ATLAS Siria: Putin ed Erdogan si accordano per il cessate il fuoco a Idlib

ATLAS Siria: Putin ed Erdogan si accordano per il cessate il fuoco a Idlib

By Veronica Conti, Emanuele Oddi and Gianmarco Scortecci
03.05.2020

Afghanistan: Stati Uniti e talebani firmano l’accordo di pace

Lo scorso 29 febbraio, Stati Uniti e talebani hanno firmato a Doha l’accordo che fissa le condizioni preliminari per far partire i colloqui di pace in Afghanistan, Paese in guerra da oltre 18 anni. Dopo mesi di difficoltose negoziazioni, il Rappresentante Speciale di Washington, Zalmay Khalilzad e il Mullah Abdul Ghani Baradar hanno raggiunto l’intesa alla presenza degli alti rappresentanti di Pakistan, India, Indonesia, Uzbekistan, Tajikistan e Turchia. Si è, invece, registrata l’assenza del governo di Kabul – presieduto dal neo-riconfermato Ashraf Ghani – con cui i talebani si erano a più riprese rifiutati di trattare.

La firma legittima il gruppo guidato dalla Shura di Quetta come interlocutore politico nel Paese e sancisce il graduale ritiro dall’Afghanistan da parte delle truppe statunitensi, la cui presenza dovrebbe concludersi del tutto nella primavera 2021. L’uscita dal teatro afghano è condizionata dalla volontà dell’Amministrazione Trump di affrettare i tempi in vista delle elezioni presidenziali di novembre, più che da effettivi progressi raggiunti sul campo. Per poter giungere all’accordo, i talebani avrebbero dato garanzie sulla presa di distanza dai gruppi terroristici attivi sul loro territorio, nonché su un riavvicinamento con il governo di Kabul, con il quale si appresterebbero ad intavolare una fase di negoziazione infra-afghana.

La criticità degli accordi emerge proprio soppesando gli impegni dei talebani. In primis, l’impegno preso dal gruppo per arginare il pericolo terroristico è molto difficile da monitorare e garantire. Inoltre, nonostante i talebani siano da sempre il principale gruppo di insorgenza, la complicazione del quadro di sicurezza interno avvenuta negli ultimi anni e la nascita di fazioni interne allo stesso movimento talebano più autonome rispetto alla leaderhsip potrebbe rendere complesso per la Shura di Quetta farsi garante della promessa riduzione di violenze. In secondo luogo, la negoziazione infra-afghana con il governo Ghani è destinata a partire in salita. Infatti, il Presidente afghano si è già detto contrario al rilascio di 5000 prigionieri talebani, richiesto dalla Shura di Quetta per stemperare i rapporti con Kabul e far partire il dialogo. In tutto questo, il gruppo ha anche annunciato che è pronto a riprendere regolarmente le proprie operazioni militari contro le forze di sicurezza afghane. A tale dichiarazione di intenti ha fatto seguito, il 4 marzo, un raid statunitense contro dei combattenti talebani nella provincia di Helmand: una svolta che complica ulteriormente il processo, in un paese lontano da una pace effettiva.

Israele: Netanyahu vince le elezioni ma non ha la maggioranza

Il 2 marzo 2020 si sono tenute le elezioni per la Knesset, il Parlamento israeliano, con la più alta affluenza dal 1999, il 71%. Il terzo voto in un anno segue la crisi di governo del 2018 e le elezioni di aprile e settembre 2019, che non avevano espresso una chiara maggioranza. Il voto di marzo conferma lo stallo politico del Paese, poiché la maggioranza non è stata ottenuta né dalla coalizione del Premier Benjamin Netanyahu, né dal fronte dell’ex Capo di Stato Maggiore Benjamin Gantz.

La coalizione di Netanyahu composta da Likud, il partito del Premier, da partiti ultranazionalisti di destra ed ultraortodossi ha ottenuto 58 seggi, 3 in meno rispetto a quelli necessari per governare. Gli scranni restanti sono andati all’eterogeneo blocco che dovrebbe appoggiare Gantz (55 seggi), tra cui spicca la buona performance della Lista Araba Unita (LAU, 15 deputati) e l’ulteriore contrazione elettorale del fronte laburista guidato da Amir Peretz (appena 7 seggi). Partita a sé quella del partito Israele Casa Nostra (7) dell’ex Ministro della Difesa Avigord Lieberman, che con le sue dimissioni aveva dato il via alla crisi di Governo e non appoggia a priori nessuno dei due schieramenti.

