Geopolitical Weekly n.158
Sommario: Gaza, Iraq, Turchia, Ucraina
Gaza
Il 12 ottobre, nel corso della Conferenza dei donatori tenutasi a Il Cairo su iniziativa egiziana e norvegese, la Comunità Internazionale si è impegnata a contribuire alla ricostruzione della Striscia di Gaza attraverso lo stanziamento di aiuti per 5,4 miliardi di dollari.
La conferenza rappresenterebbe una vittoria politica per il presidente egiziano Abd al-Fattah Al-Sisi, che, oltre al successo nell’entità delle donazioni, ha raggiunto il duplice obiettivo di escludere sia Israele sia le rappresentanze ufficiali di Hamas dagli incontri. L’Egitto ha infatti imposto la presenza esclusiva dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e ha preso la decisione di non invitare rappresentanti israeliani, motivandola con il fatto che una loro eventuale presenza avrebbe indotto i Paesi arabi e gli stessi palestinesi ad abbandonare la conferenza. Fondamentali per la stabilizzazione interna e per l’affermazione di un ruolo internazionale dell’Egitto di Al-Sisi sarebbero infatti sia l’ottenimento di una maggiore centralità de Il Cairo per ogni contatto o negoziato tra arabi e israeliani sia il rafforzamento in chiave anti-Hamas del presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas.
Il riequilibrio del potere effettivo a Gaza a favore dell’ANP potrebbe inoltre essere fondamentale per il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese perseguito dal presidente Abbas, che vedeva nel controllo di Hamas sulla Striscia uno dei principali ostacoli. A conferma dell’importanza di tale aspetto, nei giorni della conferenza Abbas ha dichiarato che il flusso di aiuti internazionali verrà gestito interamente dall’Autorità Nazionale Palestinese e che nessun partito o fazione potrà essere destinatario diretto di fondi.
Iraq
Lo scorso 10 ottobre Baghdad è stata sconvolta da tre attentati, costati la vita a una cinquantina di persone.
Gli attacchi terroristici, attuati mediante l’utilizzo di autobombe. hanno colpito due quartieri sciiti della capitale irachena, Kazimiya e Shoala, e sono l’ultimo di una serie di attentati che hanno insanguinato Baghdad nelle ultime settimane.
La recrudescenza del terrorismo jihadista all’interno della città è parte della strategia che lo Stato Islamico ha approntato per tentare la conquista di Baghdad, ossia il contemporaneo impiego di attentatori suicidi all’interno della città, che seminano il terrore attraverso attacchi indiscriminati alla popolazione, e milizie ben armate e addestrate che operano all’esterno, il cui numero si stima essere intorno alle 10.000 unità, che occupano i punti nevralgici della rete di comunicazione, dei trasporti e delle strutture energetiche strategiche.
L’Esercito Iracheno, coadiuvato da 12 squadre di consiglieri militari americani, dispone di oltre 60.000 uomini per la protezione della capitale ma, nonostante ampie operazioni avviate nei sobborghi della città per neutralizzare la minaccia interna, non è sinora riuscito a contrastare efficacemente il movimento jihadista tanto all’interno del perimetro urbano, quanto all’esterno.
La situazione alle porte di Baghdad, infatti, si fa sempre più instabile: penetrati in forze ad Abu Ghraib, i miliziani dello Stato Islamico si trovano a soli 12 Km dall’aeroporto della capitale.
Turchia
Il 13 ottobre alcuni caccia F-16 e F-4 dell’aviazione turca hanno compiuto raid contro obiettivi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) nei pressi della città turca di Daglica, nel sud-est del Paese. Si tratta della prima azione militare turca di ampia portata contro il PKK dall’entrata in vigore della tregua nel marzo del 2013. Il primo ministro DavutoÄŸlu ha motivato i raid come una risposta a incursioni di guerriglieri del PKK contro una postazione militare nell’area.
In questo momento, i rapporti tra governo turco e movimenti curdi sono condizionati sia dal processo di pace che dalla questione del contrasto allo Stato Islamico. Infatti, Ankara guarda con sospetto al tentativo curdo di legare i negoziati interni alla lotta anti-jihadista per massimizzare la legittimità politica internazionale delle proprie rivendicazioni. Obiettivo di tale operazione politica da parte del PKK e dei Peshmerga sarebbe far valere a livello negoziale l’impegno militare e le perdite umane subite nei combattimenti contro i jihadisti quale “moneta di scambio” per favorire la creazione di uno Stato curdo indipendente. Al contrario, la Turchia invece vuole tenere separate le due questioni, per evitare che possa in alcun modo aprirsi una possibilità per la nascita di uno stato indipendente del Kurdistan.
I tentennamenti turchi sono stati messi in evidenza dal mancato intervento militare per rompere l’assedio jihadista alla città curdo-siriana di Kobane, dove il nucleo della resistenza è costituito da combattenti del PKK e delle milizie curde siriane delle Unità di Protezione Popolare (YPG). Tale tattica ha inoltre alimentato sia le tensioni interne alla Turchia, con proteste della minoranza curda degenerate in scontri con la Polizia, sia uno scontro diplomatico con alcuni dei Paesi impegnati nel contrasto di IS, in particolar modo Stati Uniti e Francia, sostenitori degli sforzi curdi nella regione.
Ucraina
Lo scorso 14 ottobre sono scoppiati violenti scontri di fronte al Verchovna Rada di Kiev tra ultranazionalisti e forze di sicurezza, con un bilancio di decine di feriti tra le fila degli agenti e almeno cinquanta arresti tra quelle dei manifestanti.
Gli scontri sono stati causati dall’ennesimo diniego, da parte del Parlamento ucraino, di riconoscere i miliziani dell’UPA (Esercito Insurrezionale Ucraino) come partigiani nella lotta di liberazione dell’Ucraina durante la Seconda Guerra Mondiale.
L’UPA, braccio armato dell’OUN (Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini), ha una storia controversa: nata nel 1942 con l’intento di fiancheggiare le truppe naziste nella liberazione del Paese dal regime sovietico, si rivolse contro i propri alleati quando furono chiari i disegni di annessione che Hitler serbava per l’Ucraina, continuando però a combattere anche l’Armata Rossa. Tristemente noti rimangono i crimini commessi dai miliziani nazionalisti, con l’aiuto nazista, contro le minoranze ebraiche e polacche nonché contro i dissidenti filo-sovietici. La società ucraina appare perciò divisa nel giudizio storico sul ruolo delle milizie dell’UPA, da molti considerate collaborazioniste e para-fasciste.
Il governo ucraino, interessato a marginalizzare le rivendicazioni politiche dell’estrema destra e dei gruppi ultranazionalisti, non può però estrometterti del tutto dalla scena politica nazionale, a causa del crescente riscontro popolare che ha fatto seguito ai combattimenti nell’est del Paese in cui la Guardia Nazionale (la componente riserva delle Forze Armate ucraine che ha visto un sostanzioso reclutamento di miliziani di estrema destra) ha avuto un ruolo rilevante. Alla ricerca di un difficile equilibrio, il governo ucraino ha adottato una politica ambigua con i miliziani: se da una parte ha nominato come Ministro della Difesa Stepan Poltorak, capo della Guardia Nazionale, dall’altra si rifiuta di riconoscere il retroterra simbolico e culturale, chiaramente ultranazionalista e para-fascista, di tali formazioni.
Il conflitto interno alle istituzioni e alla società ucraina si prospetta quindi come complesso e di lunga durata, rappresentando la più grande incognita sul percorso di pacificazione e normalizzazione del Paese.