Turchia, i pesi massimi dell'AKP sfidano l'egemonia di Erdogan
Medio Oriente e Nord Africa

Turchia, i pesi massimi dell'AKP sfidano l'egemonia di Erdogan

Di Melania Malomo
13.10.2019

Recentemente, il primo partito turco, l’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, in italiano Partito di Giustizia e Sviluppo) del Presidente Recep Tayyip ErdoÄŸan, sta affrontando una crisi interna a causa dell’uscita dalle sue fila di diversi storici esponenti. A dare inizio all’ondata di dimissioni è stato l’ex Ministro delle Finanze, Ali Babacan, che ha annunciato la sua uscita dal partito l’8 luglio, seguito da HaÅŸim Kılıç, ex Presidente della Corte Costituzionale. BeÅŸir Atalay, ex Ministro dell’Interno, Mehmet ÅžimÅŸek, ex Ministro delle Finanze, e infine, lo scorso 13 settembre, l’ex Primo Ministro Ahmet DavutoÄŸlu sono stati invece espulsi dal partito in seguito all’avvio di un provvedimento disciplinare per il loro atteggiamento critico nei confronti della linea politica dell’AKP. Sia Babacan che DavutoÄŸlu hanno espresso apertamente le loro preoccupazioni riguardo la crescente distanza tra l’ideologia partito e i suoi principi fondanti, oltre che per la personalizzazione operata da ErdoÄŸan, e hanno quindi manifestato l’esigenza di promuovere una nuova linea di pensiero per la politica turca. In base a queste motivazioni, i due ex “pesi massimi” dell’AKP hanno annunciato l’intenzione di formare ognuno un proprio partito prima del 2020.

Oltre alle defezioni ai massimi livelli del partito, lo stato di salute dell’AKP appare sempre più compromesso anche a causa di una consistente emorragia di quadri e iscritti a livello locale. Infatti, solo tra agosto 2018 e luglio 2019 la formazione di ErdoÄŸan ha perso circa 800mila membri.

Si tratta di una flessione importante per un partito come l’AKP che, per ben 17 anni, ha avuto un ruolo pressoché egemone all’interno del panorama politico turco, vincendo tutte le elezioni dal 2002 a oggi, spesso raggiungendo la maggioranza assoluta dei seggi, e comunque con un margine tale da consentirgli quasi sempre la formazione di governi monocolori.

Tale flessione è stata causata da una serie di fattori, tra cui un’elevata inflazione e la crisi dei rifugiati siriani (attualmente, 3,6 milioni di siriani vivono in territorio turco) ma, soprattutto, è strettamente interconnessa alla progressiva personalizzazione del potere operata dal leader del partito e Presidente della Repubblica turca, ErdoÄŸan.

Il principio della parabola discendente della vita politica di ErdoÄŸan può essere rintracciato nella serie di scelte compiute in seguito al fallito tentativo di golpe da parte delle Forze Armate turche lo scorso 15 luglio 2016, che si sono rivelate azzardate e non sempre coerenti con le linee politiche che hanno caratterizzato tradizionalmente l’AKP.

A tutti gli effetti, il colpo di Stato fallito ha rappresentato un tornante decisivo nella vicenda politica dell’attuale Presidente. Storicamente, le Forze Armate turche si sono sempre fatte promotrici di un assetto statale di stampo kemalista, vale a dire quell’assetto laico e ispirato a valori democratici, che rappresenta l’eredità politica del fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal Atatürk. I militari sono intervenuti varie volte nelle vicende politiche turche tramite colpi di Stato volti a ripristinare il rispetto di quei valori costituzionali, primo tra tutti il laicismo, qualora si riteneva che fossero minacciati dalle azioni dell’apparato governativo. In questo senso, il potere militare turco ha storicamente esercitato una forma di tutela sulla politica.

