal punto di vista politico interno, ma anche per quello internazionale e, specialmente, nei rapporti con gli Stati Uniti.
La precedente presidenza Ahmadinejad (durata dal 2005 al 2013), ma soprattutto il programma nucleare che ha portato avanti, è valso all’Iran pesanti sanzioni di tipo economico da parte del Consiglio di Sicurezza, Unione Europea e Stati Uniti. Il regime di Teheran è stato, infatti, accusato di sviluppare un programma nucleare con sospetti scopi militari, in chiara violazione del TNP (Trattato di non proliferazione nucleare) di cui l’Iran è parte.
Hassan Rouhani ha ribaltato in pochi mesi, almeno a parole, l’atteggiamento tenuto in politica estera dal suo predecessore, plasmando una nuova e potenzialmente epocale fase dei rapporti iraniani con la comunità internazionale, in particolare con gli Stati Uniti del presidente Obama. Il primo punto all’ordine del giorno per Rouhani è proprio quello del programma nucleare: se infatti Ahmadinejad, con la sua retorica aggressiva nei confronti di Stati Uniti e Israele era riuscito a farsi il vuoto intorno, Rouhani cerca al contrario di rassicurare americani e occidentali sulla rinuncia iraniana di dotarsi di armi nucleari, in cambio di un’abolizione totale delle sanzioni e soprattutto di una nuova accettazione del suo paese nel circuito politico-economico globale. Mai come oggi, se consideriamo la storia degli ultimi 30 anni circa dal 4 novembre del ’79, le condizioni sono state favorevoli a far sperare in un’evoluzione che porti ad una distensione con gli Stati Uniti. Il percorso non si preannuncia comunque semplice a causa di sospetti e interessi in gioco.
Se è vero da un lato che il cambio alla presidenza è stato visto positivamente, rimane dubbia la posizione della Guida suprema Ali Khamenei. Quest’ultimo, da sempre sostenitore di una politica critica nei confronti degli Stati Uniti, ha stupito i suoi denigratori lo scorso 17 settembre durante un incontro con i membri dell’IRGC - Iranian Revolutionary Guard Corps (Pasdaran) – durante il quale si è espresso molto chiaramente su due aspetti: il sostegno ai negoziati intrapresi da Rouhani e la necessità che i Pasdaran si tengano fuori dalla politica interna. È anche vero, però, che nel discorso agli studenti del 3 novembre, giorno che precede l’anniversario della presa dell’ambasciata USA a Teheran, Khamenei ha ripreso i toni accesi di sempre, dichiarando di non essere ottimista sui negoziati con l’occidente e, riferendosi all’episodio del 4/11/79, ha affermato che “Tutte le ambasciate USA sono covi di spie". I dubbi, quindi, rimangono e solo l’evolversi degli eventi potrà permettere di fare luce sulla fondamentale posizione di Khamenei.
L’inizio del possibile disgelo tra Iran e USA vede il suo inizio nel discorso del presidente Rouhani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e nella conseguente telefonata tra il presidente iraniano e Obama. Tuttavia, come spesso avviene in politica internazionale, prima di arrivare alle aperture contenute nelle dichiarazioni pubbliche, ci sono passaggi informali, fatti per sondare l’atteggiamento dell’interlocutore riguardo al percorso che s’intende intraprendere. A questo proposito, è stato lo stesso presidente Obama a confermare che c’è stato uno “scambio di lettere” con il nuovo capo del governo iraniano e lo ha definito “una persona che punta al dialogo con l’Occidente e con gli Stati Uniti in una maniera alla quale in passato non abbiamo assistito”. La fase successiva è rappresentata dal precedentemente menzionato intervento di Rouhani alle Nazioni Unite, dove ha dichiarato la disponibilità iraniana a intraprendere un dialogo costruttivo e scadenzato per trovare un punto d’incontro sulla questione del programma nucleare.
