Sfide e prospettive del riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte di Norvegia, Irlanda e Spagna
Medio Oriente e Nord Africa

Sfide e prospettive del riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte di Norvegia, Irlanda e Spagna

Di Giuseppe Dentice
23.05.2024

Il 22 maggio, i Ministri degli Esteri di Norvegia, Spagna e Irlanda hanno annunciato che dal prossimo 28 del mese, i loro governi riconosceranno ufficialmente l’esistenza di uno Stato di Palestina. La reazione israeliana è stata molto dura: il governo ha invitato i propri rappresentanti diplomatici dei Paesi coinvolti a rientrare immediatamente per consultazioni. In tale atto, come spiegato anche dal Ministro degli Esteri Israel Katz, l’esecutivo ha intravisto una sorta di favore politico riconosciuto ad Hamas.

Ad oggi, la Palestina è riconosciuta da 143 membri su 193 delle Nazioni Unite (più dei due terzi dei suoi componenti), di cui 9 Paesi europei sui 27 dell’UE (Bulgaria, Cipro, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Svezia e Ungheria), che hanno approvato la risoluzione del Parlamento europeo che sostiene il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Di questi solo la Svezia, nel 2014, ha riconosciuto ufficialmente una statualità per la Palestina. A livello internazionale, invece, nel 2012 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva promosso la Palestina da “entità non statuale” a “Stato osservatore non membro” (uno status simile a quello della Santa Sede), benché nelle scorse settimane il medesimo organismo aveva riconosciuto alla Palestina l’idoneità “come membro effettivo” del consesso onusiano.

Al di là del simbolismo, la decisione assunta da Madrid, Dublino e Oslo ha anche un rilevante impatto politico. Innanzitutto, tale scelta si è mostrata come una naturale prosecuzione rispetto a posizioni già esplicitate in passato e che presto potrebbe essere seguita da altre cancellerie: Malta e Slovenia hanno da tempo manifestato interesse a perseguire tale strada, e anche realtà quali Francia, Regno Unito e Belgio hanno espresso posizioni molto assertive nei confronti del governo israeliano, specie per la sua condotta nella guerra in corso a Gaza. Ciò significa che all’interno del continente europeo e dell’UE (la Norvegia non è membro) esiste una profonda divisione che, tuttavia, è riuscita ad andare oltre quello stallo permanente e a promuovere un chiaro segnale di rinnovamento verso la questione palestinese, per la prima volta dalla Dichiarazione di Venezia (1980). Di fatto, tale azione rappresenta una svolta, soprattutto se si considera la contrapposizione esistente in seno all’Unione Europea con diversi Stati – quali Germania e Italia – convinti sostenitori del principio dei “due Stati” come unico strumento in grado di garantire un approccio conciliante e plausibile alla risoluzione della crisi atavica tra israeliani e palestinesi. Posizioni, quest’ultime, che in un certo qual modo non sono distanti dall’approccio statunitense verso il tema. La rottura di questo schema, però, che ha dominato a lungo l’impasse politica europea non rappresenterebbe un’eccezione o un limite alla questione in oggetto, bensì potrebbe porsi come un viatico politico ideale per rilanciare l’opzione dei due Stati, sostenendo al contempo la legittimità internazionale e di Israele entro i limiti riconosciuti dai confini del 1967.

Però il conflitto a Gaza e soprattutto le sempre più crescenti violenze in Cisgiordania hanno mostrato l’impossibilità oggi esistente sul campo di poter rianimare quel processo statuito ad Oslo nel 1993. Ecco perché la posizione assunta da alcuni Stati europei può rappresentare un elemento di novità notevole in grado di aprire il fianco a prospettive differenti. In altre parole, se l’unica strada oggi sul tappeto rimane la proposta Trump del 2020, il cosiddetto Accordo del Secolo, è possibile che questo strappo in seno all’UE possa però favorire uno slancio propositivo, anche in collaborazione con altri attori internazionali – specie quelli arabi – interessati alla ricerca di un meccanismo di stabilizzazione definitivo della questione israelo-palestinese.

