Geopolitical Weekly n. 291
Iran
Lo scorso 8 maggio, il Presidente americano Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare iraniano stipulato nel 2015 e firmato, oltre che da Stati Uniti e Iran, anche dai restanti membri del Consiglio di Sicurezza ONU (Cina, Russia, Francia e Regno Unito) insieme con Germania e Unione Europea. In base all’accordo, l’Iran si impegnava a ridimensionare il suo programma nucleare così da mantenere le proprie capacità al di sotto di quanto necessario per la realizzazione di armi atomiche. In cambio, la comunità internazionale si sarebbe impegnata a riaprire i rapporti commerciali con il Paese, rimuovendo le pesanti sanzioni che ne stavano lentamente soffocando l’economia. La decisione improvvisa di Trump potrebbe avere pesanti ripercussioni politiche ed economiche, sia per quanto riguarda i rapporti fra Stati Uniti e Unione Europea sia, soprattutto, per quanto riguarda gli equilibri nello scenario mediorientale, che potrebbe diventare il nuovo teatro della contrapposizione tra Iran e gli alleati regionali di Washington. La crescente influenza iraniana ad ovest dei propri confini e la rete di alleanze costruite da Teheran in modo trasversale alla regione rappresentano il principale motivo di preoccupazione di Israele e Arabia Saudita, che hanno espresso il proprio sostegno alla decisione di Trump di ritirarsi dal JCPOA.
In un momento di grande incertezza sul futuro dell’accordo, la tenuta dell’intesa dipenderà ora dalla posizione dell’Unione Europea, la quale appare, nonostante tutto, risoluta a preservare i suoi rapporti economici ma anche politici con il governo di Teheran. L’impegno europeo nel preservare la funzionalità del JCPOA, infatti, potrebbe essere una sponda fondamentale per lo stesso Presidente pragmatista Hassan Rouhani, che aveva fatto dell’accordo la propria scommessa politica e che potrebbe ora trovarsi in difficoltà a resistere alle pressioni delle forze più conservatrici.
Libano
Lo scorso 6 maggio si sono tenute le elezioni parlamentari in Libano, in ritardo di 5 anni rispetto alla naturale scadenza della legislatura avviata nel lontano 2009. Il partito sciita filo-iraniano Hezbollah e i suoi alleati, tra cui l’altro partito sciita Amal e il Movimento Patriottico Libero (MPL) cristiano-maronita del Presidente Aoun, hanno ottenuto più della metà dei 128 seggi parlamentari. Tale esito è anche frutto della legge elettorale di impianto proporzionale, approvata nel giugno 2017 al posto di quella maggioritaria, che ha ridisegnato il paese in 15 distretti elettorali e ha tendenzialmente favorito la performance delle formazioni sciite. Il Partito Futuro (PF) del Premier uscente Hariri ha invece perso un terzo dei suoi seggi, ma è emerso come principale partito sunnita del nuovo Parlamento. Dunque, non si può escludere che la premiership vada nuovamente ad Hariri dal momento che, come vuole la consuetudine istituzionale libanese, la carica di Primo Ministro deve essere rivestita da un musulmano sunnita. D’altronde, se da un lato Hezbollah e Amal, con i loro circa 30 seggi, hanno un potere di veto de facto sulle decisioni più importanti, dall’altro lato un eccessivo protagonismo del Partito di Dio potrebbe alimentare ancora di più le tensioni con i suoi principali rivali regionali, Israele e Arabia Saudita.
Il semplice fatto che, dopo anni di rinvii, si siano infine svolte le elezioni, indica che il Paese si sta lentamente avviando verso un ritorno alla normalità della vita istituzionale. Infatti, questo passo in avanti si aggiunge a quelli rappresentati dall’elezione del Presidente Aoun nell’ottobre 2016, dopo due anni di assenza di un Capo di Stato, e dall’emanazione della nuova legge elettorale. Mentre l’andamento della guerra in Siria sta volgendo a favore del fronte lealista e di Hezbollah, i partiti libanesi stanno cercando di uscire dalla fase di “stallo” voluta per evitare che le scottanti questioni siriane facessero esplodere anche la situazione interna del Paese dei Cedri. Tuttavia, le perduranti tensioni regionali, così come i nuovi punti di attrito che gravitano attorno all’espansione dell’influenza iraniana, rendono inevitabilmente fragile tale ripristino della vita istituzionale libanese.
