La Giordania verso il voto, tra nuove proteste e l’incognita della Fratellanza Musulmana
Middle East & North Africa

La Giordania verso il voto, tra nuove proteste e l’incognita della Fratellanza Musulmana

By Anthea Favoriti
10.13.2020

Il 27 settembre scorso Re Abdullah II, monarca del regno Hashemita di Giordania, ha emanato un decreto reale con cui ha ufficialmente sciolto il Parlamento un giorno prima della scadenza formale del suo mandato. Secondo quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 74 della Costituzione, una volta sciolta la Camera dei rappresentanti, l’esecutivo di Amman è costretto a dimettersi entro una settimana. Conformemente alle disposizioni costituzionali, il 4 ottobre Re Abdullah II ha accettato le dimissioni dell’attuale Primo Ministro Omar al-Razzaz. Tre giorni più tardi ha nominato come capo di governo ad interim Bisher al-Khasawneh, suo stretto consigliere ed ex Ministro degli Esteri. Khasawneh traghetterà il Paese verso le elezioni legislative previste il prossimo 10 novembre. La Giordania si trova a dover affrontare una situazione di subbuglio politico, come dimostrano le molteplici sfide con cui si sta confrontando il Regno all’indomani dell’ultima tornata elettorale. In particolare, i delicati equilibri politici sono stati alterati dal ritorno della Fratellanza Musulmana nello scenario politico istituzionale, dopo le ultime elezioni del 2016 e a seguito del boicottaggio dei due precedenti appuntamenti elettorali (2010 e 2013). Dal 2018 il Paese è attraversato da ondate di protesta ricorrenti, che sono sfociate nelle crescenti tensioni tra il governo di Amman e il Jordanian Teachers’ Syndicate (Jts, il Sindacato giordano degli insegnanti). Infine, le ricadute socio-economiche della pandemia che rischiano di aggravare un già difficile quadro generale.

In tale contesto, le elezioni del 10 novembre costituiranno un importante banco di prova per il futuro delle relazioni tra la monarchia e il Fronte di Azione Islamico (FAI), braccio politico locale della Fratellanza Musulmana, costituito nel 1993 e principale gruppo dell’opposizione al governo di Amman. Il 21 settembre scorso, il FAI ha annunciato la propria partecipazione alla tornata elettorale. Una dichiarazione fortemente inattesa, date le tensioni succedutesi nei mesi scorsi tra il movimento islamico e il governo.  La Fratellanza Musulmana, fin dalla sua fondazione nel 1945, ha da sempre preso parte alla vita politica giordana sviluppandosi per molti anni in simbiosi con la monarchia, riuscendo a integrare le proprie convinzioni politiche (incentrate sulla costituzione di una società islamica) in quelle del regime (maggiormente filo-occidentale). Nel 1993 questo rapporto entrò, tuttavia, in crisi quando il governo adottò una legge sui partiti politici, obbligando tutti i movimenti intenzionati a partecipare alle elezioni previste quell’anno a costituirsi in formazioni partitiche. Il gruppo rispose con la fondazione del Fronte di Azione Islamico (a maggioranza palestinese), che divenne ben presto il braccio politico più vicino al nucleo originario della Fratellanza.

Dal 1997, anno in cui la Fratellanza decise di boicottare le elezioni, le faglie in seno al movimento aumentarono e furono costituite nuove formazioni alternative, come ad esempio la Muslim Brotherhood Association (registrata nel 2015), non affiliata alla casa madre_,_ a prevalenza transgiordana e maggiormente dialogante col regime rispetto al nocciolo duro della Fratellanza. Il suo riconoscimento da parte del governo mise in seria difficoltà il movimento originario che si ritrovò a operare senza licenza. Pertanto, gli Ikhwan (in arabo “i fratelli”) decisero di portare il proprio caso in tribunale. Tale contenzioso è rimasto pendente fino allo scorso 15 luglio, giorno in cui la Corte di Cassazione di Amman ha emesso un verdetto finale in cui si dichiara la dissoluzione ufficiale del movimento e la conseguente perdita del suo status giuridico. La sentenza sembrerebbe mostrare una volontà di controllo del gruppo da parte delle autorità, le quali temono che il Fronte di Azione Islamico radicato soprattutto tra la comunità giordana di origine palestinese - i cosiddetti West-bankers - possa alimentare disordini sociali.

La società giordana si divide, tradizionalmente, in due macro gruppi. Da un lato, vi sono i cosiddetti “transgiordani” o East-bankers, discendenti dalle tribù beduine (tra cui anche la famiglia reale) presenti nelle zone a est del fiume Giordano, perfettamente integrati nel sistema istituzionale e di impiego pubblico (Forze Armate incluse). Dall’altro lato, i giordano-palestinesi o West-bankers, discendenti dai palestinesi della West Bank giunti in Giordania dopo la costituzione dello Stato di Israele (1948) e poi in seguito all’occupazione israeliana della Cisgiordania_,_ impiegati per lo più nel settore privato. Questi ultimi sono storicamente più vicini all’opposizione, attualmente rappresentata dalla Fratellanza Musulmana e contrapposti alla popolazione beduina locale, che costituisce lo zoccolo duro del consenso alla monarchia. Il supporto delle tribù alla famiglia reale risale alla formazione del regno di Transgiordania durante le due guerre mondiali, anni in cui le tribù beduine giocarono un ruolo fondamentale nella formazione di un’identità giordana. Gli East-bankers rappresentano una piccola ma ricca minoranza residente nelle aree rurali del Paese, a differenza della comunità palestinese che risiede principalmente nei distretti urbani delle grandi città. Questa distribuzione demografica delle due comunità si riflette nella legge elettorale del 1993 che regola la selezione dei membri del parlamento nazionale. Secondo tale normativa, le aree rurali godono di una rappresentanza parlamentare che eccede la loro dimensione demografica; al contrario, le aree urbane sono sottorappresentate al fine di garantire una maggioranza parlamentare composta da transgiordani.