È proprio contro questa forma di tutela che si è sviluppata negli anni tutta l’azione di ErdoÄŸan. Infatti, il Presidente ha incardinato la sua politica su una fondamentale integrazione dei valori dell’Islam politico all’interno del quadro istituzionale turco, nel palese tentativo di utilizzare la religione come grimaldello per rovesciare i tradizionali equilibri repubblicani. Queste politiche hanno riscosso un crescente consenso popolare. Inevitabilmente, dal momento che l’agenda politica avanzata da ErdoÄŸan negli ultimi 17 anni è risultata sempre più in diretta antitesi rispetto ai valori fondanti della Repubblica di Ataturk, le Forze Armate turche hanno addotto a questa specifica motivazione per giustificare il tentativo di rovesciare il governo del Presidente.

Su questo sfondo, il fallimento del colpo di Stato ha dato ad ErdoÄŸan un forte pretesto per rafforzare ulteriormente i suoi già ampi poteri istituzionali tramite la dichiarazione dello stato di emergenza, la conseguente repressione del dissenso attraverso l’incarcerazione dei nemici politici e la concentrazione del potere nelle sue mani con una svolta politica in senso presidenzialista, che ha fatto virare lo Stato turco verso una fisionomia più prossima ad un regime ibrido.

La riforma, approvata con il 51,41% dei consensi tramite referendum nell’aprile 2017, ha apportato una serie di modifiche costituzionali, tramite 18 emendamenti volti a concentrare il potere esecutivo integralmente nelle mani del Presidente, eliminando la figura del Primo Ministro. Altra importante modifica consiste nell’eliminazione del rapporto di fiducia tra governo e Parlamento, il Meclis, consentendo in questo modo al Presidente di governare, seppur privo della maggioranza parlamentare, tramite lo strumento della decretazione d’urgenza. Inoltre, il nuovo assetto presidenziale limita fortemente il potere legislativo del Meclis, in quanto le funzioni del Parlamento sono ridimensionate all’adesione o meno alla linea dell’esecutivo e all’approvazione della legge di bilancio, per la quale il Parlamento detiene ancora una competenza esclusiva. Infatti, è la figura del Presidente ad essere responsabile per l’emanazione dei decreti e anche per l’eventuale scioglimento del Meclis. Quest’ultimo passaggio, però, implicherebbe automaticamente l’avvio della procedura per le elezioni anticipate anche per il rinnovo della carica presidenziale, in quanto la riforma prevede che le elezioni dei due organi debbano avvenire simultaneamente. Oltre al potere legislativo, ErdoÄŸan si è quindi garantito anche il controllo sul potere giudiziario e sugli apparati militari. Infatti, con la riforma, il Presidente ha anche facoltà di nominare metà dei membri della Corte Suprema (Hsyk, Hakimler ve savcilar yüksek kurulu) che, a loro volta, nominano giudici e procuratori, ed ha ottenuto di fatto il pieno controllo delle Forze Armate, scongiurando così ogni probabilità che si ripetano le condizioni che hanno condotto al fallito colpo di Stato.

