La presenza militare della Francia nel Sahel
Africa

La presenza militare della Francia nel Sahel

Di Lorenzo Marinone
19.04.2015

Dal 1° agosto 2014 l’Esercito francese è presente in tutto il Sahel con l’operazione Barkhane, che ha sostituito le precedenti operazioni Serval (in Mali dal 2013) e Epervier (in Ciad fin dal 1986). I Paesi direttamente interessati dalla missione, cioè Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, sono tutti situati nella fascia sahelo-sahariana e tagliano orizzontalmente l’intero continente. Allo stesso tempo la Francia mantiene altre missioni a carattere militare in Africa, ad esempio nella Repubblica Centrafricana (operazione Sangaris, iniziata nel dicembre 2013) e il presidio navale nel trafficato golfo di Guinea, messo in campo nel 1990 (operazione Corymbe). Tuttavia Barkhane presenta importanti elementi di novità rispetto alle principali operazioni militari lanciate in precedenza in tutto il continente, che riguardano l’assetto generale delle Forze Armate francesi così come gli interessi strategici di Parigi nella regione, nonché il rapporto con gli alleati presenti nell’area e le modalità di contrasto ai fenomeni di carattere terroristico.

La presenza militare francese in Africa è uno status consolidato. Figlia dell’epoca coloniale, è pro-seguita senza soluzione di continuità, benché sotto altra forma, anche dopo le ondate indipendenti-ste degli anni ’60. Negli ultimi 50 anni, infatti, Parigi ha lanciato circa 40 operazioni militari, di cui 20 solo sotto la presidenza Mitterand (1981-95). L’insieme di queste missioni può essere suddiviso in tre periodi distinti. Fino al ’74 hanno avuto generalmente l’obiettivo di affiancare i neonati Eserciti delle ex colonie per supportarne la stabilizzazione interna. Nel ventennio successivo la Francia ha ampliato il ventaglio delle finalità, intervenendo anche con scopi offensivi, ad esempio nel caso della deposizione di Bokassa I in Centrafrica con l’operazione Barracuda del 1979, o difensivi, come mostra l’aiuto fornito per anni al Ciad nella guerra contro la Libia di Gheddafi nel corso degli anni ‘80. Il 1994 può essere considerato un punto di svolta per due motivi. Innanzitutto per la prima svalutazione del franco CFA, valuta di origine coloniale che garantiva la parità con la divisa francese. Questo fatto rese evidente l’incapacità di Parigi di proteggere le economie africane dagli effetti del mercato globale. In secondo luogo per gli scontri etnici in Ruanda, dove il Governo guidato da-gli Hutu ricevette fino a poche settimane prima supporto militare e logistico dalla Francia, che contribuì così, anche se non in modo diretto, al genocidio in cui è sfociato il conflitto fra Tutsi e Hutu. Ciò spinse a ripensare le modalità d’intervento.

Da allora la Francia, che non ha rinunciato a iniziative unilaterali, ha però privilegiato soluzioni multilaterali di concerto con l’ONU o con le organizzazioni africane di livello continentale (l’Unione Africana, UA) e regionale (nell’Africa occidentale la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, CEDEAO; in quella centrale la Comunità economica degli Stati dell’Africa centrale, CEEAC). Inoltre, in seguito alla fine della Guerra Fredda, come gli alleati Occidentali così anche la Francia aveva intrapreso una generale revisione delle Forze Armate, creando così i presupposti per una rimodulazione anche dell’impegno all’estero.

Contestualmente è variato anche il tipo di minaccia da affrontare. Infatti, al posto delle Forze Arma-te del patto di Varsavia, un vasto numero di gruppi terroristici d’ispirazione jihadista si sono diffusi nel continente africano, agevolati in particolare dal decennio di guerra civile in Algeria negli anni ’90 nonché dall’instabilità crescente nel Corno d’Africa. Diversi gruppi jihadisti, soprattutto nel Sahel, hanno saputo sfruttare la porosità dei confini per finanziarsi tramite il controllo delle rotte del contrabbando e per muoversi agilmente fra uno Stato e l’altro, impegnando così gli Eserciti della regione in complesse guerre asimmetriche condotte con tattiche di guerriglia. Questo scenario si è consolidato soprattutto fra il 2007 e il 2011, con la nascita e l’affermazione di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) e la profonda destabilizzazione della Libia in seguito alla fine del regime di Gheddafi.

