ATLAS Israele: Netanyahu e Gantz verso il Governo di Unità Nazionale
Filippine: scontro armato fra militari e Abu Sayyaf
Lo scorso 17 aprile, una pattuglia dell’Esercito filippino è stata protagonista di uno scontro a fuoco con un gruppo di militanti di Abu Sayyaf, avvenuto nella Municipalità di Patikul sull’isola meridionale di Sulu. Lo scontro ha causato 11 morti e 14 feriti fra le fila dei militari. I soldati erano sulle tracce di Hatib Hajan Sawadjaan, comandante di Abu Sayyaf ed emiro della branca regionale di Daesh, che opera nell’area con la denominazione di Provincia dell’Asia Orientale. Abu Sayyaf rappresenta una delle componenti principali del gruppo affiliato al così detto Stato Islamico, nonché uno dei gruppi promotori della fondazione della costola asiatica. Attivo fin dagli anni ’90, il gruppo è sempre stato, tra la militanza indipendentista presente nella regione meridionale di Mindanao, uno degli interlocutori più importanti per le reti jihadiste (al-Qaeda, prima e Daesh, poi).
L’episodio è l’attacco di portata maggiore condotto dal network negli ultimi dodici mesi e ha riacceso l’attenzione sulla minaccia della militanza nel sud delle Filippine. La forza dimostrata dal gruppo la scorsa settimana, infatti, potrebbe indicare una possibile recrudescenza della minaccia terroristica, la quale si era in parte assopita dopo la battaglia di Marawi (2017), nella quale i militari filippini si erano scontrati per mesi contro gli insorgenti.
Il rischio di una nuova ondata di radicalizzazione si intreccia, in questa fase, con la crisi sanitaria causata dalla diffusione del Coronavirus (Covid-19). L’attuale congiuntura, che vede il governo di Manila in difficoltà nella lotta per il contenimento della malattia, potrebbe dunque rappresentare una notevole finestra d’opportunità per la branca locale di Daesh. Le attività criminali portate avanti dal gruppo, in primis dalla costola di Abu Sayyaf, infatti, rappresentano spesso un’attrattiva importante per il reclutamento delle fasce meno abbienti, soprattutto nelle aree più esposte. Non solo il gruppo nutre ancora l’aspirazione di costituire una provincia autonoma nella zona delle Isole Sulu e del Mindanao occidentale, ma ora potrebbe anche essere favorito dalle difficoltà di gestione da parte del governo e dall’acutizzarsi della crisi economica, causato dalla contrazione regionale.
Libia: l’offensiva di Serraj per conquistare Tarhuna
Lo scorso 18 aprile, le forze fedeli al Governo di Unità Nazionale (GUN) di Fayez al-Serraj, insediato a Tripoli, hanno lanciato un attacco verso la città di Tarhuna, circa 50 km a sud-est della capitale e centro strategico per lo schieramento rivale dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) guidato dal Generale Khalifa Haftar. L’operazione si inserisce in una più vasta controffensiva lanciata dal GUN che, soprattutto grazie al supporto militare della Turchia, negli ultimi 10 giorni è riuscito a riconquistare 8 città costiere a ovest di Tripoli, tra cui Surman, Sabratha e Zawiya, e a circondare la vicina base aerea di Watiya.
Infatti, questa controffensiva è stata resa possibile soprattutto dal recupero del controllo dello spazio aereo da parte del GUN. Negli ultimi mesi, ogni azione dello schieramento di Serraj era stata bloccata dall’intervento tempestivo e puntuale di droni o altri assetti aerei schierati con Haftar e in massima parte appartenenti agli Emirati Arabi Uniti (EAU). Nelle ultime settimane, invece, il rapporto di forze appare ribaltato. Gli EAU non sono stati in grado di compiere alcun attacco aereo nei pressi della capitale, con ogni probabilità a causa di miglioramenti nel dispositivo anti-aereo fornito dalla Turchia al GUN.
Ad ogni modo, la pressione maggiore si sta concentrando su Tarhuna e Watiya. La prima rappresenta uno snodo strategico essenziale per i rifornimenti dell’ENL verso il fronte di Tripoli. La base di Watiya, localizzata ad appena 120 km a sud-ovest della capitale, è un appoggio importante per le operazioni aeree di Haftar. Se Serraj riprendesse il controllo di queste aree, l’offensiva di Haftar lanciata nell’aprile 2019 sarebbe di fatto terminata, poiché il Generale sarebbe costretto a ritirarsi da Tripoli arretrando addirittura nella Libia centrale e ad abbandonare le sue ambizioni di prendere il controllo totale del Paese per via militare.
