Geopolitical Weekly n.102
Iraq-Siria
Gli scontri al confine tra Siria e Iraq si fanno sempre più frequenti, alimentando le paure che il conflitto possa ampliarsi al di là del territorio siriano. Il 4 marzo, nella provincia di Anbar, in Iraq, un gruppo di ribelli siriani, probabilmente riconducibili ad al-Nusra, la principale formazione jihadista della ribellione siriana, ha attaccato un convoglio militare iracheno uccidendo nove guardie irachene e 48 soldati siriani, disarmati, che venivano riaccompagnati nel loro Paese. Venerdì scorso, dopo aver perso il controllo del posto di frontiera di Yaarabiya, i lealisti avevano sconfinato e si erano rifugiati in Iraq per sfuggire alle forze dell’opposizione e ricevere cure mediche. Successivamente l’Esercito siriano avrebbe ripreso il controllo delle postazioni dei ribelli vicine al confine, riuscendo però a mantenere il possesso della zona solo fino al giorno seguente. Il timore di una vittoria dei ribelli in Siria rappresenta per il Governo Maliki una minaccia alla sicurezza e alla stabilità del proprio Paese. Per questo, dopo essersi tenuto fuori a lungo dal conflitto siriano, negli ultimi giorni il governo iracheno ha più volte preso posizione in favore di Bashar al-Assad.
Sempre il 4 marzo, i ribelli siriani hanno conquistato Raqqa, capoluogo della provincia nordorientale del Paese, dopo averne catturato il governatore, Hassan Jalili. La conquista della città è stata comunicata con l’abbattimento della statua di Hafez al-Assad, padre di Bashar. Nel tentativo di riconquistare la città, la cui tenuta da parte dei ribelli potrebbe segnare una svolta significativa nella crisi, Damasco ne ha ordinato il bombardamento.
Kenya
Il 4 marzo in Kenya si sono tenute le elezioni presidenziali. Secondo i primi exit poll Uhuru Kenyatta sarebbe in vantaggio con il 53% delle preferenze su Raila Odinga, fermo al 42%. Odinga appartiene al ceppo etnico degli Luo, mentre Kenyatta, figlio del “Padre della Patria” Jomo Kenyatta, è il rappresentante del gruppo etnico più numeroso, i Kikuyu.
Nel giorno delle elezioni si sono registrati diversi incidenti: quattro poliziotti probabilmente uccisi dai separatisti del Mombasa Republican Council, un’esplosione a Garissa, vicino al confine somalo, e una a Nairobi, nel sobborgo nord-orientale di Eastleigh, abitato principalmente da somali, per un totale di 21 morti.
Queste elezioni sono segnate dai timori per il ripetersi degli scontri etnici svoltisi dopo i risultati elettorali del 2007-2008, che portarono a 1.000 morti. Allora le accuse di brogli elettorali tra i candidati alla presidenza, Kenyatta e William Ruto, di etnia Kalenjin, trascinarono il Paese in sanguinosi scontri. In quell’occasione i massacri si fermarono grazie alla mediazione di Kofi Annan che permise il raggiungimento di un intesa di governo tra il Presidente uscente Mwai Kibabki, di etnia Kikuyu, e Odinga.
La paura di nuove violenze ha marcato le elezioni di quest’anno, anche perché Kenyatta è accusato dal Tribunale dell’Aja di aver fomentato i massacri di cinque anni fa.
In queste elezioni la preoccupazione principale è stata la possibilità di brogli e per ridurne il rischio lo Stato ha acquistato numerosi kit di voto biometrici per i seggi. La mancata distribuzione in tutto il Paese di questi kit, i rapporti su votazioni effettuate oltre l’ora di chiusura dei seggi e alcune voci riguardanti votazioni multiple hanno già allarmato i sostenitori dei due schieramenti. Le elezioni sono un importante banco di prova per il Paese: solo se riuscirà a trovare una coesione interna, evitando le violenze del passato, il Kenya potrà mostrarsi come un attore credibile nella regione a livello sia economico sia militare.
