Geopolitical Weekly n. 306

Geopolitical Weekly n. 306

Di Andrea Posa, Antonio Scaramella e Luca Tarantino
25.10.2018

Afghanistan

Il 20 Ottobre 2018 la popolazione dell’Afghanistan è tornata alle urne per il rinnovo della Wolesi Jirga, la camera bassa: 2500 candidati, delle più varie estrazioni sociali e con affiliazioni in maggioranza apartitiche, si sono contesi i 249 seggi, di cui 68 assegnati alle donne. Secondo le stime della Independent Electoral Commission (IEC), l’affluenza si sarebbe attestata intorno al 45% e il voto femminile, per la prima volta dal 2011, avrebbe raggiunto il 33%. Nonostante questi segnali positivi, il processo ha messo in evidenza molteplici difficoltà per le istituzioni, sia in termini di gestione del meccanismo elettorale sia di sicurezza.

In primis, le elezioni sono state marcate da problemi di natura logistica, come materiale elettorale mancante ad interi distretti, di natura tecnica, come il sistema di riconoscimento biometrico, risultato non funzionante in quasi un quarto dei seggi, e di natura politica, legato alle difficoltà di amministrazioni locali di mediare nella contrapposizione tra e diverse componenti etniche dell’elettorato (come successo a Ghazni). Le lacune tecniche hanno reso più macchinoso un processo reso già molto delicato dalle ormai pluriennali criticità legate alla gestione della sicurezza interna. Il problema della sicurezza delle votazioni, infatti, si è confermata la questione più spinosa. I talebani,  che non riconoscono la legittimità del processo elettorale, hanno organizzato una serie di attentati sia contro i candidati (da Luglio scorso sono 10 i candidati assassinati), sia contro i seggi stessi, inficiando in alcuni casi lo svolgimento delle elezioni. Nonostante il governo avesse schierato 70.000 uomini a protezione delle urne, un quarto dei seggi è stato chiuso per ragioni di sicurezza e la provincia di Kandahar voterà con una settimana di ritardo, a causa dell’assassinio del Generale Abdul Raziq e del governatore Zalmai Wesa.

Bisogna sottolineare che, ad oggi, il governo non controlla la totalità del territorio, ma dei 407 distretti di cui è composto il Paese, 59 sono controllati dai talebani e 119 sono da considerarsi contestati. La capacità operativa del gruppo, dunque, potrebbe portare la leadership talebana ad esercitare una forte pressione sulle istituzioni centrali, soprattutto in vista di un eventuale processo di dialogo per la riconciliazione delle parti in causa.

Etiopia

Il 21 ottobre il governo guidato dal Primo ministro Abiy Ahmed e l’Ogaden National Liberation Front (ONLF) hanno firmato ad Asmara un accordo di pace per porre fine alla ribellione che dura da 34 anni e che ha causato migliaia di morti. Infatti, l’ONLF, gruppo armato di etnia somala che per decenni ha lottato per la separazione della regione dell’Ogaden dal resto dell’Etiopia, perseguirà le sue rivendicazioni attraverso l’utilizzo di metodi pacifici e in conformità alle procedure democratiche.

L’obiettivo di Ahmed è quello di permettere la stabilizzazione della regione dell’Ogaden e lo sfruttamento delle sue risorse minerarie e gasiere.

Da quando è stato eletto, il Primo Ministro di etnia oromo ha cercato di riformare profondamente un Paese sino a quel momento egemonizzato dalle etnie tigrina e ahmara. A tal fine, Ahmed è riuscito a instaurare un dialogo con organizzazioni definite prima terroristiche ed espressione di etnie discriminate come l’Oromo Liberation Front (OLF) e, appunto, l’ONLF.

Tuttavia, il compito non è affatto facile, soprattutto a causa delle resistenze delle frange più oltranziste delle organizzazioni citate, le quali potrebbero ottenere il supporto di quelle etnie e di quei gruppi di interesse penalizzati dall’azione riformatrice di Ahmed.

Nel caso dell’accordo con l’ONLF, ad ostacolare i piani di Ahmed potrebbe essere la Liyu Police, forza speciale composta da somali dell’Ogaden, istituita dal Governo etiope quando al comando dell’esercito vi erano i tigrini e incaricata del contrasto delle attività dell’ONLF in Ogaden. La Liyu police, nel tempo, ha acquistato molto potere e molta influenza, macchiandosi anche di abusi e crimini relativi alla violazione dei diritti umani.  La Liyu Police potrebbe percepire a rischio la posizione privilegiata  di cui ha sempre goduto prima di Ahmed e preparare azioni in grado di destabilizzare il fronte somalo e, di conseguenza, l’agenda politica del Primo Ministro.

Giordania

Domenica 21 ottobre, il Re Abdullah II ha annunciato di non voler rinnovare la concessione a Israele delle aree di Al-Baqura e Al-Ghamr, indicandole come priorità da difendere nell’interesse della Giordania e dei giordani. Rivendicando i due territori (Naharayim e Tzofar in ebraico) ha evitato la clausola che ne avrebbe automaticamente rinnovato l’affitto a partire dal 26 ottobre, ad un anno esatto dal termine dell’accordo che ebbe origine dai trattati di pace del 1994 tra i due Paesi. La decisione di Abdullah fa seguito a proteste civili e alla petizione, firmata da più di 80 parlamentari, che chiedeva la restituzione delle terre da parte di Israele.

Il loro status speciale deriva dai negoziati di pace del 26 ottobre del 1994, quando l’allora Premier israeliano Yitzhak Rabin e Re Hussein stabilirono che le aree, conquistate nel 1967 da Israele (insieme, tra le altre, a Gerusalemme Est), sarebbero state a sovranità giordana ma concesse in uso ad Israele.

Benché tocchi uno dei pilastri delle relazioni tra Giordania e Israele come lo storico accordo del 1994, è improbabile che questa decisione mini la collaborazione tra i due Paesi, che negli anni ha spaziato dall’economia alle politiche di sicurezza, dalla gestione delle risorse idriche al turismo, alla ricerca scientifica.

Tuttavia, la decisione di Abdullah II va letta sullo sfondo dei recenti sviluppi riguardo lo status di Gerusalemme. Ci si riferisce allo spostamento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme ufficializzato lo scorso maggio, con cui Washington ha di fatto appoggiato esplicitamente le rivendicazioni di sovranità sull’intera Città Santa. Lo status di Gerusalemme non è solo uno dei nodi principali di qualsiasi negoziato di pace israelo-palestinese, così come del piano che l’Amministrazione Trump ha in preparazione, ma è anche un tema di estrema delicatezza per Amman. Infatti, lo stesso accordo del 1994 prevedeva che fosse l’Ente islamico giordano “Waqf” a gestire e controllare i luoghi sacri della Spianata delle moschee nella Città Vecchia, ruolo cui la monarchia giordana non sembra assolutamente disposta a rinunciare.

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