Tuttavia, tale accentramento di poteri si è fin da subito accompagnato ad un aumento trasversale delle resistenze, da parte di alcune forze politiche e di settori sempre più ampi della società civile. Infatti, i risultati del referendum hanno consegnato al fronte nazionalista AKP-MHP (Milliyetçi Hareket Partisi, Movimento del Partito Nazionalista) una magra maggioranza e la perdita del “Sì” in alcune delle principali provincie turche, come Ankara ed Istanbul, che storicamente hanno sempre supportato l’operato del partito del Presidente. Vedendo vacillare il proprio consenso, ErdoÄŸan ha annunciato la sua decisione di anticipare di più di un anno, a giugno 2018, le elezioni per la nomina del Capo dello Stato e per il rinnovo del Parlamento. Poco prima dell’annuncio, ErdoÄŸan ha introdotto una riforma elettorale che consentiva ai partiti di presentarsi alle elezioni con liste uniche. Questi emendamenti hanno permesso anche ai partiti minori, in particolare l’alleato MHP, di superare l’alta soglia di sbarramento del 10% grazie alla presenza di coalizioni pre-elettorali e, quindi, di eleggere dei deputati proporzionalmente ai voti presi, il che avrebbe assicurato la maggioranza dei seggi all’Alleanza Popolare (AKP-MHP). Infatti, grazie a questo escamotage, l’AKP è riuscito a controbilanciare la perdita di ben 22 seggi e ad ottenere la maggioranza assoluta (344 seggi su 600) nel Meclis, oltre che la rielezione dello stesso ErdoÄŸan con il 52,59% di consensi. Di fronte alla prospettiva di essere ridotte all’irrilevanza, le diverse opposizioni politiche hanno quindi tentato subito di far fronte comune, superando le diffidenze e mettendo da parte la distanza tra le rispettive visioni politiche. La principale nemesi dei conservatori alle elezioni del 2018 era rappresentata dalla nuova Alleanza Nazionale, la coalizione formata da partiti di opposizione, abbastanza eterogenei tra di loro ma uniti esclusivamente in funzione anti-ErdoÄŸan, come il partito nato da una scissione all’interno dell’MHP, cioè il partito conservatore Ä°yi (Buon Partito), il partito liberale e conservatore DP (Democrat Parti, in italiano Partito Democratico) e infine il partito islamico e conservatore SP (Saadet Partisi, in italiano Partito della Felicità), riuniti sotto il cappello del social-democratico CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, in italiano Partito Popolare Repubblicano), che sono riusciti a raggiungere quasi il 34% dei consensi nelle elezioni parlamentari.

In questa tornata elettorale, nonostante l’AKP si sia riconfermato come primo partito nazionale, i risultati non erano però così certi come in precedenza, quando l’AKP raccoglieva più del 50% dei consensi ed era quindi in grado di formare governi monocolore, come è accaduto fin dal 2002. La perdita di consenso da parte dell’AKP appare ancora più consistente se si guarda ai risultati delle elezioni locali di marzo 2019. Il partito del Presidente ha perso nelle 5 principali provincie, tra cui Ankara e, soprattutto, Istanbul, città in cui il partito del Presidente è stato sempre egemone per 25 anni, in cui ErdoÄŸan ha iniziato la sua carriera politica come sindaco, e che detiene, quindi, una particolare importanza emotiva per il Presidente turco. Nella metropoli sul Bosforo, il candidato del CHP, Ekerm Ä°mamoÄŸlu, è riuscito a raccogliere un inedito 48,77% dei consensi, risultato possibile soltanto grazie al supporto di tutte le altre forze opposte all’AKP. Il timore che la perdita di Istanbul si riverberasse in futuro sulla performance elettorale complessiva dell’AKP ha indotto il Capo dello Stato a pretendere la ripetizione del voto, sfruttando alcuni cavilli legali. Le successive elezioni, svoltesi a giugno, hanno consegnato al candidato social-democratico una maggioranza ancora più ampia (54,21%), confermando in maniera ancor più netta la portata della perdita di popolarità subita da ErdoÄŸan. Inoltre, il controllo di determinate municipalità consente di avere accesso ad importanti somme di denaro, che l’AKP usava per finanziare i propri sistemi clientelari e quindi per garantirsi una forte base elettorale anche a livello locale. Ora, invece, Ä°mamoÄŸlu sta apportando diverse modifiche all’interno degli apparati burocratici locali, tra cui l’eliminazione di tutto quel surplus di impiegati statali che precedentemente rispondevano alle dinamiche di patronato dell’AKP, andando ulteriormente a sfoltire la base elettorale del Presidente.

