Geopolitical Weekly n.121

Geopolitical Weekly n.121

Di Francesca Manenti
18.09.2013

Afghanistan

Il 13 settembre, un gruppo di insorti ha preso d’assalto il consolato statunitense a Herat, nella omonima provincia occidentale dell’Afghanistan: i militanti sono riusciti ad organizzare un attacco piuttosto strutturato, che ha visto un primo attentatore farsi esplodere a bordo del furgone con cui era giunto fino all’ingresso principale e permettere così ad un secondo gruppo di insorti di penetrare nell’edificio. Il personale occidentale non è stato coinvolto negli scontri, ma nell’attentato sono rimasti uccisi due membri dell’Afghan National Police (ANP) e un membro dell’Afghan Public Protection Force (APPF). L’episodio, rivendicato dai talebani nelle ore successive, è il settimo attacco complesso in poco più di due settimane, compiuto dai talebani nell’ambito dell’offensiva di primavera.

La questione sicurezza nel Paese rimane ancora una priorità sia per le Forze della coalizione sia per il governo di Kabul che, a pochi mesi dal termine della missione ISAF e dalle elezioni presidenziali, deve cercare di affrontare la forte instabilità interna, prima che il governo assuma definitivamente la piena responsabilità della sicurezza del Paese. Gli sforzi del Presidente Karzai per riuscire ad intavolare un processo di pace con l’insorgenza talebana, fino ad ora, hanno portato ad un nulla di fatto. I talebani, infatti, criticano le posizioni filo-occidentali del Presidente e non lo ritengono, per tanto, un interlocutore credibile con cui discutere del futuro del Paese. Lo scorso 26 agosto, il Presidente Karzai, durante la sua prima visita in Pakistan al neo Primo Ministro Nawaz Sharif, ha richiesto la cooperazione di Islamabad per aprire un canale di dialogo tra l’Alto Consiglio di Pace Afghano e i leader talebani. Nei giorni scorsi però, la decisione del governo pachistano di scarcerare 33 talebani, tra cui l’ex numero due del Mullah Omar, Abdul Ghani Baradar, arrestato nel 2010, ha suscitato polemiche a Kabul. Nonostante il consigliere per la politica estera di Sharif, Sartaj Aziz, abbia attribuito la scelta ad un tentativo di agevolare un contatto con la leadership talebana, da parte afghana permangono ancora molte perplessità sulla sua efficacia: sia per l’effettivo ruolo che Baradar potrebbe ricoprire in un eventuale dialogo con i talebani, dopo tre ani di lontananza, sia per la probabilità che l’ex leader torni invece tra le fila dell’insorgenza e vada quindi ad aggiungere il proprio contributo alle operazioni contro il governo e le Forze internazionali.

