Ungheria, la svolta del governo Orbàn tra crisi economica ed impasse europea
L’11 marzo scorso in Ungheria è stata approvata definitivamente dall’Assemblea Nazionale la revisione di ventidue articoli della Costituzione promossa dal partito di maggioranza Fidesz del Premier Viktor Orbàn. Forte della larga maggioranza detenuta in Parlamento, il Primo Ministro ha continuato a portare avanti un processo di riassetto istituzionale volto al potenziamento dell’esecutivo nei confronti degli altri organi istituzionali. A nulla sono valse, fino a questo momento, le pressioni e l’opposizioni incontrate sia sul piano interno sia nel contesto internazionale, in particolar modo quelle promosse dall’Unione Europea. Gli emendamenti alla Costituzione, entrati in vigore il primo gennaio del 2012, è stato approvato con 265 voti a favore, 11 contrari e 33 astensioni.
L’elemento che ha destato le maggiori perplessità consiste nella compromissione delle funzioni della Corte Costituzionale, che ha visto notevolmente limitate le proprie competenze, ora circoscritte al giudizio sulle questioni procedurali del diritto di abrogazione delle norme costituzionali. Inoltre, l’emendamento ha abbassato l’età di pensionamento dei giudici membri della Corte, verosimilmente per favorire un ricambio nella sua composizione funzionale al sostegno del partito di governo. Appare evidente lo scopo politico di Fidesz: indebolire quegli organi istituzionali che fino a questo momento hanno svolto una funzione di limitazione alle proposte legislative portate avanti dal Governo di Orbàn. Il principio d’indipendenza degli organi di giustizia viene ulteriormente messo in discussione con la semplificazione della procedura di trasferimento di un processo in corso da una sede di giudizio all’altra.
Oltre al cambiamento degli equilibri istituzionali, i nuovi emendamenti determinano delle limitazioni alle libertà civili e politiche dei cittadini ungheresi. Infatti, tra le disposizioni entrate in vigore è prevista la possibilità del governo di intervenire in senso limitativo nei confronti della libertà di espressione per tutelare «la dignità della Nazione, dello Stato, e della persona». Tra i nuovi reati introdotti c’è stata la criminalizzazione dei cittadini senza dimora, per i quali è prevista l’incarcerazione, è ridotta l’autonomia delle Università e dei cittadini laureati, impossibilitati a lasciare il Paese nei 10 anni successivi al conseguimento della laurea in caso abbiano beneficiato di borse di studio statali, viene riconosciuta dalla legge come famiglia solo l’unione costituita dal matrimonio tra un uomo e una donna secondo i principi della religione cristiana. Infine, il Partito Comunista viene di fatto estromesso e definito “associazione criminale”.
Gli eventi dell’11 marzo devono essere contestualizzati in un processo più ampio, che vede la sua origine nel clima della campagna elettorale del 2010 e del programma politico presentato da Fidesz. Presentatosi come partito anti-comunista e liberale a favore della Chiesa e della famiglia, Fidesz si fece promotore di un processo di completa ridefinizione della politica nazionale sia sul piano interno che nel contesto internazionale, riassunto nello slogan “rivoltare il Paese come un calzino”. Inoltre la retorica dei suoi esponenti si è arricchita progressivamente di richiami più o meno palesi alla dittatura militare dell’ammiraglio Miklós Horthy negli anni Venti, all’idea della Grande Ungheria, nonché di pulsioni xenofobe e razziste.
I risultati elettorali delle elezioni del 2010 hanno decretato una schiacciante vittoria del Fidesz che ha conquistato 262 seggi sui 386 dell’Assemblea Nazionale. In queste condizioni il partito guidato da Viktor Orbàn ha avuto a disposizione numeri e strumenti per attuare il proprio programma, culminato, appunto, con l’adozione della nuova Carta Costituzionale. La stretta del governo e la preminenza dell’esecutivo si è manifestata anche attraverso la recente elezione a governatore della Magyar Nemzeti Bank (la banca centrale) di Gyorgy Matolcsi, già Ministro dell’Economia, accusato, in particolar modo sul piano internazionale, di eccessivo asservimento ad Orbàn. Le dimissioni di Julia Kiraly, vice governatore della banca centrale magiara, rassegnate il 7 aprile scorso, sembrerebbero essere un segno di protesta contro le modifiche del modus operandi e dell’indipendenza dei vertici governativi e bancari, potenzialmente pericolose per l’economia ungherese.
