Repubblica Centrafricana: la crisi interna e la minaccia alla stabilità regionale
Il colpo di Stato con cui, lo scorso 24 marzo, i ribelli di Séléka hanno rovesciato il presidente François Bozize ha aperto per la Repubblica Centrafricana una fase di profonda instabilità. Dopo la presa della capitale Bangui, le forze ribelli si sono rese colpevoli di saccheggi, violenze ed omicidi su tutto il territorio del Paese, ai danni sia dei sostenitori del deposto presidente che della popolazione civile in generale.
I dati forniti dalle organizzazioni umanitarie riferiscono che circa 350.000 persone sono state costrette a lasciare le proprie case ed a rifugiarsi nelle campagne e nei boschi adiacenti a Bangui, mentre circa 1,3 milioni di persone, sui 4,5 milioni di abitanti del Paese, non dispone di cibo sufficiente al proprio sostentamento.
La causa principale dell’attuale situazione è da ricercarsi nella progressiva frammentazione del fronte dei ribelli che è seguita alla presa di Bangui. Séléka, il cui nome significa “alleanza” in lingua sango, è una coalizione eterogenea di forze ostili alla presidenza di Bozize costituitasi nel settembre 2012 nelle regioni nord-orientali del Paese. Tra le sue componenti possono essere annoverati fedelissimi dell’ex presidente Ange-Felix Pautassé, deposto da Bozize con un colpo di stato nel 2003, come il Fronte Democratico del Popolo Centrafricano (FDPC) di Abdullaye Miskine; ex alleati dello stesso Bozize, progressivamente scontentati dalla gestione familistica del potere da questi adottata nei suoi dieci anni di governo, come l’Unione delle Forze Democratiche per la Riunificazione (UFDR), comandata da Michel Djotodia, ed un’ala oltranzista della Convenzione dei Patrioti per la Giustizia e la Pace (CPJP), staccatasi dal movimento principale dopo che questo aveva firmato un accordo di pace con il governo; ed infine gruppi di nuova creazione, come la Convenzione dei Patrioti per la Salvezza della Nazione (CPSK) e l’Alleanza per la Rinascita e la Rifondazione (A2R), un gruppo di ex ufficiali dell’esercito centrafricano che ha disertato a dicembre 2012, quando il rapporto di forze sul terreno è apparso favorevole a Séléka. A queste formazioni si sono inoltre uniti un numero imprecisato di mercenari sudanesi e ciadiani.
Fin dalla sua fondazione, l’alleanza è apparsa priva di un’agenda politica e di una base ideologica solide e condivise: l’unico collante della coalizione è infatti costituito dall’opposizione a Bozize, accusato di non aver rispettato gli accordi di Libreville del 2008 e del 2013, dopo la prima fase dell’insurrezione anti-governativa, che prevedevano il rilascio dei prigionieri politici detenuti nelle carceri di Bangui e l’integrazione di circa 2000 combattenti di Séléka nelle forze armate centrafricane. La fragilità interna dell’alleanza risulta inoltre acuita dal fatto che le sue due componenti principali, la UFDR e la CPJP, sono espressione rispettivamente delle etnie Gulas e Runga, storicamente divise da una profonda rivalità.
La presa di Bangui, e la decisione di Djotodia di autoproclamarsi Presidente della repubblica ad interim, hanno portato alla luce le divisioni intrinseche nell’alleanza: già il giorno successivo alla caduta di Bozize, Nelson N’jadder, leader di Rivoluzione per la Democrazia, una componente minore di Séléka, si dissociava dalla coalizione, in contrasto con la decisione del leader dell’UFDR. Pochi giorni dopo, il 4 di aprile, Abdullaye Miskine era costretto a rifugiarsi in Camerun per sfuggire alla cattura da parte dei suoi ex alleati. L’uscita di scena dei due leader non ha comunque consentito a Djotodia di mantenere il controllo sulle forze di Séléka, che si sono frammentate sul territorio trasformandosi, nella maggior parte dei casi, in piccoli gruppi armati dediti a saccheggi, ruberie ed omicidi nelle città occupate. L’incapacità di restaurare l’ordine nel Paese, e le crescenti pressioni internazionali per la cessazione delle violenze sui civili, hanno portato Djotodia, lo scorso 13 settembre, a sciogliere ufficialmente Séléka. La motivazione principale dietro questa decisione è da ricercarsi nel tentativo del Presidente ad interim di distanziarsi dalla crescente indignazione che Séléka sta attirando su di sé, per potersi presentare alla comunità internazionale come un interlocutore relativamente moderato ed adatto a gestire il periodo di transizione.