L’espansione di gruppi armati di matrice jihadista è stata prontamente assorbita nell’ambito della “guerre contre la terreur” iniziata con l’11 settembre 2001. L’Africa ha assunto una forte rilevanza anche per gli interessi securitari di altri Paesi, in particolare gli Stati Uniti, che sono andati sempre più a intersecarsi con quelli francesi. Benché la presenza americana maggiore sia tuttora focalizzata su teatri più distanti come la Somalia e lo Yemen e faccia affidamento prevalentemente su reparti e mezzi di stanza a Gibuti, Washington porta avanti una chiara strategia per il Sahel fin dal 2002. È di quell’anno la Pan Sahel Initiative, con cui gli USA garantivano agli Eserciti di Mali, Mauritania, Niger e Ciad supporto logistico e addestramento finalizzato al controllo dei confini in ottica di con-trasto al terrorismo. Con l’allargamento del 2005 nasce la Trans-Saharan Counterterrorism Initiative (TSCTI), tuttora attiva, che tocca l’intero Maghreb, ex colonie francesi come Burkina Faso e Senegal, spingendosi fino alla Nigeria. In questo quadro assume un’importanza particolare l’addestramento delle truppe locali e la promozione di molteplici collaborazioni bilaterali fra gli Stati africani, la cui componente prettamente militare fa capo all’operazione Enduring Freedom – Trans Sahara. Il frutto più evidente di tale iniziativa è l’annuale esercitazione congiunta denominata Flintlock, sotto la diretta supervisione del Comando Africano degli Stati Uniti (AFRICOM).

La strategia americana per il Sahel, benché non preveda l’impiego diretto di truppe di terra, vede la presenza in loco di personale militare. Dispiegato soprattutto nei Paesi dell’Africa centro-orientale, dove gli USA dispongono di una dozzina di basi minori, non va però oltre le poche decine di unità per Stato (con l’unica eccezione della base di Camp Lemonnier nel Gibuti, i cui effettivi sfiorano i 4.000 uomini). In assenza di segnali di un’inversione di tendenza, è evidente come il Sahel resti per gli USA un campo di intervento tutto sommato marginale rispetto ad altre regioni. Il personale operativo nell’area, insufficiente per sostenere un impegno unilaterale di vasta portata, è invece principalmente deputato all’addestramento e al rafforzamento della cooperazione con le Forze Armate lo-cali. Bisogna però segnalare il ricorso, sempre più frequente dall’insediamento dell’amministrazione Obama, a missioni di sorveglianza e ricognizione condotte con i droni Reaper (disarmati), di stanza a Niamey e Agadez in Niger e in Burkina Faso.

Da un lato questo rinnovato interesse per la regione trova una spiegazione nella necessità di contra-stare un fenomeno, quello del terrorismo di matrice jihadista, sempre più globale, che potrebbe trovare terreno fertile nell’area del Sahara-Sahel grazie all’instabilità regionale dovuta agli esiti incerti delle così dette “Primavere arabe”. D’altro canto non va comunque sottovalutato l’interesse rivestito da un continente che presenta un grande numero di nuovi mercati in rapida espansione e una platea di consumatori in crescita costante, nonché la ricchezza in termini di risorse naturali di gran parte dei Paesi africani. Tutti fattori che pongono gli USA in diretta competizione con la Francia.

Parigi infatti ha un forte interesse a mantenere intatta la propria influenza politica ed economica sulla regione e a contenere l’espansione del terrorismo, soprattutto alla luce della prossimità geografica all’area e della sua storia di tradizionale Paese di immigrazione per gli abitanti dell’Africa francofona. Il suo passato coloniale, ragione storica che ne giustifica la massiccia e peculiare presenza militare in Africa, non trova paragoni con quella di nessun altro Stato. A differenza degli USA, infatti, la Francia ha costantemente dispiegato truppe di terra in ogni operazione. La rilevanza del continente traspare dal numero di uomini impiegati: a fronte di un totale di effettivi dell’Esercito più che dimezzato dalla fine degli anni ’80 a oggi, i militari dislocati in Africa subiscono solo una leggera diminuzione, passando dai circa 10.000 del 1989 ai quasi 9.000 di inizio 2015. Questa profonda differenza rispetto all’impegno americano deve essere imputata anche alla presenza (soprattutto nel Sahel) di forti interessi francesi in ambito economico, industriale ed energetico. Sotto questo profilo l’azienda di maggior rilevanza strategica è Areva, che detiene un ruolo di primo piano nell’estrazione dell’uranio grazie allo sfruttamento delle due miniere a Arlit e Akokan in Niger (una terza nella vicina Imouraren è in fase di apertura). L’uranio lì estratto soddisfa non meno di un terzo del fabbisogno energetico della Francia, Paese dipendente al 75% dal nucleare, oltre ad essere indispensabile per il mantenimento dell’arsenale atomico. Questi impianti sono già stati oggetto di attentati in passato. L’ultimo risale al maggio 2013 ed è stato condotto dal Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO), gruppo jihadista all’epoca attivo nel vicino Mali. Altre aziende con interessi nella regione sono i colossi Total e Bolloré, oltre a gruppi di primo piano come Sogea-Satom, Veolia, Delmas.