Di fatto con l’avvento del Fidesz al Governo la situazione economica ungherese, complice anche il contesto internazionale, ha subito un peggioramento. Il Paese sta attraversando una profonda fase di recessione, con un forte inasprimento di disuguaglianze sociali e povertà. Le agenzie di rating hanno declassato il Paese ad un livello appena superiore alla categoria “junk” (spazzatura) ed il fiorino continua ad essere ai suoi minimi storici sull’euro. In questo contesto le dichiarazioni e le politiche portate avanti dal Governo Orbàn, di fatto ostili alla finanza internazionale, scoraggiano gli investimenti esteri.
Il contesto di crisi economica generale, sia nazionale sia a livello europeo, può costituire un’interessante chiave di lettura per analizzare il “problema ungherese”, nonché le reazioni e le iniziative promosse fino a questo momento dall’Unione Europea. Le precarie condizioni economiche della popolazione ungherese determinano una forte presa elettorale del partito di Orbàn, che basa la sua retorica politica su un nazionalismo estremo e la volontà di creare un’identità ungherese forte in contrapposizione alle istituzioni europee. Non a caso, nonostante le recenti modifiche costituzionali abbiamo limitato libertà civili e politiche dei cittadini, il Fidesz sembrerebbe continuare a godere di un ampio consenso elettorale in vista delle prossime elezioni nel 2014.
Allo stesso modo, le difficoltà economico-finanziare attraversate in questi ultimi anni nella cosiddetta “zona-euro” hanno inciso sulla gestione della questione ungherese. A partire dall’adozione della nuova Carta Costituzionale, le istituzioni europee, ma anche gli Stati Uniti e diverse associazioni per la tutela dei diritti umani come Amnesty International, hanno fortemente criticato l’azione governativa di Orbàn. In sede europea sono state poste in essere pressioni politiche, fino alla minaccia della sospensione di aiuti economici del Fondo Monetario Internazionale (FMI), sebbene sia evidente che un peggioramento della situazione ungherese sia poco auspicabile nel contesto di crisi dell’euro-zona. Di fatto tale pressing non ha impedito all’esecutivo magiaro di andare avanti nel suo processo di ridefinizione istituzionale del Paese anche se il 14 aprile scorso Orbàn ha annunciato una possibile modifica di alcuni degli emendamenti recentemente approvati, in considerazione della loro manifesta incompatibilità con norme del diritto comunitario denunciata più volte in ambito Ue.
Riguardo al contesto interno, le forze politiche di opposizione, in primis il partito socialista, vivono una fase di profonda crisi e ridefinizione dopo il tracollo elettorale del 2010. La forte maggioranza detenuta dal Fidesz in Parlamento riduce ancor di più il loro margine di manovra tanto che nel corso delle ultime votazioni per gli emendamenti costituzionali, il partito socialista ha abbandonato l’aula in segno di protesta contro la violazione dell’iter procedurale ed a causa della mancata considerazione delle loro richieste. Nonostante le numerose manifestazioni di protesta organizzate negli ultimi anni e gli appelli rivolti sulla stampa internazionale, il partito socialista non sembra al momento in grado di presentarsi all’opinione pubblica magiara come una valida alternativa al Fidesz per la giuda del Paese.
In definitiva, sebbene le pressioni politiche dell’Ue, legate alla concessione di crediti agevolati ed all’accesso ai fondi strutturali, inizino a determinare un ammorbidimento delle posizioni di Fidesz, è difficile ipotizzare un repentino cambiamento di rotta dell’azione del partito di governo. Infatti, Fidesz ha fatto del nazionalismo sciovinista e del contrasto all’europeismo uno dei punti principali sia della propria propaganda sia del proprio programma politico. Un repentino cambio dei toni, dunque, potrebbe determinare la perdita di parte del consenso elettorale in vista delle prossime elezioni, previste per il 2014.