Geopolitical Weekly n. 287
Malesia
Lo scorso 10 aprile, la Commissione Elettorale malese ha fissato al 9 maggio la data delle elezioni. L’annuncio è arrivato a tre giorni dallo scioglimento del Parlamento, annunciata dal Primo Ministro Najib Razak sabato 7 aprile, e in seguito alla ratifica da parte dell’organo legislativo della tanto contestata legge sulle fake news, considerata da parte dell’opposizione come una minaccia per la libertà di critica contro il governo. La data designata per le nomine dei candidati è il 28 aprile, il che significa che vi saranno 11 giorni disponibili per la campagna elettorale, un tempo piuttosto limitato e inferiore rispetto ai 15 giorni di campagna per le elezioni del 2013. Le imminenti elezioni costituiranno una dura prova per la coalizione di governo Barisan National (BN), il cui finora indiscusso predominio nel panorama politico del Paese rischia di vacillare, dopo 60 anni di governo ininterrotto.
L’attuale Primo Ministro, nonchè leader dello United Malays National Organisation (UMNO), negli ultimi anni, è stato travolto dallo scandalo legato a dure accuse di corruzione e appropriazione indebita, che hanno avuto un notevole impatto sulla sua popolarità agli occhi dell’opinione pubblica. Già alle precedenti elezioni, la sua coalizione aveva registrato un notevole calo dei consensi a favore della coalizione di opposizione Pakatan Harapan, capeggiata dal carismatico Anwar Ibrahim, in galera dal 2015, accusato di sodomia e perversione. La guida dell’opposizione è stata recentemente assunta dall’ex premier Mahathir Mohamad, precedentemente mentore di Najib e ad oggi in rotta con l’attuale Primo Ministro a causa dello scandalo per corruzione. Mohamad ha promesso che, in caso di vittoria, spingerebbe per la liberazione di Ibrahim per decreto regio, e passerebbe il potere nelle sue mani. Tuttavia, il partito di Mohamad, BERSATU, è stato temporaneamente sospeso per via di problemi burocratici al momento della registrazione.
Per scongiurare una possibile perdita di potere a favore delle opposizioni, Najib sembra aver puntato sulle rigide procedure burocratiche previste dalla costituzione per l’organizzazione della tornata elettorale. La scelta stessa di un giorno infrasettimanale come data di voto, identificata tenendo conto del limite di 60 giorni dallo scioglimento del parlamento, è stata giudicata una mossa finalizzata a ridimensionare l’affluenza alle urne e, con essa, le possibilità di vittoria delle forze di opposizione. Per Najib, infatti, il risultato elettorale sembra essere un banco di prova non solo per la tenuta del suo ruolo a guida del Paese ma per il suo stesso futuro come leader del BN. Il prossimo anno, infatti, sono previste le elezioni interne alla formazione politica. Un’eventuale débâcle del leader alla tornata nazionale potrebbe acuire le voci critiche nei suoi confronti all’interno del suo stesso partito e aprire la strada per una marginalizzazione del suo ruolo per la definizione degli equilibri interni al contesto malese.
Siria
Il 12 aprile scorso, le forze lealiste del Presidente siriano Bashar al-Assad hanno riconquistato la città di Douma, nella Ghouta orientale, al termine di un’offensiva lanciata il 18 febbraio. Così, i lealisti hanno smantellato anche l’ultimo avamposto ribelle nei dintorni della capitale Damasco. Infatti, gli ultimi irriducibili del gruppo ribelle Jaysh al-Islam hanno accettato di essere evacuati nel nord del Paese dopo una fase convulsa in cui si sono alternati negoziati e nuovi attacchi da parte dei lealisti.
In particolare, lo scorso 7 aprile, durante la fase finale dell’offensiva, le forze lealiste avrebbero compiuto un bombardamento utilizzando presunte armi chimiche. Tale episodio ha immediatamente suscitato una forte reazione internazionale. Infatti, Stati Uniti, Francia e Regno Unito si sono dichiarati pronti per un intervento militare nel Paese, Sia Washington che Parigi avevano in precedenza indicato l’uso di armi chimiche come “linea rossa” che Damasco non avrebbe dovuto superare.
Non è la prima volta che, nel corso del conflitto siriano, gli USA e i loro alleati ventilano l’ipotesi di un intervento a seguito di un presunto uso di armi chimiche da parte del regime di Assad. Quando Ghouta fu colpita da un attacco chimico nel 2013, l’amministrazione Obama fu sul punto di intervenire. Fu un accordo con i russi perché si provvedesse allo smantellamento dell’arsenale chimico di Assad a scongiurare questa ipotesi. Nell’aprile 2017, con il Presidente Trump da poco insediatosi alla Casa Bianca, un nuovo attacco chimico colpì la città siriana di Khan Shaykhun. Gli Stati Uniti diedero una risposta militare seppur limitata, con il lancio di 59 missili contro la base aerea di Shayrat da cui si ipotizzava fossero partiti i velivoli dell’Aviazione di Damasco.
Tuttavia, la situazione attuale presenta importanti differenze rispetto a un anno fa. Infatti, negli ultimi giorni la Russia ha ribadito che questa volta non tollererà alcun attacco contro il regime di Damasco e che è pronta a rispondere a qualsiasi attacco. In tal modo, dunque, anche una risposta militare limitata da parte degli USA rischia di portare a uno scontro diretto tra Washington e il Cremlino, alzando evidentemente il costo politico di un intervento per l’Amministrazione Trump.
Ungheria
Lo scorso 8 aprile si sono tenute in Ungheria le elezioni politiche. Il Primo Ministro uscente, Viktor Orbán, è stato riconfermato per un quarto mandato, il terzo consecutivo. La sua piattaforma politica, Unione Civica Ungherese (Fidesz), ha infatti conquistato il 48% dei voti, garantendosi così la maggioranza assoluta in parlamento, con 133 seggi su un totale di 199. Si tratta di una vittoria ancor più netta rispetto alle elezioni del 2014, quando Fidesz si era aggiudicato 117 seggi. Durante questa tornata elettorale, il principale partito di opposizione, il Movimento per un’Ungheria Migliore (Jobbik), nazionalista e xenofobo, ha preso il 20% dei voti, mentre l’alleanza dei partiti socialisti ed ecologisti si è fermata al 12%.
Se si osserva la distribuzione geografica del voto, si nota come il partito di Orbán abbia nettamente trionfato su tutto il territorio ungherese, eccezion fatta per alcune circoscrizioni urbane di Budapest, dove il Partito Socialista Ungherese (MSZP) ha registrato un buon risultato. La campagna elettorale condotta dal Primo Ministro si è concentrata principalmente sui temi classici della destra ungherese, come l’opposizione ai diktat europei in tema di migranti, la creazione di posti di lavoro e il recupero dei valori cristiani tradizionali a fronte dell’avanzare dell’Islam e del multiculturalismo.
Il dato che emerge è il netto spostamento del Paese sempre più verso destra. Ad oggi l’Ungheria è infatti l’unico Paese europeo dove sia il partito di governo, sia il principale partito di opposizione, si attestano su posizioni fortemente conservatrici, euroscettiche e nazionaliste. La schiacciante vittoria di Orbán, a dimostrazione del profondo sostegno popolare all’azione dell’esecutivo, conferma la persistenza di un trend in rapida diffusione, ovvero il rafforzamento di istanze populiste e identitarie all’interno di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est, quale ad esempio il Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca).