Transizione energetica cinese tra rinnovabili e sicurezza energetica
Nel corso del discorso di apertura del 19esimo Congresso del Partito Comunista Cinese il presidente Xi Jinping ha usato per 89 volte la parola “ambiente”. Una scelta che testimonia la grande attenzione alla questione ambientale. Considerati i pericolosi livelli di inquinamento che continuano ad essere registrati all’interno del Paese, il governo promuove massicci investimenti in energie rinnovabili per garantire un ambiente più salubre. L’inquinamento, derivante principalmente dalla produzione di energia elettrica mediante centrali a carbone, ha causato risentimenti nella popolazione e ed è ormai un dato di fatto che si tratta di un tema fondamentale per la legittimazione del partito. Allo stesso tempo, gli investimenti nelle rinnovabili fanno parte della strategia di sicurezza energetica pianificata per ridurre la dipendenza energetica dalle importazioni. Tale strategia, tuttavia, deve fare i conti con l’importanza dello sfruttamento delle fonti fossili per la soddisfazione del fabbisogno energetico del gigante asiatico. A tal fine, per ridurre la dipendenza dalle forniture all’estero, la Cina sta puntando a aumentare la produzione interna di gas e petrolio e raggiungere al contempo un mix energetico in cui le rinnovabili rivestano un peso preponderante.
Dal 2010 al 2015 l’investimento cinese nelle energie rinnovabili è cresciuto da 39 a 111 miliardi di dollari nel 2015 portando a una crescita di 168 volte dell’energia solare e al quadruplicamento di quella eolica. Dal 2014 la Cina genera la stessa quantità di energia idroelettrica, solare ed eolica di Germania e Francia (le prime due economie d’Europa) messe insieme. Nel primo trimestre del 2016, la Cina ha investito 11,8 miliardi di dollari sul mercato delle rinnovabili diventando il primo paese al mondo (davanti a Stati Uniti e Germania) nella produzione di energia solare. Rilevanti anche le politiche delle amministrazioni locali e del governo centrale nel sostenere l’utilizzo dei veicoli elettrici. Come rileva un report dell’IEA (International Energy Agency_)_, nel 2016 la metà dei veicoli elettrici prodotti nel mondo sono stati acquistati proprio nel Paese asiatico. Il risultato è che oggi la Cina è il principale costruttore al mondo di sistemi energetici verdi avendo prodotto, alla fine del 2016, 558 miliardi di watt di capacità di generazione da fonti rinnovabili.
La transizione verso un modello per la produzione energetica (e quindi del settore industriale, dei trasporti e abitativo) è ritenuta dal governo il mezzo più efficace per ridurre l’inquinamento e i suoi effetti ma ha anche una motivazione marcatamente geopolitica dato che la Cina deve garantirsi l’approvvigionamento energetico attraverso la massiccia importazione di idrocarburi.
Nel 2016 il tasso di dipendenza della Cina al petrolio estero ha raggiunto il livello massimo tre il 62 e il 65 per cento, il tre per cento in più rispetto all’anno precedente, con la produzione nazionale scesa a 200 milioni di tonnellate. Alla luce di questo dato si comprende lo sforzo di Xi Jinping e dei suoi predecessori di costruire una politica di relazioni e di legami economici e commerciali con i Paesi produttori di petrolio. I cinesi stanno incrementando le acquisizioni globali e il finanziamento di progetti in Asia Centrale, in Medio Oriente, in America Latina e in Africa. In questa prospettiva va letto l’interessi di alcuni investitori cinese a rilevare una quota di Saudi Aramco, la compagnia petrolifera dell’Arabia Saudita (il primo fornitore di petrolio della Cina per molti anni, dal 2000 fino al 2015, quando è stata superata dalla Russia). Oggi la Cina è il secondo importatore al mondo dopo l’Unione Europea e assicurarsi una quota di Saudi Aramco aprirebbe la porta a nuovi accordi bilaterali per la fornitura di greggio e per progetti infrastrutturali. L’Arabia Saudita potrebbe rafforzare la propria posizione di fornitore, allo stesso tempo, essere incentivata a realizzare porti, terminal petroliferi, oleodotti, raffinerie per rendere maggiormente efficiente la rete di stoccaggio e distribuzione del greggio in Cina.