Egitto

Due attentanti suicidi, pressoché simultanei, hanno colpito, lo scorso 11 settembre, il quartier generale dei servizi di informazione militare egiziani nella zona di Imam Ali, a Rafah, e un checkpoint poco lontano, vicino al confine con la Striscia di Gaza. L’attacco, in cui sono rimasti uccisi sei soldati, è stato l’ultimo episodio di violenza nella Penisola del Sinai contro le Forze di sicurezza egiziane, impegnate tra agosto e settembre in una massiccia campagna militare per arginare la crescente destabilizzazione nei territori al confine con Israele. Nelle ultime settimane, infatti, l’Esercito del Cairo ha portato a termine una serie di operazioni nel nord della regione, nell’area della città di Sheikh Zuweid e nella zona di Rafah, che hanno permesso di individuare e mettere in sicurezza obiettivi ritenuti essere luoghi di rifugio per i militanti e depositi d’armi, in cui sono stati ritrovati carichi di missili antiaerei, lanciagranate anticarro (RPG) e mortai. Le autorità egiziane hanno arrestato circa 300 militanti, molti dei quali affiliati alla rete di al-Qaeda. Tra questi anche esponenti del gruppo Ansar al-Jerusalem, responsabile dell’attentato fallito al Ministro degli Interni, Mohammad Ibrahim, al Cairo dello scorso 5 settembre, e del Consiglio della Shura dei Mujahideen nella Regione di Gerusalemme, il gruppo che ha il proprio quartier generale nella Striscia di Gaza. La conferma della partecipazione di jihadisti palestinesi nei disordini in Sinai ha portato le autorità del Cairo ad accusare Hamas di addestrare i militanti e agevolare i rifornimenti della rete, ma il gruppo palestinese si è detto estraneo a qualsiasi coinvolgimento.
In seguito alla destituzione di Mohammed Morsi da parte dei militari, lo scorso 3 luglio, la sicurezza nella Penisola del Sinai, già fortemente influenzata dalla profonda instabilità generata da tre anni di crisi politica, ha registrato un rapido deterioramento. Il ruolo attivo dell’Esercito nella politica interna e la determinazione del nuovo governo nel cercare di ripristinare un’autorità centrale solida ha suscitato la dura reazione delle cellule qaediste presenti nella regione, che hanno visto nel ritorno dei militari una minaccia potenziale al proprio radicamento sul territorio.

Filippine

Circa 200 militanti del Moro National Liberation Front (MNLF), gruppo islamico originario dell’isola di Mindanao, il 9 settembre hanno attaccato la città di Zamboanga e la vicina provincia di Basilan, nella parte sudoccidentale dell’arcipelago filippino, che il gruppo aveva dichiarato indipendente il mese scorso. Le Forze Armate di Manila, intervenute con circa 3.000 soldati per liberare la popolazione dall’assedio, hanno ingaggiato una settimana di duri scontri con i militanti. Nonostante sembrasse che il Vice-Presidente, Jejomar Binay, e il leader del MNLF, Nur Misuari, avessero raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, nelle scorse ore gli scontri hanno preso nuovo vigore e il governo di Manila ha predisposto un attacco aereo per neutralizzare i ribelli. Sembrerebbe, infatti, che la preoccupazione per un ulteriore deterioramento delle condizioni di sicurezza della popolazione abbia portato il Presidente, Benigno Aquino, ad interrompere qualsiasi trattativa e a intensificare le operazioni militari per sedare le violenze al più presto.
Il mese scorso, il gruppo aveva dichiarato l’indipendenza dei territori meridionali delle Filippine. Il MNLF, infatti, fondato nel 1971 per combattere l’autorità centrale e fondare uno Stato islamico indipendente nel Paese, rappresenta uno dei principali gruppi irredentisti con cui il governo di Manila si deve rapportare e il primo con cui sia stato istituito un tavolo di dialogo, nel 1996. Recentemente, però, il leader Misuari ha criticato il Presidente Aquino per essere stato escluso dal processo di riconciliazione, avviato lo scorso ottobre tra il governo e il Moro Islamic Liberation Front (MILF) e che dovrebbe disciplinare l’istituzione della regione autonoma di Bangsamoro, nella parte meridionale dell’isola di Mindanao. Il MNLF ha ribadito il proprio rifiuto per qualsiasi soluzione proposta dal governo di Manila che riconosca solo l’autonomia, e non la completa indipendenza, della regione meridionale del Paese.

