Il Libano tra nuovo esecutivo e crisi energetica senza precedenti
Lunedì 20 settembre in Libano si è tenuta una delle più attese sedute parlamentari dell’anno, che ha visto il pronunciamento dell’Assemblea in favore del nuovo governo del Premier Mikati. Pur avendo avuto un risvolto positivo, la sessione è stata caratterizzata sin dal mattino da ritardi causati da blackout continui della corrente elettrica, testimoniando ancora una volta il collasso politico, economico e sociale a cui è andato incontro lo Stato libanese in questi ultimi anni.
Il Paese infatti vive una forte penuria di elettricità e carburante che ha drasticamente peggiorato le condizioni di vita dei cittadini. Il governo Mikati si è instaurato dopo più di un anno di stallo politico, promettendo azioni efficaci per uscire dalla crisi paralizzante attraverso riforme mirate e un aperto dialogo con il Fondo Monetario Internazionale. Il tracollo economico e finanziario del Libano ha però radici lontane, derivante da oltre 30 anni di malagestione ed esacerbato dall’esplosione del porto di Beirut e dalla pandemia da Covid-19. La sfida del neo Premier sarà quindi anche quella di ricostruire la fiducia dei cittadini nel governo e nelle istituzioni pubbliche. Una difficoltà del compito che sarà comunque amplificata dal grado di operatività di un importante attore dello scenario politico libanese come Hezbollah. Per far fronte alla crisi imperante, il Partito di Dio ha infatti chiesto supporto finanziario all’Iran senza tuttavia ricercare il consenso del governo centrale. Azioni, queste, che rischiano di mettere in discussione la già debole tenuta del Paese, rendendo difficile ristabilire un rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini. Emblematico in tal senso è quanto avvenuto il 16 settembre, quando un convoglio di 80 camion, ognuno dei quali trasportava 50.000 litri di carburante iraniano, è entrato nella regione della Valle della Beka’a, nel Libano orientale, dalla Siria insieme alla prima nave cisterna iraniana (approdata sempre in Siria) contenente 50 milioni di litri di carburante.
Se la mossa populista di Hezbollah mira ad assorbire la rabbia popolare (non solo sciita) attraverso un miglioramento di facciata della condizione di crisi che sta affliggendo il Paese, bisogna però evidenziare che il problema del carburante non risiede tanto nell’incapacità di importazione, bensì nella distribuzione ai consumatori. Esso difatti viene contrabbandato in Siria perché il prezzo della tanica è inferiore al suo costo, facendo sì che le importazioni non siano allocate nel mercato interno. Molti libanesi sono intimoriti inoltre che l’intervento iraniano possa far scattare le sanzioni economiche statunitensi: infatti il carburante importato è arrivato dall’Iran attraverso la Siria ed è stato trasportato da Hezbollah, coinvolgendo proprio i tre attori soggetti all’embargo economico e commerciale americano. A tal proposito, la scorsa settimana gli Stati Uniti hanno apposto ulteriori misure restrittive al Libano e ai canali di finanziamento con sede in Kuwait che supportano il Partito di Dio, nonché alle società di facciata che sostengono sia il movimento islamista sia l’Iran, benché ad oggi, l’Ambasciatrice statunitense a Beirut non ha ancora accennato a possibili minacce di ritorsione. Anche in questa ottica, l’arrivo di petrolio iracheno, raffinato negli Emirati Arabi Uniti, e la vendita di gas naturale egiziano a prezzi ribassati di mercato punterebbero ad offrire un’alternativa plausibile alle istituzioni libanesi, trovando un sostegno politico concreto nella comunità araba-sunnita regionale e nella Casa Bianca.
Dinanzi a queste incognite, le sfide pendenti in capo al nuovo esecutivo si preannunciano numerose e non prive di rischi. Tuttavia è evidente che uno dei fronti di intervento più immediati e preoccupanti dovrebbe essere il tamponamento della sete energetica nel Paese, che se non oculatamente affrontata potrebbe mettere in ginocchio qualsivoglia attività economica e sociale e decretare un aggravamento di una crisi senza precedenti.