La crisi in Yemen alla prova dell’accordo Arabia Saudita-Iran
Medio Oriente e Nord Africa

La crisi in Yemen alla prova dell’accordo Arabia Saudita-Iran

Di Isabella Chiara
10.05.2023

Il 9 aprile, a Sana’a, è arrivata una delegazione dell’Arabia Saudita per discutere con i ribelli sciiti Houthi un accordo di pace definitivo. L’Ambasciatore saudita nello Yemen, Mohammed bin Saeed al-Jaber, e il capo politico degli Houthi, Mahdi al-Mashat, sono stati immortalati mentre si stringevano la mano; un’altra foto mostrerebbe anche la presenza del leader del gruppo ribelle, Mohammed Ali Houthi. Questi colloqui (mediati dall’Oman, che da anni riveste un importante ruolo di mediatore nel Golfo) potrebbero rappresentare una svolta storica per mettere fine ad una guerra civile che prosegue da più di nove anni e che ha provocato la più grande crisi umanitaria del mondo: secondo dati ONU del 2021, il conflitto yemenita ha causato la morte di circa 400.000 persone.

Sebbene non siano state rilasciate dichiarazioni ufficiali circa il contenuto dei colloqui, secondo alcune rivelazioni – rilasciate all’agenzia France Press da due diplomatici yemeniti sotto anonimato – i termini dell’accordo hanno riguardato i mezzi per avanzare verso l’instaurazione della pace. Il capo dei negoziatori Houthi, Mahdi al-Mashat, arrivato a Sana’a ha elencato le sue condizioni, tra cui sarebbero emerse richieste come la riapertura di porti e aeroporti (quindi l’eliminazione del blocco aereo e marittimo imposto dalla coalizione militare a guida saudita), il pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici yemeniti (compresi quelli che lavorano nelle regioni sotto il controllo degli Houthi) e l’allontanamento delle forze straniere dal Paese. Hans Grundberg, l’Inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen, in merito a questo storico incontro ha dichiarato che lo Yemen non è mai stato così vicino ad un vero progresso verso una pace durevole.

L’incontro del 9 aprile ha, quindi, rappresentato non solo un momento di ricerca della pace, ma un chiara e inequivocabile détente diplomatica, rafforzata, pochi giorni dopo, dallo scambio di 887 prigionieri tra i ribelli Houthi e il governo internazionalmente riconosciuto. Una prima tranche di prigionieri (322) è stata trasferita dalla capitale Sana’a (controllata dagli Houthi dal 2014) ad Aden, sede del governo. Tra essi compaiono il Maggiore Generale Mahmud al-Subaihi (l’ex Ministro della Difesa del governo internazionalmente riconosciuto) e il Maggiore Generale Nasser Mansour Hadi (il fratello dell’ex Presidente). L’operazione è stata annunciata dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CIRC), che si è occupata del trasferimento. Questo accordo è il risultato di una serie di colloqui di pace che a marzo si sono svolti a Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite, rappresentate da Hans Grundberg e dal CIRC.

Per quanto sintomo di disgelo fra le parti – le quali hanno acconsentito ad una tregua informale, nonché ad un cessate-il-fuoco –, l’incontro del 9 aprile ha acceso i riflettori sul peso marginale del Consiglio Presidenziale (CP, l’organo esecutivo del governo internazionalmente riconosciuto), che è stato escluso dai colloqui. Il CP, infatti, è apparso fin dalla sua instaurazione (aprile 2022) troppo debole e frammentato per potersi ingaggiare in un dialogo con i ribelli: per questo motivo, a farne le veci è stata direttamente l’Arabia Saudita, potenza che, nel contesto della guerra, ha combattuto per anni una propria guerra per procura contro l’Iran in tutti gli scenari di crisi con forze filo-sciite – quindi anche in Yemen. Questo conflitto, tuttavia, è andato a cristallizzarsi per via dello storico riavvicinamento diplomatico fra Riyadh e Teheran, cui ha fatto seguito lo scambio di prigionieri yemeniti avvenuto il 14 aprile. Il Consiglio Presidenziale del governo yemenita, in questo contesto, è sembrato non gradire l’atteggiamento dei sauditi, che, oltre a non fornire aggiornamenti dettagliati circa i contenuti dei colloqui, è parso orientato verso una vera e propria exit strategy dalla guerra nello Yemen.