I nuovi scenari regionali hanno messo in luce le crescenti minacce agli interessi di Parigi. In quest’ottica l’operazione Barkhane è strutturata sia per far fronte al nuovo contesto che per continuare a tutelare la posizione acquisita dalla Francia e i suoi interessi. Ciò è evidente da un bilancio dei punti di forza e dei limiti delle operazioni Serval e Epervier, che Barkhane sostituisce e implementa.

L’operazione Serval, iniziata nel gennaio 2013 in Mali con il compito di bloccare l’avanzata dalla regione settentrionale di Kidal dei separatisti tuareg e dei gruppi jihadisti, non ha risolto definitiva-mente la situazione. Bamako ha ripreso il controllo di vaste zone nel nord del Paese, ma le milizie armate non sono state debellate, sicché il Mali presenta a tutt’oggi una situazione di conflitto a bassa intensità, con frequenti attentati diretti in particolar modo contro le Forze Armate straniere e con-tingenti multinazionali. In questo senso, il limite maggiore di Serval è stato restringere il proprio raggio d’azione all’interno dei confini del Mali, laddove non è stato interrotto il corridoio sahariano che collega il nord del Mali con la Libia, permettendo così l’afflusso continuo di armi e uomini, e vaste regioni dell’Algeria meridionale sono presto diventate basi arretrate dei separatisti grazie all’estrema porosità del confine e la vicinanza con la regione dell’Adrar des Ifogas, roccaforte dei gruppi jihadisti in Mali. L’ex colonia di Parigi, infatti, benché dotata di un consistente apparato mi-litare e di una vasta esperienza in termini di contrasto al terrorismo, ha fatto mancare la volontà politica di collaborare con la Francia. Tuttavia la stretta cooperazione con le truppe locali, l’uso massiccio delle Forze Speciali (fra i 400 e i 500 uomini) e la grande quantità di uomini impiegati (oltre 4.000) hanno permesso di raggiungere velocemente i principali obiettivi di breve periodo. Anche il passaggio di testimone alle Forze Internazionali ha dato risultati apprezzabili nell’ottica di Parigi. Caschi blu e caschi verdi infatti hanno gradualmente affiancato in modo capillare (e in molti casi sostituito) l’Esercito francese, contribuendo a garantire una maggiore stabilità al Paese e allo stesso tempo svincolando uomini e mezzi di Parigi. L’importanza di questo passaggio è chiara nel momento in cui si confronta lo scenario maliano con quello libico del 2011, dove i bombardamenti francesi, privi di un’iniziativa via terra e senza alcuna strategia per il dopo Gheddafi, hanno creato buona parte dei presupposti della paralisi politica e degli scontri tra fazioni ancora in essere 4 anni dopo.

