Lo Stretto di Hormuz ed il mercato energetico mondiale
Lo scorso 27 maggio, i Pasdaran hanno sequestrato due petroliere battenti bandiera greca che navigavano nel Golfo Persico a circa 22 miglia dalle coste iraniane. Sebbene ciò sia ufficialmente dovuto a violazioni di regole marittime, tale atto appare essere una chiara risposta al sequestro da parte della Grecia della nave russa Pegas che trasportava petrolio iraniano. La nave era stata sequestrata da Atene a metà aprile per effetto delle sanzioni varate dall’Unione Europea dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Oltre a vietare l’esportazione ed importazione di diversi beni, le sanzioni prevedevano il divieto per la navi battenti bandiera russa di accedere ai porti europei. Dopo il sequestro, la Grecia, accettando la richiesta degli Stati Uniti, ha trasferito il petrolio iraniano dalla Pegas ad un’altra nave noleggiata dagli Stati Uniti stessi. Il sequestro della nave ed il conseguente trasferimento del greggio iraniano sarebbero stati le principali cause della reazione dell’Iran. Infatti, visto nella sua complessità, quanto accaduto nel mese di maggio, da un lato, è ascrivibile alle reciproche accuse di pirateria e rapina in alto mare tra Iran e Grecia; dall’altro, rientra nella più ampia instabilità che coinvolge lo Stretto di Hormuz e le acque circostanti. Senza dubbio, questo tratto di mare si conferma un teatro di primo piano in cui si consuma il conflitto (asimmetrico) tra Iran e Stati Uniti (e Israele).
Dal punto di vista geografico, lo Stretto di Hormuz è un braccio di mare che collega il Golfo Persico al Golfo dell’Oman e, da questo, al Mar Arabico. Le sue acque dividono l’Iran, situato a Nord, dalla Penisola di Musandam del Sultanato dell’Oman, a Sud. In questo caso, la separazione non è solamente geografica, ma è piuttosto geopolitica. Difatti, la lingua di mare che si estende dalla foce del fiume Arvand (Iraq) allo Stretto è l’unica area che divide la Repubblica Islamica d’Iran dalle monarchie arabe del Golfo. Dal punto di vista energetico, invece, Hormuz assume un’importanza sostanziale: è la principale arteria di transito per il commercio di petrolio e di gas a livello mondiale. Nel 2020, circa 18 milioni di barili di greggio al giorno hanno attraversato Hormuz. La pandemia da Covid-19 ha fortemente rallentato la produzione mondiale di petrolio, determinando una conseguente, ma iniziale, contrazione dei prezzi sotto la soglia dei 50 dollari al barile. Di fatti, dati differenti erano stati registrati nel 2018. Secondo l’Energy Information Administration (EIA), in quell’anno sono transitati per Hormuz circa 20,7 milioni di barili di greggio e di prodotti petroliferi al giorno, pari cioè al 21% del consumo petrolifero globale (equivalente a più di un terzo del commercio petrolifero marittimo mondiale). Gran parte del greggio e del gas naturale liquefatto (GNL) esportato dai Paesi del Golfo passa proprio attraverso lo Stretto di Hormuz. L’Arabia Saudita è il principale esportatore di petrolio, seguita da Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Iran e, infine, Qatar. Hormuz è un’arteria sensibile anche per le priorità di diversi Paesi dell’Asia. La maggior parte del petrolio in uscita è infatti destinato ai mercati orientali del Continente, dove, in termini di volumi, la Cina è il più grande importatore di petrolio dalla regione, seguita da India, Giappone, Corea del Sud e Singapore.
Nonostante taluni chokepoints possono essere circumnavigati utilizzando altre rotte, con significativi aumenti in termini di tempi e di costi, oppure bypassati attraverso oleodotti e altre infrastrutture terrestri, con capacità limitate, altri non possiedono pratiche alternative. Lo Stretto di Hormuz, ad esempio, ha opzioni limitate. L’Arabia Saudita e gli EAU hanno pipelines in grado di trasportare greggio fuori dal Golfo Persico, con una capacità combinata di 6,5 milioni di barili giornalieri. La East-West Pipeline saudita trasporta petrolio da Abqaiq al porto di Yanbu sul Mar Rosso, principale terminal petrolifero del Regno. Invece, la Abu Dhabi Crude Oil Pipeline percorre una distanza di 360 chilometri dal campo petrolifero di Habshan fino al porto di Fujairah. Strategicamente collocato sulla costa orientale emiratina nel Golfo dell’Oman, questo porto è una raffineria nonché un terminal di esportazione cruciale poiché, essendo appena a Sud dello Stretto di Hormuz, lo bypassa efficacemente. Ciononostante, tali oleodotti non sfruttano al massimo le loro capacità: è stato infatti stimato che, nel 2018, 3,8 milioni b/d sono rimasti inutilizzati. Allo stesso tempo, nonostante la costruzione di oleodotti volti ad aggirarlo, un’eventuale chiusura dello Stretto avrebbe conseguenze rilevanti per la sicurezza energetica globale. In particolar modo, Hormuz rimane uno snodo inevitabile per il transito degli idrocarburi. Più di un quarto del GNL, di cui il Qatar è il secondo esportatore al mondo, ha attraversato lo Stretto nel 2018.