Lo scioglimento di Séléka ed il tentativo di Djotodia di epurare ed eliminare i propri ex alleati, reso evidente dal recente arresto di due alti ufficiali della coalizione operanti nelle regioni dell’entroterra, costituiscono una prima seria minaccia per i futuri assetti della Repubblica Centrafricana. Esiste infatti un rischio consistente che la diverse fazioni della disciolta alleanza ribelle possano ora volgersi l’una contro l’altra per il controllo di alcune aree strategiche del Paese, minando ab initio ogni tentativo di pacificazione e ripristino dell’ordine interno.
Inoltre, le possibilità di una rapida stabilizzazione del Paese sono minacciate dal progressivo coinvolgimento della popolazione civile nel conflitto. Gli abitanti delle città occupate da Séléka, in molti casi costretti ad abbandonare le proprie abitazioni ed a rifugiarsi presso i centri religiosi o nelle campagne, hanno di recente costituito delle milizie popolari di autodifesa che hanno preso il nome di “anti-balaka” (anti-machete, in sango). Gli “anti-balaka” hanno sferrato, dall’inizio di settembre, una serie di attacchi contro le forze di Séléka, in particolar modo nelle città nord-occidentali di Bossangoa, Gaga, Bouhar e Bouca, ed a Bangassou, nella zona sud-orientale del Paese, riuscendo in alcuni casi ad assumere temporaneamente il controllo delle città prima di essere nuovamente sopraffatti dalle forze di Séléka.
L’aumento degli scontri tra milizie di partito e milizie popolari e l’eventuale organizzazione di queste ultime in un’unica formazione, potrebbe portare all’apertura di una nuova e più intensa fase di conflittualità, che avrebbe come conseguenza un incremento del numero di vittime ed un’ulteriore riduzione del controllo statale sul territorio. Inoltre, l’attuale situazione del Paese pone il rischio di una trasformazione del conflitto lungo direttrici di natura confessionale: le forze di Séléka sono infatti composte in massima parte da combattenti di religione musulmana originari delle regioni arabofone del nord-est del Paese, mentre la maggioranza della popolazione centrafricana è di fede cristiana. Luoghi di culto ed esponenti del clero cattolico sono stati tra i primi bersagli dei ribelli, che nella loro avanzata hanno arruolato membri delle minoranze musulmane presenti nelle città occupate. In risposta, gli anti-balaka hanno attaccato, oltre ai contingenti di Séléka, anche i civili di religione musulmana, innescando così un processo d’identificazione delle parti al conflitto con le comunità religiose di appartenenza. Questa settarizzazione della crisi, finora senza precedenti nella pur pluridecennale condizione d’instabilità della Repubblica Centrafricana, potrebbe rappresentare un ulteriore ostacolo sulla via della stabilizzazione, conferendo al conflitto una dimensione identitaria che complicherebbe notevolmente qualunque tentativo di pacificazione.
Il deteriorarsi della situazione umanitaria ed il rischio di ripercussioni dell’instabilità interna sui Paesi confinanti hanno incrementato l’attenzione della comunità internazionale nei confronti della crisi centrafricana. A livello regionale, un ruolo centrale è stato giocato dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale (ECCAS), già autrice della mediazione che in gennaio aveva portato alla momentanea sospensione delle ostilità attraverso gli accordi di Libreville. Lo scorso 18 aprile i buoni uffici della ECCAS hanno portato alla firma di una “roadmap” per la Repubblica Centrafricana, che prevede, tra le altre cose, lo svolgimento di elezioni entro un limite massimo di 18 mesi ed il disarmo delle milizie presenti sul territorio.