Questa serie di “sconfitte” elettorali registrate nel periodo post-golpe hanno palesato la distanza, sempre più marcata, tra l’AKP, che fino ancora al 2017 raccoglieva i consensi di una larga base elettorale, prevalentemente conservatrice e islamica, e un popolo turco che appare più disilluso dall’operato di ErdoÄŸan. Una disillusione che deriva, in larga parte, dal drastico peggioramento del quadro economico avvenuto negli ultimi anni, laddove la principale promessa elettorale dell’AKP è sempre stata il risollevamento economico del Paese e una redistribuzione più equa della ricchezza. Stando ai più recenti sondaggi, il 54,7% dei cittadini turchi ha dichiarato che non voterà per ErdoÄŸan alle elezioni presidenziali, programmate per il 2023, mentre una percentuale più alta, il 62,5%, auspicherebbe addirittura un ritorno al sistema parlamentare. Dunque, se la base del consenso del partito del Presidente dipendeva principalmente da una favorevole congiuntura economica (il boom registrato in Turchia dall’inizio degli anni 2000) e da un’opposizione politica debole e disorganica, ora queste condizioni sono venute a mancare a seguito del successo dell’Alleanza Nazionale nelle elezioni e alla crisi dell’economia e del debito turco del 2018. La condizione di incertezza economica dovuta alla debolezza della moneta turca e il conseguente aumento dei tassi di inflazione, insieme con l’aumento della disoccupazione (attualmente al 20%), hanno contribuito a delegittimare l’operato del governo e conseguentemente a dare maggiore risalto ai partiti all’opposizione, che hanno sfruttato queste condizioni a loro favorevoli per unire le proprie forze in funzione anti-ErdoÄŸan.

Tale perdita di popolarità da parte del Presidente, ora attestata al 44% (un calo del 10%), ha influito negativamente sulle dinamiche di partito, dal momento che ErdoÄŸan ha attuato un processo di personalizzazione all’interno AKP tale da far venir meno i basilari meccanismi di check-and-balance interni. Mancando qualsiasi tipo di consultazione, i membri del primo partito nazionale risultano completamente oscurati dalla figura del Presidente, che impone direttamente la propria linea politica senza effettivamente constatare se tale direzione sia accolta o meno dalla maggioranza  dei deputati dell’AKP. Inoltre, già durante il 2017 e poi di nuovo nell’agosto del 2018, il Presidente aveva apportato delle importanti modifiche all’interno del Comitato esecutivo centrale, principale organo decisionale del partito, e nella Commissione centrale per la decisione e l’attuazione, escludendo da tali organi quei membri dell’AKP che sono stati eletti deputati. In tal modo, ErdoÄŸan ha quindi reimpostato la dialettica interna al partito lungo i soli binari della fedeltà al leader, erodendo di conseguenza i margini per qualsiasi espressione del dissenso.

In questo quadro, non deve quindi stupire che molti membri dell’AKP, nel corso degli ultimi 2 anni, abbiano seriamente iniziato a considerare l’uscita dal partito come l’unica opzione disponibile, un percorso intrapreso dai già citati Ali Babacan e Ahmet DavutoÄŸlu. In questo senso, questi ultimi, un tempo tra i politici più vicini ad ErdoÄŸan, hanno visto la perdita di consensi, sia all’interno del partito che nell’elettorato in generale, come l’occasione adatta per spezzare il monopolio attualmente detenuto dall’AKP sull’elettorato conservatore attraverso la creazione di due partiti, direttamente concorrenti di quello di ErdoÄŸan. Il partito dell’ex Primo Ministro turco avrà un’ideologia islamista e conservatrice, mentre quello di Babacan (che potrebbe contare anche sull’appoggio di Abdullah Gül, il co-fondatore dell’AKP), avrà invece un’impronta centrista e liberale, che andrà a riprendere la linea politica originaria del Partito di Giustizia e Libertà. Verosimilmente, quest’ultimo partito sembra avere tutti i requisiti per risultare più appetibile agli occhi dell’elettorato originario dell’AKP: in primis perché la figura di Babacan è associata ad un periodo di favorevole congiuntura economica, in quanto il leader del nuovo partito ha ricoperto la carica di Ministro delle Finanze in un periodo di forte crisi economica ed è stato in grado di attuare le riforme necessarie non solo per superarla, ma anche per garantire stabilità e ricchezza economica alla Turchia per ben 15 anni. Inoltre, l’ideologia del suo nuovo partito, che assimila i principi islamici ad una governance democratica, una politica economica liberista e un’attenzione alla tutela dello stato di diritto, ha le potenzialità per ottenere un esteso supporto popolare proprio tra le fila degli elettori delusi dalla deriva autoritaria di ErdoÄŸan (sottraendo all’AKP una fetta consistente del proprio bacino elettorale), ma anche fra alcune frange dei sostenitori del CHP.