Siria

Al termine di tre giorni di colloqui cominciati il 12 settembre a Ginevra, il Segretario di Stato statunitense, John Kerry e il Ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, hanno annunciato nella giornata di sabato il raggiungimento di un accordo per procedere allo smantellamento dell’arsenale chimico del Presidente siriano, Bashar al-Assad. Secondo quanto concordato, Assad dovrà fornire un elenco dettagliato dell’attuale quantità e tipologia di armi chimiche a sua disposizione, consentire agli ispettori dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW) di ispezionare i depositi entro novembre per poi provvedere alla completa distruzione dell’arsenale entro l’estate del 2014. L’iniziativa, nata ufficialmente su proposta di Mosca, era stata menzionata da Kerry tra le possibili soluzioni che avrebbero fatto desistere gli Stati Uniti dal condurre un attacco, seppur circoscritto, contro i dispositivi di difesa di Assad, accusato del bombardamento chimico al distretto di Ghouta (Damasco) dello scorso 21 agosto. L’apparente apertura diplomatica del Segretario di Stato, di fatto, ha dato a Mosca la possibilità di fornire all’alleato mediorientale una via d’uscita diplomatica.
I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, stanno ora valutando la possibilità di implementare lo smantellamento dell’arsenale chimico attraverso una risoluzione ONU, ma non è ancora stato stabilito a quale capitolo della Carta dovrà fare riferimento. Se rientrasse nell’ambito del Capitolo VII, infatti, la risoluzione consentirebbe l’intervento militare, seppur in ultima istanza, per assicurare il rispetto delle disposizioni da parte di Assad. La Russia si è però detta contraria ad una risoluzione che contempli i ricorso all’uso della forza.
La Comunità Internazionale ha espresso la propria soddisfazione per un accordo che sembrerebbe, di fatto, porre termine alla discussione su un imminente intervento militare contro il Presidente siriano. Permane tuttavia il dubbio che il consenso raggiunto tra Mosca e Washington a Ginevra possa rappresentare un presupposto per la ripresa delle trattative tra Assad e la Coalizione Nazionale Siriana: il Comandate del Free Syrian Army, Generale, Selim Idriss, infatti, ha espresso il proprio disappunto per un accordo che non ridurrebbe l’effettiva possibilità per Assad di portare avanti le operazioni militari contro i militanti dei gruppi ribelli. Sono proseguiti in questi giorni, infatti, gli scontri per il controllo della città di Maalula, vicino a Damasco.

Somalia

Omar Sharik Hammami, militante di al-Shabaab conosciuto come Abu Mansoor al-Amriki, sarebbe stato ucciso, il 12 settembre, su ordine della leadership del suo stesso gruppo in un villaggio vicino a Bardhere, a sud-ovest di Mogadiscio. Al-Amriki, nato in Alabama e soprannominato per questo “l’Americano”, si era unito ad al-Shabaab nel 2006 ed era stato inserito dal Federal Bureau of Investigation (FBI) tra gli Specially Designated Global Terrorist, con una taglia di 5 milioni di dollari come ricompensa per la sua cattura. Tra i principali reclutatori del gruppo, recentemente però Amriki aveva assunto posizioni critiche nei confronti della linea operativa adottata dal comandante Mokhtar Ali Zubeyr, accusato di voler concentrare l’attività dei militanti solo all’interno del Paese piuttosto che contribuire all’affermazione internazionale del jihad. I due leader erano giunti ai ferri corti già nei mesi scorsi, tanto che Hammami aveva denunciato di essere sopravvissuto ad un precedente attentato già lo scorso aprile.
Benché al-Shabaab non abbia ancora confermato la responsabilità dell’attacco, la morte di Hammami sarebbe l’ultimo episodio di violenza compiuto contro membri del gruppo che hanno preso le distanze dalla condotta di Zubeyr. Lo scorso giugno, infatti, Ibrahim Afghani, ex comandante che aveva espresso la propria solidarietà ad Hammami, era stato ucciso in un’imboscata dai militanti di al-Shabaab. La lotta intestina tra i leader storici della cellula qaedista in Somalia, potrebbe, di fatto, rappresentare un vantaggio per il Presidente Hassan Sheik Mohamud, per cui l’irredentismo di al-Shabaab rappresenta la principale minaccia alla stabilizzazione dello Stato. Nonostante abbia subito pesanti perdite in seguito agli scontri con le Forze governative e dell’Unione Africana nel 2011, infatti, il gruppo controlla tuttora le zone rurali della fascia centro-orientale del Paese.

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