Al contrario, l’operazione Epervier (1986-2014) basata a N’Djamena in Ciad è stata caratterizzata da una prolungata e importante presenza sul terreno, non limitata ai frangenti di crisi più acuta come l’invasione libica della striscia di Aozou. Epervier, benché formalmente limitata al solo Ciad, servì nei fatti anche come spina dorsale e serbatoio di uomini e mezzi già operativi nella regione per successive operazioni unilaterali (fra cui Serval e Sangaris) così come per missioni sotto l’egida inter-nazionale (ad esempio EUFOR in Ciad, MINURCAT in Centrafrica), grazie all’elevato numero di militari che impiegava (le cifre oscillano, a seconda degli anni, fra i 3.000 e i 1.000). Il costante supporto al regime di Idriss Déby, sviluppatosi in una stretta cooperazione tanto nella conduzione di missioni congiunte quanto nella fornitura di mezzi e armamenti, ha inoltre consolidato il rapporto con l’ex colonia dotandola di uno degli Eserciti migliori del continente e consentendole non solo di far fronte a minacce dirette, bensì di svolgere un potenziale ruolo di egemonia nell’intera regione. Questo interesse francese per il Ciad si rivela tuttora fondamentale nell’ottica del contrasto al terrorismo. Il Ciad infatti si trova al centro di un vero e proprio crocevia fra la direttrice “orizzontale” (dal Sahel alla Penisola Araba) e quella “verticale” (dalla Libia alla Nigeria). Questa situazione trova una recente concretizzazione nell’iniziativa ciadiana di guidare la Multinational Joint Task Force (MNJTF), composta esclusivamente da truppe africane, nella lotta al gruppo terroristico Boko Haram attivo fra lo Stato del Borno nel nord della Nigeria, il Niger e il Camerun. A quest’operazione Parigi dà un rilievo crescente, come testimoniato dal recente invio di un maggior numero di consiglieri militari a N’Djamena, organizzati in una Cellula di coordinamento e contatto e dedicati esclusivamente al supporto della MNJTF. Inoltre la Francia ha dislocato un distaccamento di coordina-mento e contatto a Diffa, nell’estremo sud del Niger, e ha spostato in Ciad un quarto Rafale dotato di pod RECO NG.

Barkhane è stata modellata a partire dai limiti sopra elencati. Le esigenze che va a implementare sono un’ottica regionale, lo sviluppo della capacità di intervenire con rapidità e in modo capillare (non limitata al solo potenziale di proiezione delle truppe), la cooperazione militare con gli Stati ospitanti, senza tralasciare le esigenze di bilancio dell’intero comparto Difesa.

Fra i preparativi funzionali al nuovo modello di missione va annoverata la rinegoziazione di tutti gli accordi bilaterali nell’ambito della cooperazione militare e della difesa stretti nei decenni precedenti con le ex colonie dell’Africa occidentale e del Sahel, gli ultimi proprio nell’imminenza dell’avvio di Barkhane, come nel caso del Mali. In linea generale, tali accordi legalizzavano la presenza temporanea di contingenti francesi nel Paese ospitante limitatamente alle sole funzioni di addestramento militare e di assistenza tecnico-logistica, oltre a costituire accordi-quadro per la fornitura di armi e mezzi. Di diverso tenore erano invece gli accordi stipulati volta per volta per legittimare un inter-vento unilaterale francese, volti sostanzialmente a garantire sostegno giuridico e quindi agibilità mi-litare alle truppe impegnate in un Paese straniero. I nuovi accordi, rinnovabili su base quinquennale invece che biennale, puntano soprattutto a definire un quadro di intesa fra i contraenti tutto rivolto alla sicurezza dei confini e al contrasto del terrorismo in un’ottica non più statuale ma regionale. Di conseguenza, gli accordi prevedono la possibilità di azioni congiunte (offensive e di pattugliamento), lo scambio di informazioni di intelligence, e soprattutto lasciano carta bianca alla Francia nella creazione di nuove basi militari, elemento imprescindibile per impiantare stabilmente una forza di terra nella regione.

L’operazione Barkhane ha avviato il ripensamento dell’intero sistema di basi militari francesi in Africa. Già nel 2011 sotto la presidenza Sarkozy era stata sostanzialmente smantellata la base di Dakar per aprirne una nuova ad Abu Dhabi, evidenziando in tal modo la necessità di affrontare le criticità dell’intera area con un unico macro-dispositivo di portata regionale. Barkhane divide la fascia sahelo-sahariana in un settore ovest e un settore est, rispettivamente facenti capo alla base di Gao (Mali) e di N’Djamena (Ciad, che svolge anche la funzione di quartier generale). Dei circa 3.000 uomini impegnati nell’operazione (che saranno aumentati di alcune centinaia di unità nei prossimi mesi), un terzo è di stanza a Gao e può essere rapidamente spostato nelle altre basi minori afferenti al settore ovest (Atrar, Timbuctù, Kidal, Ansongo e Tessalit), mentre nella base aerea 101 di Niamey in Niger possono atterrare i rifornimenti e sono di stanza alcuni Mirage 2000, tre droni (due Harfang e un Reaper) e pattugliatori Breguet Br 1150 Atlantic (Atlantique 2), verosimilmente con capacità aggiunta SIGINT. Per quanto riguarda il settore est, oltre alla base aerea 172 di N’Djamena sono attive le basi di Abéché, Faya-Largeau e nel luglio prossimo sarà completata Ma-dama. La componente terrestre di questo settore è imperniata su 30 blindati, un centinaio di camion logistici e 1.300 uomini del 3° Reggimento Paracadutisti, del 1° Reggimento Paracadutisti Ussari, dello squadrone 1/67 Pyrénées, più uomini del Genio.