Sotto l’egida della ECCAS, inoltre, opera dal 2008 la Missione per il Consolidamento della Pace in Repubblica Centrafricana (MICOPAX), cresciuta nel tempo fino a contare circa mille effettivi. Per far fronte all’attuale situazione del Paese, MICOPAX sarà rinforzata e trasferita sotto l’autorità dell’Unione Africana, assumendo il nome di Missione Internazionale di Supporto alla Repubblica Centrafricana (MISCA). Nella sua nuova formulazione, il contingente potrà contare su circa 3500 militari e 150 membri civili, provenienti principalmente da Camerun, Chad, Gabon e Repubblica del Congo, sotto il comando del generale di brigata camerunense Tumenta Chomu Martin. La missione, il cui dispiegamento è già stato avviato, dovrebbe raggiungere la piena operatività entro la fine del 2013.
La crisi centrafricana è stata inoltre inclusa nell’agenda del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che lo scorso 10 ottobre ha approvato all’unanimità la risoluzione 2121. Il documento, oltre ad intimare a Séléka ed alle altre milizie presenti nel territorio di deporre le armi, ha rafforzato il mandato dell’Ufficio Integrato delle Nazioni Unite in Repubblica Centrafricana (BINUCA), ed ha aperto alla possibilità che MISCA venga in futuro trasformata in una operazione di peacekeeping sotto egida ONU. La risoluzione è stata presentata dalla Francia, che, inizialmente restia ad intervenire direttamente, ha di recente assunto un ruolo di primo piano nella gestione della crisi centrafricana.
Già prima del colpo di Stato di Séléka, Parigi disponeva di un contingente di 200 militari, poi rafforzato al culmine della crisi con altri 400 soldati, in maggioranza ridislocati dal vicino Gabon. Il contingente, tuttavia, non è intervenuto a difesa di Bozize, ma si è limitato a presidiare l’aeroporto di Bangui ed a proteggere diplomatici e civili francesi presenti nel Paese. L’aggravarsi della crisi ha indotto la Francia ad ampliare il suo supporto alla propria ex colonia: in una visita a Bangui lo scorso 13 ottobre, il ministro degli esteri Laurent Fabius ha dichiarato l’intenzione di Parigi di rinforzare gradualmente la propria presenza militare nel Paese e di contribuire alle attività di MISCA; la Francia si farà inoltre promotrice di una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza entro la fine dell’anno, con il fine di rafforzare ulteriormente la missione dell’Unione Africana.
A motivare il ritrovato interesse della comunità internazionale nei confronti della situazione centrafricana non è solo il deteriorarsi della situazione umanitaria all’interno del Paese, ma anche e soprattutto il rischio che l’attuale crisi pone a livello regionale. La diffusione della violenza e la sempre più marcata incapacità di Bangui di porre un freno all’azione dei gruppi armati pongono, infatti, il rischio di una degenerazione incontrollata della situazione politica e di sicurezza nella Repubblica Centrafricana, il cui controllo è di fatto esercitato da milizie operanti su base locale. Uno scenario di questo tipo avrebbe importanti ripercussioni sull’intera regione, aprendo la possibilità di una diffusione dell’instabilità centrafricana ai Paesi limitrofi.
La zona cruciale, in quest’ottica, è costituita dai distretti nord-orientali di Vakaga ed Haute-Kotto. L’area costituisce, insieme alle regioni limitrofe del Chad meridionale e del Darfur sudanese, un “triangolo di instabilità” caratterizzato da un’alta porosità dei confini e da legami etnici e religiosi transfrontalieri, all’interno del quale operano gruppi armati basati in tutti e tre i Paesi. L’incapacità del governo di garantire una qualsivoglia forma di sicurezza nell’area potrebbe portare ad una massiccia infiltrazione da parte di gruppi armati ciadiani e sudanesi attivi nella zona, che acquisirebbero così un retroterra logistico dal quale lanciare attacchi contro il territorio dei rispettivi Paesi.
