Scontri a Gerusalemme, una tensione non ancora al culmine
Medio Oriente e Nord Africa

Scontri a Gerusalemme, una tensione non ancora al culmine

Di Angela Ziccardi
10.05.2021

Nelle giornate di lunedì 10 e martedì 11 maggio, oltre 200 razzi provenienti dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati verso i territori israeliani di Ashdod, Ashqelon e Gerusalemme. Tel Aviv ha risposto con raid aerei, uccidendo 24 palestinesi, tra i quali 9 bambini. Questa escalation di tensioni è stata dovuta alla violazione dell’ultimatum, chiesto da Hamas il 10 maggio, per fermare gli atti di vandalismo e soprusi intorno alla Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme Est, epicentro delle tensioni che hanno portato alla più grave ondata di violenze tra le due controparti dai tempi della Seconda Intifada. È dunque dalla Città Santa che bisogna partire per fotografare quello che sta avvenendo tra Gaza e i territori israeliani, cosi da cercare di contestualizzarlo.

Intorno a Gerusalemme aleggiava un clima di tensione già da diverso tempo e i primi scontri sono sorti il 13 aprile, giorno di inizio del Ramadan, dopo che la polizia israeliana ha deciso di alzare delle barricate fuori dalla Porta di Damasco per bloccare l’accesso alla passeggiata intorno alle mura della Medina, popolare luogo di ritrovo dopo il digiuno. A ciò è susseguita la marcia suprematista ebraica del gruppo Lehava nella notte di giovedì 22 aprile e, nonostante la situazione si sia in parte placata nei giorni a seguire, la decisione della Corte Suprema israeliana di procedere con lo sfratto di decine di famiglie palestinesi nel quartiere popolare di Sheikh Jarrah – decisione poi rientrata per effetto della scelta della stessa di procrastinare la misura – hanno fatto riaccendere le tensioni, causando nuove rivolte intorno alla Moschea di al-Aqsa e portando alla situazione di oggi.

Per giustificare l’autorizzazione all’esproprio, la Corte Suprema ha chiamato in causa la “Legge dei proprietari assenti” del 1950, secondo cui verrebbero negati tutti i titoli di proprietà ai palestinesi ivi residenti nel periodo della prima guerra arabo-israeliana (1948). In aggiunta, gli sventramenti sarebbero giustificati anche sulla base di presunte carte che confermerebbero la presenza di coloni ebrei in tale area prima del 1948, nonostante alcuna prova dell’esistenza di tali documenti sia stata accertata.

Se quelle presentate dalla Corte Suprema sono essenzialmente motivazioni di natura storico-identitaria, la rivendicazione di spazi a Sheikh Jarrah riposa in realtà su ragioni che vanno ben oltre giustificazioni di questo tipo. Infatti, Gerusalemme Est costituisce una delle poche aree ancora largamente edificabili, attirando interessi edilizi e l’attenzione di capitali anche internazionali. Questo ultimo elemento fa gola al settore delle costruzioni israeliano, che vede nell’area che si espande da Sheikh Jarrah a Silwan zone ottime per investire nel settore delle costruzioni e dell’edilizia, più in generale. Inoltre, possibili nuovi cantieri israeliani a Gerusalemme sarebbero facilitati dal fatto che molti dei 330.000 palestinesi che abitano la zona detengono uno status di residenti della città revocabile, senza essere identificati come cittadini di alcuno stato, un non-riconoscimento legale che rende più semplice alla controparte israeliana procedere con la loro espulsione.

Al contempo, a complicare ulteriormente lo scenario vi è la debolezza delle istituzioni politiche di Israele e Palestina. Entrambe le parti si sono mostrate incapaci di controllare più o meno volutamente le insurrezioni nella Città Santa fin dallo scorso mese. Se il rinvio delle elezioni generali di maggio ha messo in luce tutta la debolezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e l’effettiva incapacità di prendere in mano la situazione anche per un puro opportunismo politico in funzione anti-Hamas – che rischiava di risultare il vero vincitore delle possibili consultazioni –, ben diversa è la posizione del governo di Benjamin Netanyahu, che avrebbe potuto controllare fin da subito la portata violenta delle insurrezioni ma ha preferito assumere un atteggiamento ambiguo. In realtà la scelta non è causale, perché Netanyahu ha tutti gli interessi a sfruttare la crisi per consolidare la sua posizione nella politica interna israeliana. Vista la debolezza del Likud e l’incapacità di formare un nuovo governo, l’ex Primo Ministro potrebbe sfruttare ora la situazione per accaparrarsi nuove simpatie e ripristinare un peso considerevole nelle dinamiche politiche israeliane, cavalcando il clima di instabilità per presentarsi come il solito Mr. Security anche in una possibile chiave elettorale.

Di conseguenza, è il combinato disposto di questioni identitario-simboliche ed interessi economici ad aver reso Gerusalemme Est il fulcro delle violenze, diventando la miccia dell’escalation di tensioni a cui assistiamo oggi. L’attuale instabilità degli apparati istituzionali non permette di esercitare un controllo effettivo da ambo le parti, causando un susseguirsi di ritorsioni non lontane dal causare lo scoppio di un conflitto di più ampia portata. Il tutto accompagnato dall’assenza di una posizione forte della comunità internazionale e dei Paesi arabi nel puntare a fermare l’escalation ed impedire che essa si trasformi presto in una Terza Intifada.

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