ATLAS: Hong Kong, Russia, Tunisia
Hong Kong: Trump approva l’Hong Kong Autonomy Act
Martedì 14 luglio il Presidente statunitense Donald Trump ha firmato l’Hong Kong Autonomy Act, la legge approvata dal Congresso che conferirà al Presidente la possibilità di imporre sanzioni contro persone fisiche e istituzioni finanziarie che abbiano un ruolo materiale nella violazione dell’autonomia di Hong Kong. La firma della legge è avvenuta in concomitanza all’approvazione dell’ordine esecutivo con il quale la Casa Bianca ha sancito il termine dello status economico speciale concesso fino ad ora alla Regione Autonoma. L’ordine esecutivo, di fatto, impone alla città lo stesso regime commerciale che gli Stati Uniti applicano alla Cina, annullando così i vantaggi concessi finora in termini di esenzioni tariffarie, regole di ingresso negli Stati Uniti per cittadini hongkonghesi e possibilità di esportazione di tecnologie sensibili.
Se il vero impatto dell’Hong Kong Autonomy Act e del cambio di regime economico siano ancora poco chiari, molto dipenderà dall’effettiva implementazione delle disposizioni, che dovrebbe avvenire durante il prossimo anno, soprattutto in merito alla discrezionalità concessa al Presidente nell’imposizione delle sanzioni. Per quanto la portata dei provvedimenti dovrebbe essere di natura prettamente economica, la scelta della Casa Bianca si inserisce inevitabilmente nel più ampio confronto tra gli Stati Uniti e Pechino. La decisione di Washington ha suscitato la dura reazione del governo cinese, che ha sempre guardato la presa di posizione degli Stati Uniti a fronte degli avvenimenti ad Hong Kong come ad un’intromissione nei propri affari interni. L’effettiva messa in atto delle disposizioni potrebbe contribuire ad un’ulteriore polarizzazione dei rapporti tra le due potenze e ad un incremento delle tensioni bilaterali. Parallelamente, tuttavia, l’indebolimento dei rapporti con Hong Kong potrebbe ridimensionare la presenza e i rapporti di Washington con la Regione Autonoma e spuntare, così, una possibile leva negoziale da poter utilizzare per cercare di tenere Pechino al tavolo negoziale.
Russia: proteste contro la riforma della Costituzione
Il 16 luglio, la polizia ha arrestato oltre 140 persone durante l’operazione di sgombero di una manifestazione di protesta a Piazza Puskin, nel centro di Mosca. Gli oltre 1000 manifestanti erano scesi in piazza per protestare contro la riforma costituzionale approvata dalla Duma e promossa dal referendum popolare del 2 luglio scorso, non senza dubbi sulla piena regolarità delle operazioni di voto e spoglio. Tra gli arrestati compare anche Yulia Galyamina, membro del consiglio municipale di Mosca e tra le più importanti voci di opposizione al Presidente Putin.
La riforma costituzionale in questione, tra le altre cose, azzera il conteggio dei mandati presidenziali sinora svolti e, di conseguenza, potrebbe permettere a Vladimir Putin di ricandidarsi al Cremlino e prolungare la sua stagione di potere fino al 2036.
I manifestanti, rappresentanti della variegata ma frammentata opposizione russa al sistema di potere putinista, chiedono a gran voce riforme liberali e condannano il sistema di potere costruito da Putin, accusato di nepotismo, corruzione e repressione del dissenso.
Parallelamente a Mosca, anche la città orientale di Khabarovsk è stata scossa da manifestazioni popolari contro il governo. Il casus belli è stato l’arresto del governatore della regione Sergei Furgal, rappresentante del Partito Liberal-Democratico, accusato di essere il mandante degli assassinii di alcuni imprenditori tra il 2004 e il 2005. Tuttavia, secondo i sostenitori del governatore, le accuse della procura sono motivate politicamente, poiché Furgal si era distinto per la sua amministrazione trasparente, per la lotta alla corruzione e per le sue posizioni anti-establishment .
L’ondata di arresti ai danni di attivisti, giornalisti e politici russi di opposizione si è intensificata negli ultimi mesi, parallelamente alla delicata partita per l’approvazione della riforma costituzionale. Soffiare sul fuoco del dissenso, oltre alle ragioni politiche, concorrono la cattiva congiuntura economica e le ambiguità sulla gestione della crisi pandemica legata al covid-19. Infatti, nel quarto trimestre l’economia russa ha subito una contrazione del 10% rispetto all’anno precedente, mentre il numero di casi di covid-19 ha superato le 750.000 unità.
Nonostante l’inserimento nella riforma costituzionale di un emendamento che introduce il salario minimo e l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione, il fronte di opposizione a Putin continua a crescere mese dopo mese. A riguardo, la sua eventuale decisione di ricandidarsi al soglio del Cremlino e restare al potere fino al 2036 potrebbe acuire ulteriormente il malcontento popolare e generare ulteriori ondate di proteste, minando la stabilità del sistema di potere e dell’intero Paese.
Tunisia: le dimissioni del Premier Fakhfakh aprono la crisi politica
Nella serata di mercoledì 15 luglio, il Primo Ministro tunisino Elyes Fakhfakh si è dimesso dopo un lungo braccio di ferro con il partito islamista Ennahda, principale forza politica su cui si reggeva il governo.
Le tensioni all’interno del governo tunisino si sono acuite nelle ultime settimane. Oltre alle presunte accuse di corruzione e conflitto d’interessi, il Premier è stato ripetutamente e pubblicamente invitato alle dimissioni da Ennahda. Quest’ultimo, insieme al partito liberista Qalb Tounes e altri deputati indipendenti, mercoledì 15 luglio ha presentato una mozione di sfiducia firmata da 105 deputati, solo quattro in meno della maggioranza assoluta.
La decisione di Fakhfakh di dimettersi prima del voto in Parlamento dà automaticamente al Presidente della Repubblica Kais Saied il compito di incaricare un nuovo Premier, togliendo al maggiore partito rappresentato, Ennahda, la possibilità di avanzare nomi di sua scelta.
La posizione critica di Ennhada nei confronti di Fakhfakh rientra in una strategia atta a riconfigurare l’alleanza governativa, ricreando così la grande coalizione che ha sostenuto la Tunisia negli ultimi 5 anni. A tal fine, l’obiettivo sarebbe quello di inglobare nella maggioranza i liberisti di Qalb Tounes, guidato da Nabil Karoui, ed espellere il Blocco democratico progressista, con il quale importanti divergenze rendono la coesistenza al governo più scomoda.
Infatti, ricostituendo il governo di larghe intese con Karoui, e non con i progressisti, Ennahda raggiungerebbe due obiettivi. Da una parte, mostrerebbe una chiara volontà di collaborare nel nuovo governo e di evitare crisi politiche paralizzanti, mentre dall’altra parte, essendo la controparte una compagine laica, mitigherebbe le costanti accuse di portare avanti in modo più o meno aperto un’agenda islamista.