L’attacco israeliano all’Iran: analisi preliminare e prospettive su impatti ed evoluzioni
Nelle prime ore del 26 ottobre, le Israeli Defense Forces (IDF) hanno effettuato l’attesa rappresaglia contro la Repubblica Islamica dell’Iran, in risposta alla salva di missili balistici lanciati da Teheran contro Israele il primo ottobre scorso. L’operazione è stata preceduta, nei giorni scorsi, dal bombardamento israeliano di obiettivi in territorio siriano al fine di predisporre un corridoio aereo per i velivoli dell’Israeli Air Force (IAF) diretti verso l’Iran.
Sulla base delle informazioni disponibili, l’attacco israeliano dovrebbe essersi articolato in tre serie di sortite consecutive contro una ventina di bersagli militari in almeno tre province iraniane: Teheran, Ilam e Khuzestan. L’IAF ha impiegato un centinaio tra aerei e droni, inclusi F-35I Adir, plausibilmente penetrando lo spazio aereo iraniano attraverso la direttrice siro-irachena. Gli israeliani hanno prima neutralizzato una serie di sistemi di difesa aerea a medio e lungo raggio, tra cui un MiM-23 Hawk ed un S-300, al fine di minimizzare il rischio di abbattimento e massimizzare l’effetto dello strike. Un dato interessante riguarda l’impiego significativo di missili balistici aviolanciati (ALBM - Air Launched Ballistic Missile), combinati con alcuni sistemi esca senza testata (decoys) analogamente utilizzati con la finalità di limitare l’esposizione degli aerei dell’IAF e ridurre l’efficacia della difesa aerea iraniana.
Una volta indebolita la difesa aerea del nemico, l’attacco israeliano si è concentrato sui siti industriali ed operativi del programma missilistico del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran), nonché sui centri di produzione dei droni e sulle infrastrutture di comando, controllo e comunicazione (C3 - Command, Control and Communications), inclusi quelle del Ministero della Difesa a Teheran. Nonostante le difese aeree iraniane abbiano comunque intercettato alcuni vettori d’attacco, altri bersagli hanno riportato danni significativi. Principale obiettivo all’interno dei siti colpiti risultano i pregiati miscelatori per combustibile solido per missili balistici, nonché i sistemi di difesa aerea posti a protezione di alcune infrastrutture per lo stoccaggio e la raffinazione di idrocarburi. A seguito degli attacchi, inoltre, si registrano almeno quattro vittime tra l’Esercito regolare iraniano (Artseh) e una tra la popolazione civile. In questo momento, non è ancora possibile stabilire con assoluta certezza il numero totale e la precisa allocazione di tutti gli obiettivi colpiti.
Dal punto di vista israeliano, l’attacco ottempera ad un triplice scopo:
-
concretizzare la risposta all’attacco iraniano del primo ottobre e, dunque, ribadire la volontà di ribattere colpo su colpo all’assertività dell’ “Asse di Resistenza”, al fine di ristabilire una deterrenza regionale ferma ed incontestabile;
-
inibire parte delle capacità militari iraniane nel breve periodo e provare ad accentuare le divisioni interne tra intransigenti e pragmatici;
-
congelare momentaneamente la questione iraniana per concentrarsi su Striscia di Gaza, Cisgiordania e Libano meridionale. Tuttavia, quanto avvenuto non esclude che Tel Aviv opti per altre iniziative simili nel prossimo futuro, sfruttando l’approssimarsi delle elezioni statunitensi e la sempre minore libertà di manovra del Presidente americano.
In ogni caso, l’analisi dell’attacco permette di affermare che Israele abbia parzialmente ceduto alle pressioni di Washington e abbia scelto di colpire obiettivi dal ritorno militare e di sicurezza immediato e politicamente più semplici da gestire (l’industria della difesa, i centri di comando e controllo e il comparto missilistico). Dunque, non sono stati colpiti i siti nucleari, che non pongono una minaccia immediata, né tantomeno i siti di estrazione, raffinazione e commercializzazione del petrolio che avrebbero potuto condizionare il mercato mondiale dell’oro nero e innescare una contro-reazione iraniana (tramite gli Houthi o milizie proxy) contro Arabia Saudita e Iraq.
Da par suo, l’Iran ha cercato di minimizzare quanto accaduto, parlando di un attacco dalla scarsa efficacia e poco significativo. Questo atteggiamento serve a raffreddare il fronte interno e le pressioni di quanti vorrebbero una contro-rappresaglia nel breve termine. Per il futuro, la possibile risposta iraniana è legata alla valutazione dei danni subiti e di quelli che potrebbero verificarsi in caso di un nuovo e più massiccio raid israeliano. In tal senso, qualora prevalesse il fronte che vuole contrattaccare, l’indebolimento delle capacità di risposta potrebbe avere l’effetto di ritardare l’azione nel breve periodo. Nel complesso, la credibilità della leadership iraniana, sia all’interno che verso i proxy regionali, è nuovamente messa alla prova soprattutto alla luce del completo superamento reciproco delle vecchie linee rosse e del conseguente transito in una terra incognita politica e militare.
In prospettiva, in Iran ci si prepara a un nuovo scontro tra pragmatici, che inviteranno alla prudenza, e radicali, tra cui buona parte dei vertici dei Pasdaran, i quali spingeranno invece per rilanciare dal punto di vista militare. Anche se la linea della cautela potrebbe prevalere nel breve per ragioni di opportunità, è molto probabile che di fronte a un’eventuale nuova mossa israeliana volta ad aumentare la pressione sull’Iran il fronte più intransigente spinga e ottenga una risposta di carattere militare.
Il rischio di ulteriore escalation resta dunque estremamente elevato. Qualora questa tendenza non fosse inibita, uno scontro ampio regionale sarebbe inevitabile e, in questo scenario, tutti gli attori dovranno assumere una posizione più netta e partecipativa (USA, UE, Paesi arabi e anche Italia). Gli Stati Uniti, al di là di chi sarà eletto Presidente, manterranno il supporto militare, politico e diplomatico a Tel Aviv, seppur con sfumature differenti. Con Trump la pressione nei confronti dell’Iran, in particolare, sarà verosimilmente massima, mentre con Harris si proseguirà con tentativi diplomatici probabilmente infruttuosi. Entrambi i Presidenti punteranno a evitare un coinvolgimento militare ampio e diretto degli USA.
Dal canto loro, i Paesi arabi punteranno a rimanere neutrali: Egitto e Giordania sono meno esposti, ma più interessati agli scenari di Gaza, Cisgiordania e Mar Rosso; Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar guardano con preoccupazione per impatti diretti (eventuali attacchi Iran) e indiretti (droni Houthi) sui rispettivi suoli nazionali con particolare attenzione alle infrastrutture energetiche. I Paesi europei e l’ONU rischiano di avere un ruolo pericolosamente marginale.
L’intero Medio Oriente, quindi, potrebbe conoscere una nuova stagione di instabilità diffusa, con nuove fiammate di violenza nei Paesi della regione e in Occidente (terrorismo, strumentalizzazione filo-palestinese, anti-semitismo) e impatti economici non trascurabili (innalzamento del prezzo del petrolio e della logistica commerciale marittima).