Il conflitto nel Paese, sanguinosa scacchiera su cui anche Iran e Arabia Saudita hanno mosso le loro pedine, si è mostrato fin dalle sue origini molto complesso e articolato. Le sue radici sono infatti lontane e riconducibili al 1990 – anno del fallimento dell’unificazione – e al 2011 – anno dell’inizio delle manifestazioni contro il Presidente Ali Abd Allah Saleh, costretto, dietro la pressione della piazza, a lasciare il potere al suo Vice, Abd Rabbih Mansur Hadi. L’entrata in scena degli Houthi – movimento-milizia sciita-zaydita conosciuto anche come Ansar Allah (“partigiani di Dio”) – ha stravolto i fragili equilibri del Paese, così che nel 2015 il movimento ha preso il controllo della capitale Sana’a, rovesciando il governo di Hadi, e lanciando un’operazione per conquistare la parte meridionale del Paese.

L’inizio del conflitto yemenita viene spesso fatto coincidere con il 26 marzo 2015, giorno in cui i territori controllati dagli Houthi hanno iniziato a subire attacchi da parte della Coalizione araba, guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta da altri Paesi della regione, tra cui gli Emirati Arabi Uniti. Nel frattempo, il sud del Paese, e in particolare l’importante porto di Aden, sono diventati terreno di azione del Consiglio di Transizione del Sud (STC), un movimento secessionista informalmente sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti (EAU). Lo Yemen ha dunque iniziato ad essere sempre più irrimediabilmente diviso: ad oggi, il Nord-ovest è sotto il controllo degli Houthi, trasformatisi da insorti a governo de facto, mentre nel resto del Paese (il sud e l’est) vige il governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Questo governo al momento è guidato dal Consiglio Presidenziale, a cui Hadi ha trasferito i suoi poteri nell’aprile 2022, e ha come obiettivo quello di creare un fronte unito fra le fazioni sostenute dagli EAU e dall’Arabia Saudita contro gli Houthi. Il suo operato, però, è segnato da divisioni e conflitti interni, che lo rendono sempre più debole e delegittimato agli occhi degli yemeniti. La presenza di altri attori rende la situazione ancora più complessa, portando il conflitto ad articolarsi su molteplici livelli: la guerra fra gli Houthi e il governo internazionalmente riconosciuto va di pari passo con la contrapposizione fra il General People’s Congress (GPC) – il partito dell’ex Presidente Saleh – e il partito al-Islah, che, sostenuto da Qatar e Arabia Saudita, appoggia il governo riconosciuto. A ciò si aggiunge la variabile settaria: il Paese, che è stato a lungo caratterizzato dalla coesistenza tra yemeniti sunniti e sciiti, sta assistendo ad una sempre più marcata polarizzazione fra le due confessioni; questa polarizzazione è stata innescata strumentalmente, a partire dal 2015, dagli attori coinvolti, che, mediante narrazione e propaganda, hanno attivato il settarismo per fini politici. La presenza di altri movimenti, come l’AQAP (Al-Qaeda nella Penisola Arabica), il Joint Western Command (una galassia di milizie informalmente sostenute dagli Emirati Arabi Uniti) e lo “Stato Islamico”, contribuisce a complicare ulteriormente la situazione. La componente più evidente del conflitto, però, è di certo la variabile regionale, esemplificata dalla contrapposizione indiretta fra Iran e Arabia Saudita (che sostengono, rispettivamente, gli Houthi e il governo riconosciuto). La recente distensione nei loro rapporti, dunque, costituisce una svolta clamorosa, che accende la speranza per una possibile pace nello Yemen.

La riapertura del dialogo tra Riyadh e Teheran – interrotto dal 2016 – è stata intermediata dalla Cina, che gode di un’influenza non indifferente su entrambe le parti: la Repubblica Popolare figura infatti come il principale partner commerciale dell’Iran e uno dei principali acquirenti di petrolio dall’Arabia Saudita. I colloqui per il cessate-il-fuoco in Yemen sono stati resi possibili da importanti accordi stretti tra Pechino e i sauditi. Per la Cina, il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita implica una serie di vantaggi, che includono certamente la volontà di ottenere una garanzia di maggiore accesso al petrolio, sia saudita che iraniano. Anche l’ipotetica risoluzione del conflitto yemenita apporterebbe importanti benefici economici: la stabilità dello Yemen, infatti, riveste, per Pechino, un’importanza cruciale. Basti pensare che la Via della seta marittima – in altre parole, gli interessi economico-commerciali della Cina fra Oceano Indiano, Mar Rosso e Mediterraneo – sfila intorno alle coste e ai porti yemeniti, che sono per la maggior parte controllati dalle milizie. Vi è poi la componente energetica: la prima meta del petrolio estratto in Yemen è infatti rappresentato dalla Cina, la cui domanda di greggio ha fatto incrementare, nel 2019, l’export petrolifero yemenita del 40% rispetto al 2018.