I risultati di queste elezioni dimostrano come il Premier, malgrado sia incriminato per frode e corruzione, è stato capace di mobilitare il suo elettorato, ottenendo la maggioranza relativa in termini assoluti e ben 36 seggi in Parlamento. Una capacità riflessa dai 200mila voti in più per il Likud (su un totale di 1,3 milioni di suffragi) che Netanyahu è stato capace di raccogliere rispetto alle due precedenti tornate del 2019.

In virtù dell’esito delle urne, il Presidente Reuven Rivlin dovrebbe affidare l’incarico di cercare una maggioranza proprio a Netanyahu in quanto leader dello schieramento più ampio. Il Primo Ministro dovrebbe comparire in giudizio il 17 marzo e perciò spera d’individuare rapidamente delle alleanze per usare il ruolo istituzionale come schermo dalle traversie giudiziarie.

I molteplici scenari che si prospettano sono tutti molto incerti. Il primo è un accordo tra il Premier e Lieberman, che si configurerebbe come un ardito ritorno al passato. Altrettanto precaria sembra l’ipotesi di un governo di unità tra Netanyahu e Gantz, che escluda sia LAU che alcuni partiti di estrema destra, confermando il ruolo dell’attuale Primo Ministro. Di contro, l’ipotesi di un patto tra Gantz, LAU e Lieberman è molto remota data la distanza tra gli attori politici che coinvolgerebbe. Di fatto, questa tornata elettorale ripropone gli identici scenari emersi dai voti precedenti, lasciando la politica israeliana alle prese con la stessa impasse degli ultimi 12 mesi.

Siria: Putin ed Erdogan si accordano per il cessate il fuoco a Idlib

Il 5 marzo il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha incontrato a Mosca il suo omologo russo Vladimir Putin per discutere della situazione nella provincia di Idlib, nel nordovest della Siria. I due leader hanno concordato il cessate il fuoco, dopo che nelle ultime settimane si era verificata un’escalation militare nella zona tra i lealisti di Assad e le truppe turche, accelerata dall’uccisione senza precedenti di più di 30 soldati turchi in un bombardamento compiuto, probabilmente, dall’Aeronautica russa.

L’accordo stipula la cessazione delle ostilità e pattugliamenti congiunti russo-turchi lungo l’autostrada M4 (Saraqib-Latakia), il cui tracciato delinea anche un corridoio di sicurezza di 12 km istituito per separare le forze in campo. Di fatto, il compromesso è stato raggiunto con un passo indietro di entrambi i Presidenti. La Turchia non hai mai attribuito ufficialmente alla Russia la responsabilità delle morti dei suoi militari e ha rinunciato a recuperare tutto il territorio perso dall’inizio dell’offensiva. Putin di contro ha espresso le sue condoglianze per le vittime di Ankara e ha ribadito di vedere nell’asse con Ankara l’unica soluzione sostenibile per gestire questa fase del conflitto. A ben vedere, con l’agibilità dell’autostrada M4, il cessate il fuoco realizza sul campo parte degli accordi di Sochi del 2018, finora mai realmente attuati ma mantenuti come punto di riferimento per ogni successiva diplomatica da parte russa e turca.

Quello del 5 marzo resta però un accordo fragilissimo. Non solo perché non tocca un punto fondamentale stabilito a Sochi, ovvero l’impegno della Turchia a separare i ribelli “moderati” dai gruppi jihadisti (questi ultimi continuano a essere egemoni ovunque nell’area di Idlib). Ma soprattutto perché sia per Erdogan che per Putin il controllo della provincia di Idlib è fondamentale. La Turchia vuole mantenere la propria posizione sul territorio siriano per avere voce in capitolo sul futuro assetto del Paese. La Russia, invece, deve accelerare la stabilizzazione della Siria per ridurre il suo costoso impegno bellico in teatro, ma la roccaforte delle opposizioni a Idlib resta troppo vicina ai centri nevralgici del Paese (Aleppo, la fascia costiera).

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