In risposta alla sfida rappresentata dai nuovi partiti dei dissidenti, che minacciano di privare il partito del Presidente del suo ruolo egemone all’interno della geografia politica turca, ErdoÄŸan sembra voler ricorrere a metodi e strumenti ormai consolidati, acuendo la polarizzazione del dibattito politico allo scopo di delegittimare gli avversari. Infatti, il Capo dello Stato ha inasprito la sua retorica, arrivando a definire esplicitamente i fuoriusciti dal suo partito come sostenitori del terrorismo. ErdoÄŸan al tempo stesso sta tentando, ancora una volta, di usare la carta della religione per ottenerne un vantaggio politico. Babacan e DavutoÄŸlu sono stati infatti accusati di non rispettare i valori fondanti dell’Islam, dal momento che le loro azioni avrebbero lo scopo di dividere la Ummah (la comunità islamica) e creare una sorta di guerra civile, il che è esplicitamente proibito dal Corano. Inoltre, il Presidente ha incrementato il controllo sui media nazionali con lo scopo di rinvigorire la propria figura e, allo stesso tempo, ha intensificato il ricorso a metodi repressivi.

Nel complesso, dunque, lo sfavorevole quadro economico, la svolta politica in senso autoritario, la personalizzazione del partito e la maggiore coesione all’interno dei partiti d’opposizione sono tutti fattori che tratteggiano una parabola a tutti gli effetti discendente nella vicenda politica di ErdoÄŸan. Le loro dirette conseguenze, cioè la recente fuoriuscita dal partito di esponenti particolarmente rilevanti nel panorama politico turco e la perdita di quasi 1 milione di iscritti, rischiano di minare ulteriormente la base elettorale del Presidente e di mettere addirittura in discussione, già nel prossimo futuro, il ruolo egemonico dell’AKP sulla scena politica nazionale.

Nello scenario politico turco che si sta delineando, quindi, l’AKP e la figura di ErdoÄŸan rischiano di vedere indeboliti e depotenziati quegli storici connotati anti-establishment che garantivano un supporto popolare trasversale, in grado di combinare le istanze religiose e politiche dei settori più o meno conservatori della società. La retorica populista e nazionalista infatti era supportata da politiche e riforme economiche efficienti, che sono riuscite a consegnare un generale aumento della ricchezza e nei livelli di vita dei turchi per circa un ventennio. Ora che queste condizioni sono messe fortemente in dubbio, se non venute definitivamente meno, il ruolo egemone rivestito da ErdoÄŸan all’interno del partito e nel panorama politico si configura come un ulteriore fattore discriminante. Infatti, il Presidente ha concentrato il potere decisionale integralmente nella sua figura, fatto che lo dipinge come direttamente responsabile della recente crisi dell’economia turca, bersaglio del malcontento crescente dovuto alla presenza dei rifugiati siriani in territorio turco, e architetto di una svolta in senso autoritario dell’assetto istituzionale turco che, a distanza di appena due anni, non sembra raccogliere più il favore della maggioranza della popolazione. Di queste difficoltà hanno saputo prontamente approfittare le opposizioni, che sono riuscite facilmente ad attrarre i consensi dell’elettorato meno conservatore, e le frange scissioniste dello stesso partito di ErdoÄŸan, che stanno sfruttando questa congiuntura per contestare al Presidente la leadership del centro-destra. Il prosieguo della vicenda politica del Capo dello Stato e il futuro di questi esperimenti scissionisti sembra quindi strettamente legato alla capacità di questi ultimi di saper interpretare e dare forma concreta ad una visione politica più moderata, che metta da parte l’approccio conflittuale e polarizzante proprio dell’AKP dell’ultimo decennio, con l’obiettivo di risanare tanto la disastrata economia nazionale quanto un’architettura istituzionale che oggi è piegata a logiche personalistiche e risulta permeabile a forme di autoritarismo.

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