Seconda Conferenza di Berlino: ancora pochi i passi in avanti in Libia
Mercoledì 23 giugno ha avuto luogo la seconda Conferenza di Berlino, che ha visto tutti i principali attori coinvolti nella crisi in Libia riunirsi nella capitale tedesca per portare avanti il processo di stabilizzazione e transizione del Paese, avviato con la prima conferenza del gennaio 2020. Alla fine dell’incontro, ne è risultato un lungo comunicato composto da ben 58 punti divisi in 6 sezioni, che vanno rispettivamente ad affrontare le sfide riguardanti il processo politico, la sicurezza, le riforme economico-finanziarie, il rispetto per i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Nonostante la portata degli aspetti affrontati, il documento non va eccessivamente oltre quanto già riportato nelle precedenti conclusioni di Berlino I, nonché nell’ultimo accordo per il cessate il fuoco di ottobre 2020. Al contrario, il comunicato si presenta come una mera dichiarazione di intenti e forti raccomandazioni, senza fornire indicazioni precise su come mettere in atto le finalità che emergono nelle rispettive sezioni.
Nello specifico, uno dei principali aspetti rimarcati nello statement riguarda il ritiro degli oltre 20.000 mercenari stranieri che ancora stanziano sul suolo libico, richiesto con forza già all’inizio del documento (punto 5). Nonostante il Ministro degli Esteri libico, Najla al-Mangoush, abbia affermato che il ritiro potrebbe verificarsi “sperabilmente nei prossimi giorni”, il comunicato non fornisce alcuna indicazione su come quest’ultimo debba essere implementato, lasciando dubbi sulla sua effettuabilità. Soprattutto, la Turchia ha firmato il documento ma apponendo una riserva su questo punto, a dimostrazione di come non vi sia la reale intenzione di Ankara (ma anche di Russia, Emirati Arabi Uniti e altri attori) nel rinunciare al proprio footprint militare sul suolo libico. In aggiunta, anche qualora si decidesse di procedere con il ritiro, questo potrebbe riguardare essenzialmente i mercenari siriani che combattono in Libia, sia sul fronte turco sia su quello russo, senza colpire i consiglieri turchi né gli effettivi del gruppo russo Wagner. Infatti, per quanto riguarda la controparte russa, il Vice Ministro degli Esteri, Sergej Vershinin, ha approvato le conclusioni, ma ciò non implica che un’ipotetica ritirata vada a riguardare i contractors della Wagner, visto che il Cremlino ha sempre dichiarato di non essere dietro lo schieramento e le operazioni di tali uomini in Libia. Un non-riconoscimento che permette a Mosca di non prendersi determinate responsabilità, dando l’impressione di mettere effettivamente in pratica il ritiro dei mercenari ma tenendosi aperta la propria sfera di influenza e il proprio raggio di azione. In ultima istanza, non va dimenticato che le milizie turco-russe non costituiscono l’unico contingente militare straniero in Libia, ma vi sono ancora migliaia di mercenari ciadiani, sudanesi e di altri paesi subsahariani legate alle fazioni libiche rivali. Il monitoraggio del ritiro di queste ultime – come di tutti i mercenari presenti in Libia – dovrebbe essere ora garantito da una specifica missione ONU, ma la mancanza di ulteriori dettagli su come e dove questa debba operare sparge dubbi sulla sua efficacia.
Considerazioni analoghe possono essere rivolte anche verso un altro aspetto cruciale affrontato durante la conferenza: l’approvazione di una base costituzionale per svolgere le elezioni nazionali parlamentari e presidenziali, al momento fissate al prossimo 24 dicembre. Nonostante il documento riconosca le attuali istituzioni ad interim – le quali sono state ufficialmente riconosciute come effettive partecipanti al vertice –, le incoraggi a svolgere pienamente i loro doveri nell’adempimento del loro mandato e le esorti a mettere in pratica i preparativi necessari per la tenuta di elezioni libere, eque e inclusive, non vi è alcun accenno a modalità e passaggi intermedi necessari per assicurarne lo svolgimento. Una mancanza non di poco conto, se si tiene in considerazione che il prossimo 1° luglio dovrebbe entrare in carica l’Alta Commissione Elettorale Libica per occuparsi del corretto svolgimento della tornata elettorale, nonostante al momento non ne siano stati definiti i parametri. È per questo che le Nazioni Unite sperano di trovare una soluzione rendendo il Forum di Dialogo Politico Libico (LPDF, l’organismo di 75 membri che a febbraio ha nominato le nuove autorità esecutive libiche ad interim) una sorta di mini Parlamento atto a votare la legge elettorale e la base costituzionale, così da superare le divergenze interne tra governo e organi legislativi libici. Tuttavia, anche tale assemblea non è esente da divisioni interne e la possibilità che la sua prossima riunione, convocata a Ginevra dal 28 giugno al 1° luglio, si riveli un nulla di fatto potrebbe seriamente compromettere lo svolgimento stesso delle elezioni di dicembre.
Un ulteriore nodo irrisolto riguarda la questione securitaria interna, sulla quale le parti hanno assentito nell’aiutare l’autorità centrale libica nel ripristino del suo monopolio sull’uso legittimo della forza, nonché nel riunificare le proprie Forze Armate e l’intero apparato di sicurezza nazionale tramite un processo di riforma. Come nei precedenti casi, non sono state fornite indicazioni su come procedere praticamente in tal senso e ciò giova alle operazioni militari che il Generale Khalifa Haftar continua a condurre nell’area meridionale del Fezzan, recentemente estesesi fino al confine algerino, dove questi ha preso il controllo di alcuni valichi di frontiera, come quello strategico di al-Ghat. Il tutto a detrimento del governo centrale, che non risulta ancora in grado di ripristinare il controllo sull’intero territorio nazionale.
Di conseguenza, le conclusioni dell’ultimo summit di Berlino non permettono di constatare dei rilevanti avanzamenti nel processo di transizione libico, perché gli attori si sono limitati a ribadire quanto già espresso in precedenza, senza inoltre apporre alcuna indicazione su come mettere in pratica quanto auspicato. Questo immobilismo decisionale potrebbe compromettere anche i piccoli progressi fatti fino ad ora, tanto in ambito securitario quanto nei confronti dell’assetto istituzionale, che rimane in uno status di precarietà e volatilità a soli sei mesi dal processo elettorale, a patto che questo abbia luogo. Tutte considerazioni che non permettono, dunque, di nutrire troppa fiducia in una stabilizzazione della Libia nel breve periodo.