Malesia
Il 9 maggio si sono tenute le elezioni politiche in Malesia. Dopo ben 61 anni di ininterrotto governo, il partito conservatore Barisan Nasional (BN) ha visto una battuta d’arresto a favore della coalizione Pakatan Harapan (PH), che si è aggiudicato 113 seggi su 222. Si tratta di un successo storico, poiché decreta la fine della permanenza al potere della coalizione guidata da Najib Razak, che governava il Paese dal 1957, anno della sua indipendenza. La carica di Primo Ministro sarà adesso rivestita da Mahathir Mohamad, già Premier malese tra il 1981 e il 2003, che in occasione di queste elezioni si è schierato proprio contro la coalizione che lui stesso contribuì a formare e che due anni fa decise di abbandonare a causa delle accuse di corruzione. Il nuovo primo ministro ha anche annunciato che lo Yang di-Pertuan Agong, Capo di Stato malese, ha espresso la sua volontà di scarcerare e riammettere alla vita politica Anwar Ibrahim, ex leader del PH che fu condannato nel 2015 per sodomia e corruzione.
Nonostante abbia tentato di limitare l’affluenza alle urne, e quindi la possibile vittoria dell’opposizione, stabilendo la data di voto in un giorno infrasettimanale e rifacendosi alle rigide procedure burocratiche previste dalla Costituzione per l’organizzazione della tornata elettorale, il leader del BN Najib, ha assistito al fallimento del suo tentativo di rimanere al potere.
Le ragioni che hanno probabilmente favorito l’inaspettato successo di Mahathir sono riconducibili alle aspettative nutrite da parte della popolazione nei confronti di quel leader che condusse il Paese alla gloria durante gli anni ’80-’90, che hanno visto una forte espansione economica della Malesia e che hanno annoverato il paese nella lista delle tigri asiatiche. Inoltre, le accuse di corruzione e appropriazione indebita che hanno colpito il Primo Ministro uscente Najib Razak hanno compromesso la sua credibilità e affidabilità agli occhi dell’opinione pubblica. I dissensi nei confronti dell’ex pupillo di Mahathir hanno dato vita a un bacino di nuovi voti per il PH, che si sono aggiunti a quelli dei tradizionali sostenitori dell’opposizione, rappresentata soprattutto dalla minoranza cinese che costituisce circa un quarto della popolazione malese.
Siria
Nella notte tra il 9 e il 10 maggio, l’Aeronautica israeliana ha condotto una serie di strike in Siria che, per assetti impiegati e numero di obiettivi colpiti, è la più intensa dalla guerra dello Yom Kippur del 1973. Israele avrebbe condotto il raid come rappresaglia per il lancio di circa 20 razzi GRAD e FAJR verso il Golan da parte delle forze iraniane presenti in territorio siriano, avvenuto poche ore prima. La rappresaglia israeliana si è concentrata soprattutto su installazioni militari, avamposti, depositi che sarebbero nella disponibilità delle forze di Teheran e situati principalmente nei dintorni della capitale (l’aeroporto Mezzeh, la base di Kiswah), e nella regione tra Damasco e la linea di demarcazione sul Golan, ma sarebbero stati colpiti anche alcuni obiettivi più a nord e in particolare vicino a Qusayr, a poca distanza dal confine settentrionale del Libano e importante snodo logistico tra la Siria e il Paese dei Cedri. Secondo quanto annunciato dalle Forze Armate di Tel Aviv al termine dell’operazione, i raid avrebbero neutralizzato quasi l’intera rete infrastrutturale militare usata dall’Iran in Siria.
L’episodio del 9-10 maggio è solo l’ultimo di una lunga serie di strike israeliani in Siria. Infatti, fin dai primi anni del conflitto, Israele ha cercato di prevenire un eccessivo rafforzamento in territorio siriano di Teheran e del suo alleato libanese, il partito-movimento Hezbollah, entrambi schierati a fianco del Presidente siriano Bashar al-Assad. Dal 2017, con il volgere degli equilibri del conflitto in favore del fronte lealista, Iran e Hezbollah hanno ottenuto sempre più margini di manovra in Siria e, parallelamente, è aumentato il coinvolgimento israeliano.
Con questo ultimo strike, il Governo Netanyahu ha segnalato in modo inequivocabile la propria intransigenza verso un eventuale rafforzamento di Teheran, sfruttando anche gli spazi appena dischiusi dall’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano ma, soprattutto, approfondendo il dialogo con la Russia, perno del fronte lealista in Siria e unico attore, oggi, in grado di fungere da camera di compensazione tra Israele e Iran per ridurre il rischio di una pericolosa escalation.