Negli anni, sia la società civile giordana sia numerosi attori politici chiesero una revisione di tale legge. Solamente nel 2016 il governo decise di approvare un nuovo provvedimento abrogando la normativa del 1993. Quest’ultima favoriva da un lato il voto tribale (non garantendo una equilibrata rappresentanza dei centri urbani) e dall’altro, determinava una cronica debolezza del sistema partitico a causa del limitato numero di rappresentanti eleggibili da liste nazionali. Di contro, la riforma del 2016 ridusse il numero dei seggi da 150 a 130 e abolì la formula basata sul voto singolo non trasferibile (altrimenti conosciuto come sistema one man-one vote), consentendo agli elettori di votare più di un candidato all’interno di un sistema proporzionale di liste distrettuali. Tuttavia, la questione della sovra-rappresentazione dei distretti rurali (a maggioranza transgiordana) su quelli urbani (dove gli islamisti raccolgono tradizionalmente più consensi) permane ancora oggi. La nuova legge elettorale continua, infatti, a penalizzare i gruppi politici di opposizione, giacché l’obbligo di comporre liste elettorali distrettuali forza i partiti a dover favorire candidati conosciuti_,_ in grado di attrarre il maggior numero di consensi sul territorio_,_ indebolendo in questo modo l’affiliazione partitica e privilegiando quella tribale.

Benché il Fronte di Azione Islamico abbia annunciato la propria partecipazione alle prossime elezioni, al momento sembrerebbe non essere intenzionato a sfidare apertamente la monarchia ma solidale nel sostenere le rivendicazioni di alcuni fra i principali gruppi di opposizione al governo come il Jordanian Teachers’ Syndicate (Jts) (il Sindacato giordano degli insegnanti), considerato dal Regno come un organo controllato dalla sezione giordana dei Fratelli musulmani. Nel Paese la contestazione che ormai da anni è rivolta contro il governo piuttosto che affievolirsi di fronte ai tentativi di apertura effettuati dal regno, si è saldata attorno a diversi poli di opposizione. In quest’ottica oltre al Fronte di Azione Islamico, si possono individuare i movimenti sociali e i sindacati, oramai fra le poche forze politiche in grado di porre serie rivendicazioni all’autorità statuale. Nel contesto giordano, il Jts si trova al centro di una controversia politica con il governo che ha raggiunto il culmine lo scorso 25 luglio, quando Amman ha disposto la chiusura della sede del sindacato a Nakkar, il fermo per due anni delle sue attività e l’arresto di 13 fra i suoi membri di spicco.

La mossa ha innescato un moto nazionale, con imponenti proteste solidali, diffusosi nelle principali città del Paese. La richiesta principale del movimento è l’attuazione di un accordo siglato nel 2019, che prevedeva un aumento dei salari dal 35% al 60%, promesso dalle autorità nel 2014 ma mai davvero attuato. Il sindacato aveva risposto organizzando una dura protesta e imponendo la chiusura delle scuole per circa un mese. A questi elementi di forte instabilità politica si salda inoltre la congiuntura economica resa particolarmente sfavorevole dalla crisi sanitaria mondiale, che non ha risparmiato il Regno Hascemita. Secondo le stime governative per il 2020, l’economia subirà una contrazione complessiva del 3,5%, il tasso di disoccupazione raggiungerà il 19,3% (dato che interessa circa il 40% della gioventù giordana) e il debito pubblico ammonterà a più di 42 miliardi di dollari (pari a circa il 97% del PIL), confermando il tasso di crescita frenetico degli ultimi dieci anni che ha frenato l’adozione di una serie di riforme strutturali e che sarebbero state tuttavia necessarie per dare nuovo impulso al Paese. Ciò ha portato la Giordania a essere fortemente dipendente dall’estero, sia dagli aiuti che provengono dal Golfo sia dai finanziamenti erogati dal Fondo monetario internazionale (FMI). Nella primavera del 2020, quest’ultimo ha approvato una nuova richiesta del Paese di assistenza finanziaria d’emergenza per un importo di circa 396 milioni di dollari. Una somma che rientra nel cosiddetto Strumento di finanziamento rapido (Rfi) dell’FMI,  creato per aiutare i Paesi membri ad affrontare un urgente bisogno finanziario.

Le proteste che stanno scuotendo il Regno hanno messo in discussione anche la politica economica dei governi che si sono succeduti, fatte di tagli allo stato sociale imposti dalla linea dura del FMI. Sebbene nelle ultime settimane le manifestazioni abbiano iniziato a rallentare a fronte degli arresti perpetrati dagli apparati di sicurezza (si contano al momento 1000 carcerazioni), il malcontento che le ispira permane e potrebbe rappresentare una seria ipoteca sulle elezioni parlamentari previste per il prossimo novembre e sulla qualità del consenso di cui potrà beneficiare il futuro assetto istituzionale. Tuttavia, rispondere alla pressione politica con riforme istituzionali ed economiche dalla natura più che altro dimostrativa nei confronti sia della società civile sia dei principali gruppi politici di opposizione, garantirebbe alla monarchia di sedare temporaneamente il malcontento e assicurarsi ancora una volta il mantenimento dello status quo.

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