Questa rete di basi è disposta lungo tre linee situate a corona attorno all’area del Sahel. La prima (Gibuti, Libreville in Gabon, Douala in Camerun e Abidjan in Costa d’Avorio) e la seconda (Atrar in Mauritania, Gao in Mali, Ouagadougou in Burkina Faso, Niamey in Niger e N’Djamena in Ciad) erano già pienamente operative negli anni passati e nell’ambito di Barkhane servono rispettivamente da basi arretrate di supporto logistico (porti e aeroporti per entrambi i settori) e da basi avanzate dove vengono ospitati il grosso delle truppe e dei mezzi. La terza corona è composta da “basi avanzate temporanee” (BAT) rese operative appositamente per Barkhane. La loro collocazione rispecchia la necessità di disporre di punti d’appoggio nel cuore del teatro delle operazioni, per mantenere una presenza capillare sul territorio, dai quali poter attivare in tempi rapidissimi operazioni di pattugliamento e ricognizione con ogni mezzo disponibile, senza limitarsi alla semplice sorveglianza aerea.

Le BAT si trovano a Tessalit (nord del Mali, in prossimità del confine con l’Algeria), Madama (Niger settentrionale vicino alla frontiera con la Libia) e Faya-Largeau (nel nord del Ciad, a ridosso del massiccio del Tibesti e della Libia). Significativamente, le BAT comprendono nel proprio raggio di azione anche le regioni del Fezzan e dell’Algeria meridionale (benché il Paese maghrebino, ex colonia francese, si opponga alla presenza di truppe di Parigi sul suo territorio e manifesti la volontà di gestire autonomamente la minaccia terroristica). Ogni avamposto, benché strutturato per ospitare al massimo poche centinaia di uomini, è stato dotato di piste adeguate tanto per i droni quanto per es-sere utilizzate da velivoli di rifornimento e trasporto truppe di grandi dimensioni, in grado di sposta-re con più facilità anche mezzi blindati per il pattugliamento e il trasporto truppe (principalmente i veicoli di prima linea blindati VAB e veicoli blindati da combattimento di fanteria VBCI). In questo modo vengono evitati lunghi tragitti via terra ai rifornimenti e alle truppe, limitando al massimo il rischio di imboscate. L’elevata mobilità delle truppe impegnate in Barkhane è volta a garantire un controllo adeguato dell’enorme teatro delle operazioni. Sempre nell’ottica di mantenere basso il numero degli effettivi va letto l’impiego cospicuo delle Forze Speciali (afferenti al COS, Commandement des Opérations Speciales).

La BAT di Madama è sotto diversi aspetti esemplare. Costruita come fortino nel 1931 e poi abbandonata, è situata presso un crocevia strategico per le rotte dei traffici nel Sahel, ugualmente vicina ai corridoi di Salvador, Tumu e Korizo e all’altopiano di Djado che permettono a gruppi jihadisti e trafficanti (soprattutto al-Mourabitoun, “Sentinelle”, gruppo jihadista in cui sono confluiti il MU-JAO e i Firmatari con il Sangue guidati da Mokhtar Belmokhtar, e milizie tuareg della zona di Sebha e Awbari) di spostarsi fra il sud della Libia e l’Adrar des Ifoghas nel nord del Mali. Da Madama si controlla anche l’accesso alla zona di Arlit e Agadez, dove è presente Areva. Benché non sia ancora completamente operativa, la base ospita già circa 200 militari francesi (3° Reggimento Paracadutisti della Marina, 1° Reggimento Ussari Paracadutisti, artiglieri del 35° Reggimento Paracadutisti, più alcune unità del Genio) e altri 150 soldati nigerini in forza al 24° Battaglione Interforze. La pista di atterraggio presente, che misura 1.300 metri e permette di accogliere aerei da trasporto tattico come i C-130 Hercules e i C-160 Transall, sarà allungata fino a 1800 metri. Perciò appare verosimile che sia previsto il consueto accordo relativo al prestito di mezzi da trasporto con gli alleati presenti nella regione (in questo caso le Forze Armate inglesi, che dispongono di Airbus A440M e Boeing C-17 già usati per Serval), oppure che sia una misura preventiva in vista della futura acquisizione degli Airbus A330 MRTT. Vi stazionano anche due elicotteri Puma dell’Armée de l’Air. A fine dicembre, la base ha accolto il posto comando tripartito dell’operazione anti-contrabbando Mangouste che ha coinvolto 370 militari francesi, 70 nigerini e 110 ciadiani, investendo entrambi i versanti della frontiera fra il Ciad e il Niger.

