Le conseguenze della politica di Hamas nella Striscia di Gaza
Medio Oriente e Nord Africa

Le conseguenze della politica di Hamas nella Striscia di Gaza

Di Silvia de Cristofano
12.07.2012

La vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, le prime che hanno visto la partecipazione del movimento islamista, ha comportato una serie di conseguenze, sia a livello interno sia sul piano internazionale, ha incrinato i rapporti all’interno dell’entità palestinese.

A livello interno, infatti, si è assistito alla divisione del territorio palestinese in due entità, la Striscia di Gaza, guidata da Hamas, e la West Bank, governata dal Fatah, a causa del conflitto che si è consumato tra le due organizzazioni. Tale frammentazione, oltre ad aver prodotto un diffuso clima di sfiducia nella comunità palestinese, che paga il prezzo del blocco politico, economico e istituzionale che questa ha comportato nel Paese, ha prodotto un’ulteriore destabilizzazione nell’area tale da rendere assai difficile, se non impossibile, la conclusione di un accordo con Tel Aviv.

L’attività di Hamas in questi sei anni, non solo non ha portato a passi in avanti nelle trattative con Israele, ma non è neanche riuscita a rispondere alle esigenze della propria popolazione, di cui circa l’85% vive al di sotto della soglia di povertà. L’entità di tale dato sicuramente dipende in parte dall’embargo imposto dalle autorità israeliane, ma è soprattutto sintomo della mancanza di formulazione e attuazione di politiche economiche da parte delle autorità del movimento islamico.

Sul piano internazionale, i sei anni di governo di Hamas nella Striscia di Gaza hanno posto un serio ostacolo alle trattative tra l’ANP, Israele e la Comunità Internazionale per la soluzione della questione palestinese. Com’è noto, infatti, Hamas, attraverso l’azione delle Brigate Ezzedine al-Qassam (braccio armato dell’organizzazione), ha sistematicamente ostacolato i negoziatori palestinesi, proprio alla vigilia d’importanti trattative, attraverso attentati e lanci di razzi verso Israele. Nel 2010, inoltre, si è assistito alla creazione di un comando congiunto tra Hamas e le tredici formazioni combattenti islamiche attive a Gaza, al fine di raggiungere un maggior coordinamento delle operazioni. Oltre alle già citate Brigate Qassam, compongono il comando: la Jihad Islamica, il Fronte Popolare e il Fronte per la liberazione della Palestina e formazioni jihadiste di stampo salafita e qaedista quali, Saif al-Islam, al-Ansar e Humat al-Aqsa.

Inoltre, quando, nello stesso anno, sono ripresi i negoziati tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, dopo una lunga interruzione, le trattative hanno potuto riguardare il solo territorio della Cisgiordania a causa dell’assenza al tavolo della negoziazione di Hamas. Inoltre, il controllo della Striscia da parte del movimento islamista ha creato non pochi problemi per la sicurezza dello Stato di Israele. Esemplificativo è quanto avvenuto con l’operazione Piombo Fuso, iniziata nel dicembre il 2008 e conclusasi nel gennaio del 2009, quando Tel Aviv ha deciso di rispondere alle continue provocazioni di Hamas con un massiccio intervento militare.

Negli ultimi mesi, l’evidenza dell’impossibilità di proseguire sulla strada delle divisioni interne ha portato le due organizzazioni palestinesi a diversi tentativi di dialogo al fine di trovare un accordo che renda possibile lo svolgimento delle elezioni politiche, inizialmente previste per i primi mesi di quest’anno.