Al netto di tutto, infatti, i limiti maggiori al cambiamento sono portati in eguale misura dai due attori direttamente interessati. Per quel che riguarda il campo israeliano, è plausibile immaginare che tale stato dei fatti potrebbe favorire una qualche ricomposizione delle fratture oggi esistenti a più livelli tra governo, istituzioni e società. Questo perché dentro Israele sono tante le voci, i distinguo e i modi immaginati per risolvere l’affaire palestinese, ma sono in pochi a contemplare un pieno riconoscimento di uno Stato palestinese. In molti sono favorevoli al mantenimento dello status quo ante conflitto (seppur molto complesso date le evoluzioni sul terreno) o ad ampliare gli avamposti e le colonie ebraiche in Cisgiordania al fine di produrre un’annessione de facto dei territori palestinesi da parte di Israele. Non a caso, quasi tutti i governi israeliani dal 1993 ad oggi hanno puntato a svuotare i processi diplomatici nell’ottica di promuovere una propria azione unilaterale che non farebbe altro che perpetrare lo stato dei fatti e acuire la tensione permanente con i palestinesi. È altresì evidente che l’attuale esecutivo al potere – le cui posizioni sono di feroce opposizione alla soluzione dei due Stati – rifiuterà in qualsiasi modo ogni iniziativa diplomatica che possa riconoscere un qualche ruolo futuro ad Hamas, ma più in generale un qualsiasi riconoscimento verso una statualità palestinese. Una strada simile però rischia di condurre ad un isolamento internazionale, con le autorità israeliane indifferenti ai suggerimenti e alle pressioni dei partner arabi e di quelli euro-atlantici, sempre più scontenti dell’approccio massimalista di Tel Aviv. Diversamente, potrebbe essere politicamente conveniente per Israele riprendere la strada diplomatica e scommettere sulle divisioni palestinesi nel caso di un qualsiasi fallimento negoziale.

Al contempo, le sfide che investono il campo palestinese non sono meno rilevanti. Da tempo, il contesto politico e istituzionale è frazionato al suo interno e incapace di promuovere una qualsivoglia azione riformista in materia di governance e di protezione dei diritti dei palestinesi. Se la decisione di Norvegia, Spagna e Irlanda può in un certo senso rilanciare e rilegittimare le ambizioni di un sistema politico, è pur vero che dalla parte palestinese si deve essere disposti non solo a riconoscere Israele ad esistere, ma anche a garantirne la sicurezza nel lungo periodo. È altrettanto vero, che proprio questo punto deve essere uno sprone ulteriore per condurre le istituzioni locali, a cominciare dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), a riconoscere e promuovere un autentico processo di autodeterminazione che passi dal ricucire le fratture interne, così come dal rinnovare pratiche e meccanismi di potere anche in un’ottica di rilegittimazione popolare. Solo così sarà possibile indebolire i sostenitori della linea dura, come Hamas, il Jihad Islamico Palestinese o tutti quei gruppi anche in Cisgiordania che della violenza politica e della resistenza armata hanno fatto un loro marchio di fabbrica. Non a caso, dal conflitto a Gaza e dalle tensioni mai de-escalate con Israele questi soggetti hanno raccolto un grande sostegno pubblico che è stato abilmente tramutato in rilevante capitale politico. Sostenere, quindi, un orizzonte politico e favorire un rinnovamento interno alle istituzioni e alle pratiche del mondo palestinese potrebbe essere la via più concreta per rilegittimare la causa e i suoi attori legittimi, riponendo Hamas e tutti i gruppi che si richiamano alla violenza armata al di fuori di qualsiasi credito e legalità locale, mediorientale e internazionale.

Pertanto, mentre le condizioni politiche e di sicurezza continueranno a degradarsi sul terreno, le sfide che si presenteranno nelle prossime settimane potranno essere un momento importante per l’Occidente intero nel quale poter individuare quegli elementi concreti per rilanciare un framework operativo nel dossier israelo-palestinese, nonché per ripresentarsi al cosiddetto Sud Globale e al mondo intero sotto canoni differenti rispetto alle solite accuse di doppi standard rispetto alle principali questioni di carattere internazionale.

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