Malaysia-Filippine
Il fallimento dei ripetuti appelli dei governi di Filippine e Malaysia per allontanare gli uomini armati dell’”Esercito Reale di Sulu” dal territorio malaysiano ha spinto le forze militari all’intervento. L’azione aerea è stata condotta tramite 3 F-18 e 5 Hawk 200, mentre a terra squadre di soldati hanno attaccato l’area dove stanziavano i ribelli, bombardandola con l’aiuto dei mortai. L’operazione – denominata “Ops Sulu” - è avvenuta a seguito dell’uccisione di 8 membri delle forze dell’ordine malaysiane in uno scontro armato con i ribelli.
L’attacco si è protratto per numerosi giorni, causando un numero imprecisato di vittime tra i ribelli. Le autorità filippine hanno chiesto al Governo malaysiano di evitare ulteriori spargimenti di sangue. L’”Esercito Reale”è composto da almeno 200 cittadini filippini al seguito del Sultano Jamalul Kiram III, ultimo erede della dinastia Kiram che regnava sull’antico Sultanato. Il gruppo armato ha occupato l’area costiera di Lahad Datu, nello Stato malaysiano di Sabah, spostandosi poi verso l’interno. La loro richiesta era l’annessione del territorio al Sultanato di Sulu, uno Stato islamico del Borneo dissolto tra XIX e XX Secolo. Al momento dello sbarco il Sultano aveva dichiarato che i suoi uomini avrebbero combattuto fino all’estremo sacrificio per difendere Sulu: solo nella giornata di giovedì ha inviato un appello ai suoi uomini per il “cessate il fuoco”.
Secondo le recenti indiscrezioni, gli uomini armati al seguito del sultano potrebbero essere ex-combattenti del Moro National Liberation Front (MNLF), un’organizzazione armata filippina che potrebbe aver agito per rappresaglia a causa dell’esclusione dai recenti colloqui tra l’MNLF e Manila. L’azione ha generato tensione tra i due Stati che da tempo hanno intrapreso un percorso di forte cooperazione economica e diplomatica. L’Esercito malaysiano, poco fiducioso nei confronti dell’efficacia di azioni preventive da parte delle Filippine, ha predisposto un sistema di pattuglia navale utile a evitare il ripetersi di eventi simili.
Venezuela
Nel pomeriggio di martedì 5 marzo il Presidente del Venezuela Hugo Chavez è morto. Da oltre due anni Chavez combatteva contro una grave forma di cancro che aveva accresciuto le incognite riguardanti la sua capacità di governare il Paese. Il 7 ottobre 2012 Chavez era stato eletto per il suo quarto mandato consecutivo, dopo aver sconfitto il leader dell’opposizione Henrique Capriles con il 54% dei voti contro il 45%.
Iniziano ora gli interrogativi riguardo quale sarà il futuro del Venezuela. Chavez aveva da tempo designato il proprio Vice, Nicolas Maduro, al ruolo di successore, ma nelle strutture del partito sono presenti dubbi sulla scelta: Maduro è ritenuto personaggio meno carismatico del precedente leader, oltre che privo del consenso presso le classi più povere di cui Chavez abbondantemente godeva. Inoltre, la costituzione prevede che qualora il Capo di Stato sia costretto a lasciare il proprio mandato entro tre anni dall’elezioni, il ruolo di successore ad interim spetti al capo dell’Assemblea nazionale, in questo caso Diosdado Cabello. In tale contesto andrà però tenuto conto della volontà dei vertici dell’Esercito: l’ammiraglio Diego Molero, Ministro della Difesa, ha recentemente dichiarato il sostegno delle Forze armate a Maduro.
Sono molte le sfide che il prossimo Capo di Stato venezuelano dovrà affrontare: nonostante il boom nell’esportazione di petrolio e gas, il Venezuela ha un debito pubblico fuori controllo, causato in primis dall’alta spesa sociale. Andrà inoltre compreso l’atteggiamento che verrà tenuto nei confronti degli Stati Uniti: per ottenere consenso in vista delle prossime elezioni, è probabile che il nuovo candidato alla leadership proseguirà la campagna anti-americana, ma il forte intreccio d’interessi energetici tra i due Paesi richiederà probabilmente una normalizzazione dei rapporti sul lungo termine.