Simili considerazioni sono applicabili anche alla zona meridionale della Repubblica Centrafricana, in prossimità del confine con la Repubblica Democratica del Congo, che costituisce da tempo una delle basi operative del Lord’s Resistance Army (LRA). La milizia di origine ugandese, guidata da Joseph Kony, si è recentemente resa responsabile di una serie di attacchi contro le popolazioni civili centrafricane, in modo particolare nella prefettura di Bria. Nonostante la recente decisione di un numero consistente di miliziani di deporre le armi abbia notevolmente indebolito la LRA, la possibilità di operare su un territorio privo di controllo statale potrebbe offrire un santuario alle forze rimanenti, minando i tentativi dei Paesi circostanti e degli Stati Uniti di debellare definitivamente la LRA.
È infine rilevante la minaccia posta dalla progressiva ridefinizione del conflitto su base interconfessionale. La Repubblica Centrafricana, pur caratterizzata da fasi cicliche di violenza ed instabilità, non è mai stata affetta da particolari tensioni tra le diverse comunità religiose presenti al suo interno; né Séléka né le sue componenti, inoltre, pur essendo in massima parte espressione delle regioni musulmane del Paese, hanno una connotazione dichiaratamente confessionale. Tuttavia, qualora il fattore religioso dovesse diventare predominante all’interno dell’attuale crisi, si aprirebbe la strada ad un duplice rischio. Da un lato, infatti, alcune componenti di Séléka potrebbero adottare un’agenda più vicina all’integralismo islamico e dunque, subire l’influenza di organizzazioni di ispirazione qaedista, con lo scopo di attrarre risorse umane, materiali e finanziarie dall’esterno. In secondo luogo, alcune delle principali organizzazioni jihadiste già operanti nella regione e legate alle reti qaediste in Sudan, potrebbero ampliare le proprie attività al territorio centrafricano, approfittando della debolezza dello Stato centrale per compiere attacchi contro le sedi religiose, le popolazioni cristiane e gli asset occidentali presenti nel Paese.
Malgrado la sua cronica instabilità ed estrema povertà abbiano storicamente relegato la Repubblica Centrafricana ad un ruolo marginale negli equilibri politici della regione, il Paese costituisce, a causa della sua posizione geografica, un perno fondamentale per la sicurezza dell’Africa centrale. L’attuale situazione interna, ed i rischi di un ulteriore aggravamento della crisi, costituiscono una seria minaccia per la sopravvivenza stessa dell’apparato statale di Bangui. L’eventuale disgregazione politica della Repubblica Centrafricana si configurerebbe non solo come una crisi di carattere umanitario, ma anche come una minaccia diretta per tutti gli Stati dell’area, con elevate probabilità di una diffusione dell’instabilità a livello regionale; la pacificazione del Paese deve pertanto costituire un obiettivo primario sia per i Paesi più direttamente esposti al rischio di contagio, sia per la comunità internazionale in generale. La priorità, nel breve periodo, è la realizzazione di un’operazione generalizzata di disarmo, smobilitazione e reintegro delle varie milizie armate, che consenta la messa in sicurezza del territorio e la riapertura dei canali umanitari per fornire beni di prima necessità alla popolazione civile. A livello strutturale, invece, le necessità più impellenti comprendono una riforma organica del sistema di sicurezza nazionale, troppo spesso appaltato ai vicino Ciad negli anni della presidenza Bozizé, ed il ripristino ed ampliamento della capacità del governo di fornire servizi di base alla popolazione; tale risultato, nell’attuale congiuntura, risulta possibile solo attraverso un consistente supporto tecnico e finanziario internazionale.