In seguito ad una manifestazione, tenutasi nella metà di marzo del 2011, nella quale i cittadini palestinesi hanno chiesto la fine della divisione tra i governi di Hamas e Fatah, i colloqui per un accordo tra le due fazioni hanno preso nuovo slancio. Il 4 maggio dello stesso anno si è giunti alla sottoscrizione di un accordo per la riconciliazione e la riunificazione politico-amministrativa dei territori palestinesi che, tuttavia, non ha prodotto i risultati sperati a causa delle persistenti divergenze tra i due movimenti. Malgrado ciò, i colloqui non si sono interrotti e alla fine di maggio del 2012 si è compiuto un importante passo verso la riconciliazione. Il 20 maggio, infatti, vi è stato un incontro tra Azzam al-Ahmed, storico membro di Fatah, e Mussa Abu Marzuk, vice di Khaled Meshaal, attuale leader di Hamas. In tale sede, grazie all’importante mediazione di negoziatori egiziani, sono state poste le basi per la formazione di un nuovo governo di transizione, guidato proprio dal Presidente dell’ANP Abbas. Inoltre, in seguito a tale accordo, la Commissione Centrale Elettorale, istituzione palestinese responsabile dell’organizzazione delle consultazioni popolari, ha annunciato d’aver iniziato le operazioni per l’aggiornamento delle liste elettorali.

Se, da un lato, questo potrebbe essere un segnale positivo per i cittadini palestinesi, che, quindi, presto potrebbero essere chiamati ad esprimere il loro voto, dall’altro sussistono ancora dubbi sulla reale volontà di riconciliazione tra i due schieramenti.

Ciò che Hamas e Fatah lasciano trasparire, è che le loro posizioni non siano compatibili a causa delle divergenze sulle modalità attraverso le quali perseguire la causa palestinese. Ogni qual volta i negoziatori di Fatah hanno affermato che Hamas aveva accettato la posizione dell’ANP di resistenza passiva all’occupazione israeliana e di uno Stato palestinese fondato sui confini del 1967, il movimento islamista ha sempre smentito e sottolineato come sia lontano il raggiungimento di un accordo su tali temi. In realtà, la divergenza sulla modalità di perseguimento della causa palestinese sembra strumentale a tenere in secondo piano due tipi di questioni che si rivelano in realtà fondamentali.

La prima concerne i problemi interni presenti in ciascun movimento. Infatti, da un lato, Fatah non riesce a dar voce alle nuove leve nella sua leadership, dall’altro Hamas deve affrontare il problema dell’erosione dei consensi del suo gruppo dirigente in esilio, di cui Meshaal è l’espressione, nei confronti delle autorità operanti a Gaza. Il gruppo dirigente all’estero, che è sempre stato più popolare tra la popolazione palestinese, ha perso terreno rispetto ai vertici operanti a Gaza poiché questi appaiono, agli occhi della popolazione, più attivi nella causa palestinese e da subito hanno preso posizione in favore dei manifestanti protagonisti della Primavera Araba, in particolare nel caso siriano. Meshaal è stato inizialmente più cauto nel condannare il regime di Assad, soprattutto perché la leadership all’estero era ospitata proprio a Damasco.

La seconda questione riguarda la consapevolezza di Hamas di aver perso consenso politico rispetto ai movimenti jihadisti che operano a Gaza e, in tal senso, un eventuale accordo con Fatah non farebbe che peggiorare la situazione nei confronti del proprio elettorato.

Pertanto, sia per i problemi relativi alla leadership che per il timore di un risultato elettorale sfavorevole, Hamas non sembra avere, per ora, alcun interesse a giungere ad un accordo che consenta una consultazione elettorale.

A pagare le spese di tale situazione sono, in generale, i cittadini palestinesi che si trovano senza una guida politica in grado di sostenere la causa della formazione di uno Stato unitario, che ad oggi risulta quantomeno utopistica. In special modo gli abitanti di Gaza, poi, sono in balia di una grave crisi economica e sociale e sono governati da una formazione politica che ha ottenuto come unico risultato, con la sua linea d’intransigenza, la rivalutazione di Fatah, tanto agli occhi delle autorità israeliane quanto di fronte a gran parte della Comunità Internazionale.

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