Israele: Netanyahu e Gantz verso il Governo di Unità Nazionale
Lunedì 20 Aprile, Benjamin Netanyahu, Premier uscente e leader del partito Likud, e Benny Gantz, ex Capo di Stato Maggiore e leader di Blu e Bianco, hanno annunciato la finalizzazione dell’accordo che prevede la formazione di un Governo di Unità Nazionale. Secondo alcune fonti, l’assetto dell’esecutivo vedrebbe la poltrona di premier ruotare ogni 18 mesi, per un mandato complessivo di tre anni. Sembrerebbe proprio Benjamin Netanyahu il primo a insediarsi a Beit Aghion, mentre Gantz verrebbe assegnato alla Difesa. Le due fazioni otterranno ugual numero di Ministeri, 16 a testa, che diventeranno 18 allo scadere dei sei mesi di “fase emergenziale” causata dal coronavirus.
Le 14 pagine che definiscono l’intesa segnano la fine della crisi politica più lunga nella storia di Israele. Infatti, dalla caduta dell’esecutivo nel mese di dicembre del 2018, si sono succedute tre elezioni anticipate, tutte segnate da infruttuose negoziazioni. In un primo tentativo di compromesso, Gantz aveva accettato l’opzione di un governo di unità nazionale, a patto che Netanyahu ne restasse fuori, fedele al suo slogan “Anyone but Bibi”. Ma a fronte della pressione sociale e al limbo legislativo legato all’epidemia di Covid-19, il leader di Blu e Bianco ha fatto un passo indietro, accettando il governo di coalizione con Netanyahu.
Snodo cruciale dell’accordo sarà la formazione della Commissione per la nomina dei giudici che guideranno il processo contro Netanyahu, previsto per il 24 maggio. Gantz aveva costruito la sua campagna elettorale, nonché l’identità del suo partito, su forti principi anti-corruzione denunciando l’inadeguatezza del rivale come premier sotto inchiesta. Questo ha determinato una grave frattura all’interno del suo stesso partito, perdendo 15 deputati ma ancor di più la fiducia di alleati come Yair Lapid e Moshee Yaalon. Un indebolimento da tenere in considerazione, in quanto potrebbe rivelarsi strumentale e determinare squilibri di potere nei prossimi 18 mesi di governo Netanyahu.
Mozambico: arrestato il boss brasiliano Fuminho
Il 13 aprile, a Maputo, un’operazione congiunta dell’Interpol, della Drug Enforcement Administration (DEA) statunitense e delle autorità di polizia nazionali ha condotto all’arresto del brasiliano Gilberto Aparecido dos Santos, detto ‘Fuminho’, uno dei maggiori boss del narcotraffico internazionale e capo del Primeiro Comando da Capital (PCC), la principale organizzazione criminale di San Paolo.
L’arresto di Fuminho rappresenta un duro colpo per le reti criminali internazionali ed un significativo passo in avanti per la stabilizzazione del Mozambico, con particolare riferimento alla irrequieta regione settentrionale di Cabo Delgado. Infatti, il Paese è uno dei principali snodi logistici per il trasferimento di eroina e cocaina lungo le direttrici asiatiche, latinoamericane, ed europee ed ha in Cabo Delgado il suo centro nevralgico. Inoltre, le attività dei trafficanti si sviluppano in sinergia e collaborazione con quelle delle reti jihadiste locali, riunite nella sigla Ahlu Sunna Wal Jammah (ASWJ), nata nel 2015 e progressivamente avvicinatosi allo Stato Islamico (IS o Daesh). In quella regione, il proselitismo jihadista e il reclutamento criminale si avvantaggia della precaria situazione economica e sociale che incentiva molti giovani ad entrare a far parte di organizzazioni eversive o mafiose.
La cooperazione nell’arresto di Fuminho rappresenta una forte manifestazione della volontà internazionale di stabilizzare il nord del Paese al fine di tutelare gli interessi economici legati al comparto industriale gasiero, rappresentato da importanti imprese quali Total, Exxon ed ENI.