Nell’escalation di tensioni tra Israele e Hamas, bisogna guardare oltre Gaza
È ormai passata una settimana da quando lo scorso 10 maggio i disordini a Gerusalemme Est hanno spinto Hamas a lanciare i primi razzi dalla Striscia di Gaza verso Tel Aviv, dando il via ad un’escalation di tensioni tra israeliani e palestinesi. La situazione è in continuo deterioramento e, al momento, le parti non sembrano disposte a retrocedere verso una de-escalation. Nonostante la drammatica situazione a Gaza stia avendo maggiore risonanza a livello internazionale, la Striscia costituisce solo uno dei vari fronti apertisi, a testimonianza di come siano molteplici i fattori a complicare le sorti del conflitto e a non permettere di auspicarne una rapida e lineare risoluzione.
Un primo elemento di destabilizzazione è sorto a livello interno, dove a preoccupare è soprattutto l’inedita vampata di violenze esplose nelle città miste di Israele, fino ad ora abitate da comunità israeliane e palestinesi in un clima di coesistenza pacifica. Nello specifico, un’intensa ondata di protesta si è propagata in diverse città (Lod, Acri, Ramla, Jaffa, Haifa, Umm al-Fahm, Nazareth, Rahat, Hebron, Nablus, Tarshiha, Betlemme, Tulkarem, Jenin e il campo profughi di Qalandia) dove cittadini arabi sono insorti in una sorta di movimento pan-palestinese non organizzato, causando forti atti di ritorsione dalla controparte israeliana e provocando l’arresto di oltre 1.000 persone. I peggiori disordini si sono verificati a Lod e Acri, dove il lancio di bombe incendiarie verso sinagoghe e luoghi di proprietà ebraica e diversi atti di vandalismo hanno spinto le autorità a indire il coprifuoco e dichiarare lo stato di emergenza. Queste insurrezioni hanno colto totalmente di sorpresa il governo israeliano, che ha ammesso la propria impreparazione nell’affrontare un simile movimento. Tel Aviv ha risposto agli eventi schierando le forze speciali con funzioni di polizia per ripristinare il controllo, scelta che, in realtà, potrebbe esacerbare ulteriormente le tensioni. In aggiunta, il caos nelle strade ha spinto Naftali Bennett, Presidente del partito israeliano Yamina, ad abbandonare l’iniziativa di governo congiunto con il centrista Yair Lapid, alimentando ancor più la prolungata crisi politica in atto nel Paese.
In secondo luogo, Gerusalemme continua a detenere un ruolo centrale nel conflitto simbolico e politico, nonostante l’escalation di tensioni a Gaza sembra spostare in secondo piano l’attenzione dalla Città Santa. Dopo gli sfratti di Sheikh Jarrah, il clima a Gerusalemme Est continua ad essere acceso e sta portando Hamas a spingersi oltre i propri confini di Gaza. Infatti, a differenza di quanto avvenuto nei conflitti degli scorsi anni, Hamas sta ora approfittando della debolezza e del mancato intervento della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nelle questioni della Città Santa per ergersi a difensore di tutti i palestinesi in tutti i territori divisi.
Al contempo, un ulteriore fattore da non sottovalutare è quello regionale. Difatti, nella notte del 13 maggio tre razzi sono stati lanciati dal sud del Libano verso la costa settentrionale di Israele, atterrando poi in mare. Nonostante i primi sospetti siano ricaduti su Hezbollah, i responsabili potrebbero appartenere a fazioni armate palestinesi di estrazione rivoluzionaria provenienti dalla Siria o già residenti in Libano. Di conseguenza, il fatto che tali gruppi avrebbero sferrato l’attacco dai territori libanesi potrebbe complicare ancor più il ripristino del controllo nel vicino Israele, che si ritrova a fare i conti con la pericolosità dei confini già altamente tesi.
La combinazione di tutti questi fattori fotografa dunque uno scenario estremamente complesso e l’unica possibilità di sblocco della situazione richiederebbe un intervento più incisivo della comunità internazionale, fino ad ora limitatasi a semplici dichiarazioni di condanna delle violenze e a richieste di cessate il fuoco. Anche la riunione straordinaria del 17 maggio del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non ha portato a nulla se non all’ennesimo rinnovo della volontà di cessate il fuoco. Uno stallo in parte dovuto alle divisioni emerse nel consesso a causa della scelta degli USA di bloccare lo statement finale del CdS proposto dalla Cina. Ufficialmente la scelta è stata giustificata da Washington per non pregiudicare gli sforzi informali per la pace che gli Stati Uniti stanno sostenendo attraverso il proprio inviato speciale. Presumibilmente le motivazioni sono rintracciabili nell’assenza nella dichiarazione finale del CdS di una netta condanna contro il lancio di razzi da parte di Hamas, nonché in fattori più geopolitici che hanno a che fare con l’avvicinamento strategico perseguito da Israele nei confronti della Cina, che ha provocato preoccupazioni diffuse ai vertici della Casa Bianca.
Inoltre, complici gli Accordi di Abramo del 2020, ad oggi i Paesi arabi non sembrano propensi ad intervenire direttamente, né tantomeno sono nelle condizioni di far qualcosa dato il forte sostegno alla causa palestinese nelle rispettive società. Tuttavia, Egitto, Giordania e Qatar, seppur con interessi e motivazioni differenti, sono attivi con dialoghi su entrambi i fronti per interrompere l’escalation in corso. Tutti elementi che non permettono di far presagire un’evoluzione in senso positivo nell’attuale contesto di crisi.