L’adeguamento delle forze in campo alla nuova strategia prevista dall’operazione Barkhane è avvenuto in parallelo con un più generale processo di revisione della composizione e del budget delle Forze Armate francesi, le cui tendenze principali erano già visibili da alcuni anni. Il Libro Bianco del 2013 approfondisce le linee espresse dal report precedente del 2008, accelerando sul rafforzamento delle Forze Speciali e sull’ammodernamento degli equipaggiamenti. In controtendenza rispetto ad altri Stati europei come Regno Unito e Germania, il budget della Difesa previsto dalla Legge di Programmazione Militare 2014-2019 (LPM) per il primo biennio viene mantenuto ai livelli del 2013 (ossia 31,4 miliardi di euro), per poi aumentare fra il 2016 e il 2019 fino a 32,5 miliardi, con la quota stanziata per gli equipaggiamenti in crescita di 2,2 miliardi e altri 1,5 miliardi resi disponibili per l’eccellenza tecnologica e l’industria della difesa dal uno specifico programma di investimento. I principali acquisti in programma riguardano l’Aeronautica, con 225 Rafale in ordinazione e 12 droni Reaper già autorizzati dal Congresso americano (il cui acquisto, però, sta subendo notevoli ritardi), a riprova del crescente bisogno di mezzi per missioni di ricognizione e pattugliamento su aree vaste e di difficile accesso via terra.

L’aumento di spesa viene in parte compensato dall’ulteriore diminuzione degli effettivi (23.500 uomini in meno nei 5 anni), confermando una scelta perseguita ormai da più di 20 anni. In generale, la rimodulazione delle Forze Armate, comune a tutti i Paesi nel periodo post Guerra Fredda, ben si accorda con la necessità della Francia di liberare risorse a favore di una maggiore specializzazione (in questo senso il destinatario principale sono le Forze Speciali, colonna portante della componente umana nelle operazioni all’estero, che la nuova Legge di Programmazione Militare aumenta da circa 3.100 a 3.746 effettivi) e del raggiungimento dell’obiettivo di rapida proiezione delle truppe (recentemente fissato nei termini di 1.500 uomini in 5 giorni a una distanza massima di 8.000 km).

Le linee fondamentali espresse dagli indirizzi di bilancio rafforzano anche le risorse spendibili nell’abito delle missioni internazionali. La disponibilità francese a operare sotto l’egida di organizzazioni internazionali e regionali presenta da sempre un carattere ambivalente. Raramente Parigi fa mancare il proprio supporto, soprattutto nel Sahel, ma in diverse occasioni ha contestato nei fatti la linea di comando, mantenendo i propri assetti pressoché indipendenti rispetto ai comandi centrali unificati delle missioni. Tuttavia il rapporto fra operazioni unilaterali francesi e supporto alle missioni internazionali resta stretto. La rimodulazione strategica espressa con Barkhane e gli investimenti previsti per la Difesa potrebbero ,anzi, costituire il presupposto per una maggiore cooperazione in futuro, benché sempre con un alto grado di autonomia e quasi sfruttando a proprio vantaggio gli sforzi della Comunità Internazionale. Il numero di militari dispiegati, comunque limitato a poche migliaia e difficilmente espandibile (non solo per ragioni di budget ma soprattutto per la precisa scelta strategica di snellire gli effettivi), indica che il supporto di altre forze in campo è necessario, a maggior ragione in un teatro di operazioni vasto quanto il Sahel. Se una coabitazione è necessaria, la collaborazione attiva con le componenti militari internazionali risulta comunque utile alla Francia, e non solo per liberare parte delle proprie risorse. In prospettiva la Francia potrebbe puntare verso una maggior differenziazione dei compiti, focalizzando il proprio Esercito sulle aree che presentano caratteri di emergenza, che grazie agli accordi bilaterali ha una possibilità di azione più ampia delle truppe internazionali.

Articoli simili