L’acuirsi delle tensioni tra Stati Uniti e Iran, nonché le rinnovate sanzioni economiche statunitensi, hanno posto nuovamente al centro dell’attenzione internazionale quello che è uno dei più importanti oil chokepoints globali. Un contesto in costante escalation che vede altresì una guerra virtuale fatta di minacce, come strumento di intimidazione, e di incidenti a bassa intensità, sempre più frequenti ed a poca distanza gli uni dagli altri. Nel maggio 2019, quattro imbarcazioni, di cui due petroliere saudite ed una nave battente bandiera emiratina, sono state sabotate al largo del porto di Fujairah; due giorni più tardi, il 14 maggio, sette droni hanno colpito delle istallazioni petrolifere saudite provocando l’interruzione momentanea della East-West Pipeline. Ancora, nel settembre 2019 era stato l’attacco, attribuito all’Iran, ad interdire le infrastrutture di Saudi Aramco ad Abqaiq e Khurais. Visti nella loro interezza, questi attacchi dimostrano quanto alta sia la minaccia iraniana e/o dei suoi proxies regionali nel colpire con precisione infrastrutture strategiche anche al di là del Golfo stesso.
Episodi di confronto (indiretto), che più volte hanno rischiato di provocare una vera e propria escalation, non sono quindi circoscritti allo Stretto di Hormuz, ma coinvolgono anche le sue acque circostanti, un’area più grande e più difficile da controllare. Tra febbraio e marzo 2021, due navi gestite da società israeliane sono state danneggiate rispettivamente da una mina magnetica ed un missile, presumibilmente iraniani. Nello specifico, l’incidente di marzo che ha coinvolto la nave Lori ha avuto luogo nel Mar Arabico, lungo la rotta tra Tanzania ed India, un’area tradizionalmente non interessata da attacchi di questa natura. A pochi mesi di distanza, il 29 luglio 2021, un drone, attribuito all’Iran, ha colpito la petroliera Mercer Street di proprietà giapponese ma gestita da un’armatore israeliano. L’attacco avvenuto al largo dell’isola di Masirah ha provocato la morte di due membri dell’equipaggio, un cittadino britannico e uno romeno. Il contesto è quello della perdurante rivalità tra Iran e Israele, intensificatasi negli ultimi tre anni. Da parte israeliana, oltre ad includere attacchi di navi iraniane principalmente nel Mar Rosso e nel Mediterraneo Orientale, questo confronto indiretto comprende anche sabotaggi di strutture chiave in Iran ed omicidi mirati di scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano.
Tali eventi si aggiungono ai numerosi sequestri della Marina del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), come quello della nave cisterna chimica sudcoreana nel gennaio 2021 e dell’autocisterna vietnamita nell’ottobre dello stesso anno, che sono state scortate nelle acque iraniane e rimaste attraccate lì per settimane. Tali incidenti non sono nuovi, ma neppure da considerarsi “normali”. L’ultima volta che attacchi di questa natura hanno avuto luogo nel Golfo Persico risale a circa trenta anni fa, quando Iran e Iraq cercarono di compromettere le reciproche esportazioni di greggio attaccando innumerevoli imbarcazioni petrolifere.
Dal punto di vista giuridico, le porzioni di mare dello Stretto di Hormuz – il cui punto più breve è di 21 miglia nautiche – sono legalmente parte delle acque territoriali dell’Iran e dell’Oman. In base alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, uno Stato ha il diritto di esercitare la propria sovranità nelle acque territoriali che si estendono fino ad un massimo di 12 miglia nautiche dalla propria costa. In più, essendo interamente coperto dalle loro acque territoriali, Iran ed Oman godono congiuntamente del diritto di supervisionare il commercio marittimo che transita attraverso lo Stretto. Tutte le navi mercantili straniere hanno diritto al suo interno di liberà di transito (il c.d. “diritto di passaggio inoffensivo”) a condizione di rispettare quanto previsto dalla Convezione e di attenersi agli schemi di separazione del traffico stabiliti dall’Organizzazione Marittima Internazionale. Finalizzati alla riduzione del rischio di collisione, gli schemi separano appunto il traffico in entrata da quello in uscita, fissandone anche il limite di velocità.
