Geopolitical Weekly n.317
Afghanistan
Il 5 febbraio a Mosca si è tenuto un incontro tra una delegazione dei talebani e rappresentanti dello spettro politico e della società civile afghana, guidati dall’ex presidente Hamid Karzai. L’obiettivo era fornire un’opportunità di dialogo e confronto sulle possibilità di risolvere la crisi che interessa il Paese da ormai diciotto anni.
Non erano presenti i rappresentanti del governo guidato dal Presidente Ashraf Ghani, eletto nel 2014 e ricandidato per le elezioni di luglio. L’esclusione del governo di Kabul, avvenuta su richiesta dei talebani che lo considerano illegittimo, potrebbe creare un’ulteriore spaccatura nella delicata congiuntura politica e sociale dell’Afghanistan, rendendo non solo incerta la sostenibilità del processo di pace ma anche complicato il già difficile rapporto tra le diverse anime del panorama politico nazionale.
L’incontro di Mosca, inoltre, si è collocato, di fatto, al di fuori del canale di negoziati con la leadership talebana promosso dagli Stati Uniti ormai da diversi mesi. A gennaio l’inviato degli Stati Uniti per l’Afghanistan, Zalmay Khalizdad, aveva incontrato i talebani a Doha, in Qatar. In quell’occasione era stata raggiunta un’intesa di principio per l’apertura di un dialogo più strutturato: i talebani si sarebbero impegnati per evitare che l’Afghanistan divenisse territorio d’appoggio per gruppi terroristici internazionali; gli Stati Uniti, dal canto loro, avrebbero predisposto il ritiro delle proprie truppe dal Paese entro aprile. Su quest’ultimo punto Washington non sembra però avere ancora preso una decisione definitiva. Nonostante dopo i colloqui di Doha il Presidente Trump avesse annunciato il ripiegamento del contingente statunitense, l’opposizione da parte della maggioranza del Congresso ha considerevolmente rallentato l’effettiva esecuzione di quella che continua ad essere solamente una delle ipotesi sul tavolo. Questa incertezza potrebbe avere un impatto sul prossimo incontro tra Khalizdad e la leadership talebana, che considera il totale disimpegno delle Forze straniere un presupposto fondamentale per porre termine all’insorgenza interna e dar seguito ai colloqui di pace con una prospettiva di lungo periodo.
Libano
Il 1 febbraio, è stata annunciata ufficialmente la nascita del nuovo governo libanese, dopo quasi nove mesi di estenuanti trattative politiche seguite alle elezioni legislative del 6 maggio 2018. Si tratta di un governo d’unità nazionale, frutto di un’intesa raggiunta tra il Primo Ministro Saad Hariri, principale riferimento per la comunità sunnita, ed il partito-movimento sciita Hezbollah.
Alle elezioni politiche dello scorso maggio, la coalizione di cui fa parte il partito di Nasrallah aveva conquistato 67 dei 128 seggi parlamentari. Ciò si è riflesso nella composizione della squadra di governo, dove tale raggruppamento ha ottenuto una rappresentanza più nutrita rispetto a quella dello schieramento di Hariri. Tuttavia, la novità più rilevante si riscontra nella designazione di Jamil Jabbak, medico personale del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, alla guida del Ministero della Salute.
Nonostante Hezbollah controllerà direttamente anche altri due ministeri (Sport e Rapporti con il Parlamento) l’attenzione si concentra sul dicastero che si occupa di salute pubblica. Ciò anche alla luce del fatto che, sebbene Hezbollah abbia partecipato fin dal 2005 alla formazione di diversi governi, mai era riuscito o aveva puntato ad ottenere più di due dicasteri. D’altronde, quello della Sanità è il quarto ministero per capacità di spesa all’interno della macchina governativa libanese. Ciò induce a ritenere che il nuovo potenziale di spesa del Partito di Dio possa essere messo al servizio delle sue milizie e che possa anche essere utilizzato, attraverso pratiche clientelari, per aumentare il consenso popolare del partito. D’altronde, tali risorse potrebbero rafforzare quella fitta rete di centri medici privati controllati da Hezbollah che già operano, a tutti gli effetti, come una sorta di stato sociale parallelo. Quest’operazione acquisirebbe ancora più valore in un momento in cui si annunciano pesanti provvedimenti economici, necessari per risollevare le disastrate finanze pubbliche. Infatti, una simile fase di austerità non si annuncia indolore per la popolazione libanese.
Stati Uniti
Lo scorso 1 febbraio, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato l’avvio dell’iter formale per l’uscita degli Stati Uniti dal trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces), che dovrebbe avvenire ufficialmente il prossimo agosto.
Il Trattato INF, siglato nel 1987 dal Presidente statunitense Ronald Reagan e dal Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbacev, dispose il ritiro e la distruzione di tutti i missili balistici e da crociera a raggio intermedio (500-5500 km) lanciati da piattaforme terrestri, presenti prevalentemente in Europa.
A distanza di trent’anni dalla firma del trattato, gli Stati Uniti hanno annunciato il proprio ritiro accusando la Russia di averlo violato attraverso lo sviluppo di un nuovo missile da crociera a medio raggio, il Novator 9M729 (SSC-8 in codice NATO), derivato dal missile navalizzato 3M-54 KALIBR.
Il Cremlino ha specificato che il missile, con portata di 480 km, non viola i limiti posti dal Trattato. Tuttavia, secondo Washington, la gittata supererebbe i 1500 km, rientrando a pieno titolo nelle tipologie di armi vietate dall’INF.
In risposta, anche la Russia ha minacciato il ritiro dal Trattato. Mosca ha accusato infatti Washington di non averne mai rispettato i termini, dal momento che i lanciatori del sistema anti-missile americano Aegis Ashore, installato in Romania e Polonia, potrebbero eventualmente ospitare anche missili cruise a medio raggio equipaggiati con testata nucleare.
Con la fine del Trattato INF, Stati Uniti e Russia potrebbero avviare una nuova corsa al riarmo con effetti deleteri sulla sicurezza europea, soprattutto in un momento storico nel quale l’Amministrazione statunitense ha intenso rimodulare i termini del proprio impegno NATO.
L’uscita di Washington dagli accordi potrebbe tuttavia nascondere l’intenzione di aprire un tavolo negoziale per coinvolgere all’interno di un ipotetico nuovo trattato anche la Cina, che negli ultimi anni ha incrementato sensibilmente il proprio arsenale missilistico balistico e da crociera a medio raggio, non essendo vincolata dall’INF, in grado di colpire le installazioni americane nel Pacifico.