Sottolineando l’aspetto esclusivamente civile del programma, Rouhani ha puntato sulla trasparenza e sulla verificabilità dei programmi di arricchimento dell’uranio, come presupposti per iniziare il negoziato. Il tono dei due interlocutori, nonostante qualche vena polemica, può essere ritenuto sostanzialmente positivo e fa ben sperare in un’imminente apertura di contatti e negoziati. Il 15-16 ottobre successivo, a Ginevra, la Comunità Internazionale ha potuto saggiare nei fatti, dopo le tante parole, il nuovo approccio del presidente Rouhani. I negoziati intrapresi da Iran e dal gruppo dei “5+1” (USA, Regno Unito, Francia, Russia, Cina e Germania), sui quali è stato posto il più assoluto riserbo, hanno tuttavia evidenziato, a seguito d’indiscrezioni trapelate, che i risultati vadano concretizzati nel più breve tempo possibile: questo è un aspetto estremamente importante sia per l’Iran, il quale vedrebbe finalmente la fine delle gravi sanzioni economiche che hanno messo a dura prova l’economia nazionale negli ultimi 6 anni, ma anche per i paesi del “5+1” che hanno tutta l’urgenza di dimostrare l’efficacia del processo negoziale, almeno fino a questo punto incapace di arrestare il progresso del programma nucleare.
Il percorso verso una distensione risulta comunque lungo e difficoltoso, come dimostrato dal mancato accordo con il “5+1” a novembre, apparentemente dopo che le parti avevano quasi raggiunto un compromesso. L’ostacolo principale è rappresentato dalla forte diffidenza della Comunità Internazionale nei confronti di Teheran, senza dimenticare, poi, lo scontro interno al regime fra fazioni oltranziste e governo Rouhani. I nemici di una seria trattativa di apertura e mediazione nei confronti dell’Iran sulla questione nucleare, che continua a rappresentare ad oggi il principale ostacolo alla normalizzazione dei rapporti con gli americani, esortano il presidente Obama a non cedere sulle sanzioni, perché sarebbe proprio grazie ad esse che l’Iran ha imboccato la via del negoziato. Questo giudizio è ampiamente condiviso da parte di coloro che appoggiano gli interessi sauditi e che si dichiarano contrari a qualsiasi forma di apertura nei confronti dell’Iran.
La questione dell’Arabia Saudita è tuttavia ancora più complessa, dato che per essa sono in gioco la posizione geopolitica nell’area ed il ruolo di stato-guida del mondo islamico. In quest’ottica c’è però una sostanziale differenza tra i due: se la stabilità della dinastia saudita è fortemente basata sui petrodollari, lo stesso non si può affermare a proposito dell’Iran che, al netto dei dubbi sulla futura stabilità del regime islamico, presenta comunque dei fondamentali economici e sociali più solidi. Israele infine, che da sempre ha avuto un atteggiamento estremamente negativo nei confronti dell’Iran, è rimasto tutt’altro che ammaliato dalle parole del neopresidente. L’antisionismo insito nella Repubblica Islamica è certamente uno dei principali motivi della diffidenza di Netanyahu, che ha definito l’apertura di Rouhani alle Nazioni Unite come “lupo travestito da agnello”.
Per quanto riguarda le lotte interne al regime iraniano, la persistenza di fazioni conservatrici fortemente opposte alla corrente pragmatica di Rouhani, nonostante la sua schiacciante vittoria elettorale, rende la missione del presidente tutt’altro che scontata o lineare, e, soprattutto, sottopone il suo operato al rigido vaglio della Guida Suprema Khamenei. Inoltre, molti conservatori sono stati integrati all’interno del neo-nato esecutivo, data la necessità di un governo di larghe intese, avente il fine di garantire una maggiore stabilità al paese. La stessa problematica è presente all’interno del Congresso americano, dove serpeggia tra i congressisti repubblicani e quelli politicamente vicini a Israele e alla comunità ebraica l’idea che l’apertura di Rouhani sia, senza mezzi termini, un disperato tentativo per cercare di limitare i danni causati dalle sanzioni economiche in modo tale da garantire la sopravvivenza del regime.
A conclusione non resta che aspettare i prossimi colloqui (30 novembre). Al di là dei proclami, la fine del periodo di gelo tra Usa e Iran non è senz’altro concretizzabile nel giro di qualche mese. Permangono infatti molti aspetti interni che rischiano di minare le fondamenta di un dialogo duraturo. L’aspetto su cui è necessario trovare celermente un punto di accordo in tal senso è la questione del programma nucleare iraniano, motivo di attriti e forte disappunto negli ultimi anni. Una volta risolto questo spinoso problema sarà possibile, con la dovuta cautela, iniziare a parlare di disgelo tra Stati Uniti e Iran.