Tra i fattori di rischio della strategia di sicurezza energetica cinese non c’è solo la necessità di dover fare grande affidamento alle importazioni ma anche quello dei percorsi per far arrivare gli idrocarburi in territorio cinese. Pechino non ha sbocchi sul Mare Arabico e le petroliere che partono dal Golfo Persico sono costrette ad attraversare l’Oceano Indiano e a incunearsi nello Stretto di Malacca per raggiungere il Mar cinese meridionale. Inoltre lo stretto è una delle zone del mondo più minacciate dalla pirateria e il corridoio marittimo è costeggiato da Malesia e Indonesia, Paesi che hanno rapporti problematici con Pechino per quanto riguarda le rivendicazioni marittime. Quasi l’80 per cento delle importazioni cinesi deve passare attraverso il congestionato stretto (vi transita quasi il 40 per cento del commercio mondiale) e un eventuale blocco metterebbe in ginocchio l’intero Paese. Per svincolarsi dal transito del petrolio attraverso Malacca i cinesi hanno realizzato un oleodotto, parte dell’operazione “Belt and Road”, che collega il porto di Kyaukphyu in Myanmar alla città cinese di Kunming, nello Yunnan. Risponde alla stessa esigenza di diversificare le vie per l’approvvigionamento energetico anche il porto di Gwadar (a 400 chilometri dallo Stretto di Hormuz), in Pakistan, attrezzato per stoccare e raffinare il petrolio destinato alla Cina. Lo scalo marittimo nel Balocistan pachistano è il cardine del China Pakistan Economic Corridor, il corridoio cconomico che dovrà collegare Gwadar, al Xinjiang, la regione sud-occidentale della Cina.
Il gas naturale, il combustibile fossile più pulito e a minor intensità di carbonio, si sta affermando come il grande protagonista della transizione energetica verso le rinnovabili e la progressiva uscita del carbone. Dal 2005 la Cina rappresenta il più importante mercato al mondo per il metano e nel 2016 la domanda interna di gas naturale è cresciuta dell’otto per cento rispetto all’anno precedente. Con una produzione domestica di 134 miliardi di metri cubi (dati IEA) Pechino è il sesto produttore al mondo. Ma per alimentare la propria crescita economica, il Paese asiatico deve necessariamente contare sull’importazione e all’inizio del 2017 la russa Gazprom ha comunicato che prevede di iniziare a fornire gas (le forniture sarebbero dovute già lo scorso anno mentre il progetto era stato definito nel 2014) verso la Cina attraverso la Siberia nel dicembre del 2019. Come da contratto il gasdotto, ancora in fase di realizzazione, trasporterà in Cina 38 miliardi di metri cubi di gas naturale ogni anno per un periodo di 28 anni. Si tratta del più significativo accordo relativo al gas naturale siglato tra Cina e Russia. Nonostante l’impegno con Mosca, Pechino ha intenzione di ridurre le importazioni di metano via gasdotto e di gas naturale liquefatto (Gnl) via nave grazie allo sviluppo di programmi per lo sfruttamento di giacimenti nazionali. Per aumentare la produzione interna la Cina guarda con interesse al settore dello shale gas. Negli anni scorsi, sotto la spinta del governo le attività di esplorazione si sono intensificate e il governo ha invitato le major straniere a operare in Cina, tra queste la norvegese Statoil, la francese Total, la statunitense ExxonMobil e l’italiana Eni. Lo scorso anno è entrato in produzione il più grande progetto di shale gas del Paese. Quello di Fuling che permetterà alla Cina di raggiungere l’obiettivo dei 6,5 miliardi di metri cubi di shale gas prodotti all’anno.
L’obiettivo dei governanti cinesi è quello di ottenere, attraverso la transizione energetica, la decarbonificazione e di ridurre la dipendenza dalle importazioni di fonti fossili. Ma la poderosa svolta “green” nel panorama energetico permette a Pechino di pensare a esportare energia elettrica nei vicini Pakistan, India e Myanmar e di promuovere una rete elettrica interconnessa in Asia Nordorientale ma soprattutto mette a disposizione della Cina uno strumento di “soft power” per accrescere la propria influenza nelle relazioni internazionali. In particolar modo in questa fase storica in cui il Presidente statunitense Donald Trump è impegnato a cancellare le misure pro-rinnovabili e le restrizioni ambientali varate dall’Amministrazione di Barack Obama. In più occasioni la Cina ha criticato la svolta anti-ecologista degli Stati Uniti e ha rimarcato l’importanza degli accordi di Parigi, sui cambiamenti climatici (da cui gli Stati Uniti si sono ritirati) e la necessità di lavorare insieme al resto della Comunità Internazionale per implementare le intese sul piano d’azione al fine di limitare il riscaldamento globale. Sulla decarbonificazione e sulla lotta ai cambiamenti climatici, sebbene permangano i contrasti su temi fondamentali (come sussidi, accesso al mercato europeo, collegamento dei mercati dei diritti alle emissioni), la Cina si trova allineata con l’Unione Europea (UE), in contrapposizione alla nuova politica della Casa Bianca. Questa tendenza è stata confermata dal vertice UE-Cina svoltosi a Bruxelles lo scorso mese di giugno nel corso del quale è stata esplicitata la decisione di collaborare per rafforzare la cooperazione sulle questioni ambientali. La spinta all’implementazione di una strategia energetica maggiormente “green”, dunque, potrebbe consentire al governo di Pechino non solo di trovare un terreno di interesse comune con Bruxelles ma soprattutto di proporsi all’Europa e alla Comunità Internazionale come nuovo partner di riferimento per una questione tanto delicata e di respiro globale come la salvaguardia degli Accordi di Parigi.
Contenuto redatto con la collaborazione di Energy and Strategy Hub