L’importante ruolo della Cina, nel riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita – riverberatosi in Yemen – accende i riflettori sull’inesorabile declino dell’influenza statunitense nella regione: Washington – che, nel contesto del conflitto yemenita, si è sempre opposta agli Houthi, sostenendo il governo ufficiale dello Yemen – sta infatti progressivamente perdendo il proprio ascendente sull’Arabia Saudita, rimasta delusa da quella che percepisce come un’inadeguata garanzia di sicurezza da parte degli USA nella regione. Nell’attuale panorama internazionale, Riyadh sembra aver scelto di sfruttare una postura internazionale che le permetta di promuovere la sua agenda interna (la Vision 2030) mettendo anche le grandi potenze (Cina e Stati Uniti) l’una contro l’altra, per massimizzare i benefici e migliorare la propria posizione contrattuale nei confronti di entrambe. Per quanto riguarda lo Yemen, è ormai noto come da anni l’Arabia Saudita stia cercando di uscire da quello che ormai è percepito come un vero e proprio “pantano”: inizialmente presentato come un’operazione risultante in una vittoria sicura – e concepito come una legittimazione dell’allora ministro della difesa saudita Mohammad bin Salman, che nel frattempo è diventato principe ereditario –, l’intervento si è trasformato in un disastro politico e umanitario, cominciando anche a minacciare la sicurezza della monarchia wahhabita (soprattutto con gli attacchi degli Houthi condotti contro gli stabilimenti della compagnia petrolifera Aramco negli ultimi anni). Cogliendo al balzo la palla del riavvicinamento con l’Iran sponsorizzato da Pechino, Riyadh ha comunicato al Consiglio direttivo presidenziale l’intenzione di chiudere il dossier yemenita. I sauditi, dunque, sembrano intenzionati a ridurre le perdite e a uscire dal conflitto, per focalizzare nuovamente la loro attenzione sul proprio sviluppo economico. Anche l’Iran, beninteso, beneficerebbe di una tregua della guerra: da mesi il Paese è alle prese con una rivolta interna senza precedenti e rischia di essere sempre più isolato nella regione, considerato anche il contesto della guerra in Ucraina e lo stallo delle trattative sul nucleare. Le due potenze regionali, dunque, sembrano propense a porgersi la mano sul tavolo offerto dalla Cina, percepita come un mediatore più neutrale rispetto agli Stati Uniti. Se davvero si raggiungerà la pace, Pechino rafforzerà la propria reputazione e il ruolo di forza per la stabilità nel Medio Oriente; in caso di successo, inoltre, la Repubblica Popolare potrebbe estendere la propria influenza anche ad altri dossier e ad altre regioni, inclusa l’Africa (soprattutto quella Orientale, dove gli interessi sono molteplici e molto prossimi a quelli di altri attori regionali e internazionali, tra cui USA e Russia).

Per lo Yemen, il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran, unitamente al ruolo cinese nella questione, potrebbe avere un impatto notevole: al di là di un’ipotetica fine del sanguinoso conflitto civile, il Paese guarda speranzoso ad una massiccia ricostruzione post-bellica, cui farebbe seguito il ripristino dello sviluppo economico. La realizzazione di tale scenario, beninteso, non è per niente illusoria: la Cina ha infatti espresso la propria intenzione di svolgere un ruolo chiave nella ricostruzione dello Yemen, contribuendo, con la China Harbor Engineering Company, allo sviluppo delle infrastrutture locali.

In conclusione, un esito positivo dei colloqui tra Houthi e sauditi, nel quadro del riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, è auspicato da più parti, ognuna delle quali vede nella fine del conflitto un ritorno politico-economico. Di certo, a beneficiarne maggiormente sarebbe la popolazione, che dall’inizio della guerra ha visto le proprie condizioni di vita peggiorare in maniera via via più drammatica, anche a causa di eventi esterni al conflitto, quali la pandemia di Covid-19 e le ripercussioni economiche della crisi ucraina.

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