Hormuz ha due corridoi di passaggio, larghi circa 2 miglia ciascuno, separati da una buffer zone, posta a cavallo della mediana. Il corridoio a Nord copre il traffico in entrata, mentre la linea a Sud quello in uscita. La presenza di isole e la poca profondità delle acque vicino alla costa iraniana rendono la navigazione più idonea nei pressi della penisola omanita. Qui, i due corridoi si trovano integralmente nelle acque territoriali dell’Oman. Tuttavia, nel Golfo Persico, l’Iran gode di un fattore strategico: in queste acque controlla ben sei isole tra cui quella di Abu Musa e Grande e Piccola Tunb, oggetto di dispute con gli EAU. È dunque evidente la dimensione del vantaggio iraniano risultante, appunto, in un maggior controllo dello stesso Stretto. Superata poi la penisola omanita di Musandam, il traffico diretto verso i Paesi del Golfo transita nelle acque territoriali dell’Iran.
Senza dubbio, l’altro Stato a detenere un vantaggio geopolitico nello Stretto di Hormuz è proprio il Sultanato dell’Oman che non ha mai smesso di dialogare con l’Iran, ma bensì ha facilitato, ad esempio, i pre-colloqui informali sul nucleare fra la Repubblica Islamica e gli Stati Uniti nel 2013. Negli ultimi cinque decenni, fino alla sua morte nel gennaio 2020, il Sultano Qaboos bin Said al-Said ha trasformato l’Oman da un Paese con una politica isolazionista ad una risorsa insostituibile soprattutto per la diplomazia regionale, si pensi ad esempio al ruolo di mediatore (informale) nell’attuale conflitto in Yemen. Il Sultanato si è affermato infatti come giocatore capace di mantenere solide relazioni con i Paesi del Medio Oriente, nonostante la presenza di rivalità, crescenti pressioni e profondi conflitti.
Nel complesso, dunque, lo Stretto di Hormuz rimane tra i punti più caldi della regione mediorientale. La sua importanza strategica sia per la sicurezza alimentare quanto per il mercato energetico mondiale è aumentata in seguito all’invasione russa dell’Ucraina. Per quanto riguarda la prima, il blocco dei porti ucraini sta impattando fortemente l’approvvigionamento di materie prime: nello specifico, alcuni Paesi del Medio Oriente e Nord Africa (MENA) sono soprattutto dipendenti dal grano, frumento e olio di semi della Russia e dell’Ucraina che, prima della guerra, configuravano tra i maggiori esportatori a livello mondiale di questi prodotti agro-alimentari. Oltre ai suoi collegamenti ed alla presenza di valide alternative, l’importanza di un chokepoint dipende anche dalla quantità di merci che transitano attraverso esso ogni anno. Le quantità di importazioni di grano che passano per lo Stretto di Hormuz in rotta verso i mercati dall’area MENA sono in constante crescita; le spedizioni sono aumentate del circa 45% dall’anno 2000 al 2015. Inoltre, secondo la Banca Mondiale l’importazione di cereali in questa area raggiungerà livelli elevatissimi aumentando, rispetto al 2010, fino al 95% entro il 2050. Seppur la dipendenza dalle importazioni non è necessariamente legata alla diretta esposizione a shock esterni, per i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo la realtà è ben diversa. Importando la maggior parte dei prodotti agro-alimentari via mare, questi profondamente dipendono dallo Stretto di Hormuz. Nello specifico, la quasi totalità delle importazioni di grano del Kuwait e Bahrain transita per questo collo di bottiglia. Emerge chiaramente la centralità di Hormuz a livello regionale e globale: possibili interdizioni e/o blocchi temporanei avrebbero conseguenze disastrose per la sicurezza alimentare ma anche per il mercato energetico internazionale, la cui stabilità rappresenta un’altra sfida geopolitica della contemporaneità. Infatti, seppur indirettamente, la guerra in Ucraina ha rafforzato la rilevanza di questo passaggio geo-strategico anche nel campo energetico; prima dello scorso 24 febbraio, la Russia era il più grande esportatore di gas naturale ed il secondo di greggio al mondo. Quando il parziale embargo europeo sul petrolio russo, parte del sesto pacchetto di sanzioni approvato dall’Unione Europea, entrerà in vigore, si potrebbe verificare un incremento del traffico in entrata e in uscita dallo Stretto di Hormuz. Ciò sarà dovuto alla necessità dei Paesi europei di diversificare le proprie fonti energetiche e/o incrementare le importazioni di petrolio da questa regione. Dall’altro lato, tale incremento potrebbe essere giustificato dal maggiore interesse, accelerato del conflitto in Ucraina, di alcuni Paesi del Golfo Persico per la produzione di idrogeno trasportato tramite non solo gasdotti ma anche navi cisterna attraverso Hormuz.
In questo contesto, i sempre più frequenti incidenti, sabotaggi e sparizioni di petroliere e navi commerciali nello Stretto di Hormuz e nelle sue acque circostanti costituiscono una grave minaccia tanto per il trasporto marittimo quanto per la sicurezza alimentare globale. Poiché oggi come trenta anni fa, lo Stretto di Hormuz continua a giocare un ruolo chiave nella geopolitica della regione, particolarmente urgente è la securizzazione di queste acque.