Le conseguenze del Covid-19 mettono a dura prova la struttura economica dei Paesi del Golfo
Martedì 22 giugno, l’Investment Corporation of Dubai, il fondo sovrano di Dubai, ha annunciato una perdita netta di 5,1 miliardi di dollari nell’ultimo anno, con entrate fiscali ridotte di oltre il 40% rispetto all’anno precedente e pari a 37 miliardi di dollari. La holding di Dubai è tra i 25 Sovereign Wealth Fund più importanti nella regione (e al mondo) ed è dietro molte delle principali attività (economiche e industriali) dell’Emirato di Dubai e degli EAU. Le perdite segnate nel 2020 sono le prime dalla bolla del 2009 che ha rischiato di mandare in default l’intero sistema Dubai prima dell’intervento salvifico di Abu Dhabi. Alla base del cattivo rendimento dell’Investment Corporation vi sarebbero gli impatti causati dalla pandemia da Covid-19 che ha inciso enormemente sull’economia degli EAU, tanto in termini di sbalzamento dei prezzi su scala globale delle fonti energetiche quanto in ripercussioni sulle dinamiche lavorative interne al Paese.
Una condizione non unica e che, come nel caso emiratino, ha accomunato anche gli altri governi della Penisola Arabica, alle prese con l’incertezza legata alla ripresa economica post-pandemica. Tale condizione di estrema difficoltà ha portato tutti gli attori dell’area Golfo a dover cercare nuove soluzioni per rilanciare le proprie economie ed impedire effetti ancor più negativi sui rispettivi piani domestici. Nello specifico, le conseguenze pandemiche hanno messo a dura prova l’intero mercato del lavoro delle petro-monarchie, che riposa essenzialmente su forza lavoro migrante proveniente dalla regione mediorientale (Egitto e Giordania per lo più) o dalle realtà dell’Asia Meridionale (Pakistan, Bangladesh, India e Sri Lanka) e del Sud Est asiatico (Indonesia e Filippine su tutti). Difatti, secondo le Nazioni Unite, nel 2019 ben 35 milioni di lavoratori stranieri vivevano nei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) e le ripercussioni del Covid-19 sulla diminuzione della domanda globale nei settori del turismo, aviazione e petrolio, su cui si basa buona parte dell’economia di questi Paesi, hanno inizialmente spinto questi ultimi ad implementare politiche di nazionalizzazione della forza lavoro, cercando di sostituire la manodopera migrante con quella nazionale. Tale decisione, tesa a contenere gli effetti negativi della contrazione economica sui cittadini locali, ha causato uno shift considerevole della manodopera straniera, che si è vista costretta ad affrontare licenziamenti di massa e abbandonare la Penisola Arabica, la quale ha inoltre da diverso tempo intrapreso un percorso di diversificazione economica e sviluppo sociale.
Tuttavia, tale tentativo di nazionalizzazione del mercato del lavoro non sembra aver funzionato, mettendo i Paesi del Golfo in condizione di ulteriore precarietà e spingendoli a cambiare registro, richiamando capitale umano straniero (più o meno qualificato) per colmare i vuoti di competenze e manodopera. A partire dallo scorso gennaio gli EAU, ad esempio, hanno annunciato l’introduzione di provvedimenti specifici per conferire la cittadinanza a soggetti stranieri qualificati che possano contribuire all’economia nazionale, i quali potranno mantenere la doppia cittadinanza qualora i regnanti o gli alti funzionari dell’emirato decidano di concedergliela. Un deciso cambio di passo rispetto alle politiche di nazionalizzazione dei precedenti mesi, che permette di superare anche la famosa pratica del golden card, un permesso di soggiorno e lavoro di 10 anni precedentemente rilasciato ad alcune categorie di professionisti stranieri. Sempre in questa direzione, anche l’Oman inizierà presto a concedere la residenza a lungo termine agli investitori stranieri. Inoltre, l’Emirato di Abu Dhabi ha recentemente deciso di offrire vaccinazioni gratuite contro il Covid-19 anche ai titolari di visti di residenza o di ingresso nell’emirato e ai titolari di passaporti turistici, un provvedimento che mira a incentivare il turismo, ma anche a sollecitare il rientro di lavoratori stranieri.
Tali misure, oltre ad essere di portata innovativa per il sistema economico e produttivo emiratino, mettono chiaramente in luce le difficoltà riscontrate dagli EAU e da tutti i Paesi del Golfo nel gestire le conseguenze socio-economiche della pandemia. Non a caso, tutti i decisori politici dell’area hanno intrapreso una riflessione approfondita su una riforma dei sussidi, vitali soprattutto per le quote di nationals presenti nei singoli contesti. Così come sono allo studio iniziative che rivedano l’impiego della kafala per i migranti economici, ossia quel sistema di sponsorizzazione che lega il dipendente al datore di lavoro, recentemente abolito in Qatar. Non meno importante, infine, è l’introduzione di un salario minimo (o per meglio dire un aumento della tariffa media giornaliera) in modo da garantire le fasce più deboli dei lavoratori (in particolare quelli stranieri). Iniziative, queste, sulle quali i governi sono stati costretti a dover fare i conti soprattutto per le pressioni popolari e per via del differente cambio di scenario economico non più sostenibile come nel recente passato. Di conseguenza, tali situazioni rappresentano dei limiti ancora concreti nel locale mercato del lavoro che potrebbe fungere in caso di mancata ripresa dell’economia da spartiacque nell’esacerbare tensioni già acuite dalla pandemia e costringere i governi dell’area a dover intraprendere con riforme ancor più strutturali e coraggiose.