Gli Houthi e le implicazioni di sicurezza tra Golfo e Mar Rosso
Tra gli sviluppi che più hanno preoccupato (e continuano a impensierire) la comunità internazionale vi è la possibilità di un ampliamento del conflitto tra Israele e Hamas anche su una scala regionale allargata. Con il passare del tempo, però, più che un’espansione dello scenario bellico, quello che è emerso è il riaffiorare di processi paralleli nella regione, che seppur legati alla questione palestinese, mantengono una propria valenza identitaria e locale. Tra questi, spiccano le azioni compiute dagli Houthi , un gruppo armato sciita-zaydita con un’agenda politica convergente, in buona parte, con quella dell’Iran.
Dal 7 ottobre, queste milizie yemenite hanno dato avvio ad aggressioni continue contro obiettivi militari israeliani e statunitensi . Gli Houthi, infatti, non hanno solo attaccato con missili e droni il sud di Israele, in special modo la città di Eilat sul Mar Rosso, ma sono riusciti addirittura a sequestrare la nave da trasporto di automobili Galaxy Leader il 19 novembre nel Golfo di Aden e a lanciare un attacco missilistico contro il cacciatorpediniere statunitense USS Mason il 26 novembre. Benché si siano rivelati fallimentari, questi attacchi denotano una crescente volontà del gruppo di farsi coinvolgere nelle dinamiche di area e di accrescere la loro posizione non solo come esponenti dell’Asse della Resistenza, ma come decisivi attori nelle dinamiche yemenite e mediorientali .
Al potere dal 2015 con l’avvio della guerra civile contro il governo legittimo di Sana’a – poi riparato prima a Riyadh e reinsediatosi successivamente ad Aden –, la milizia è stata in grado di detenere un controllo seppur parziale del territorio occupando la capitale e le aree popolose del centro-nord . Negli anni, gli Houthi hanno potuto godere di un supporto ambivalente da parte dell’Iran, con cui condividono le credenze religiose (entrambi infatti predicano lo sciismo, seppur con declinazioni diverse) e in parte l’agenda politica (data da un interesse convergente nello sviluppo di peculiari dinamiche di area in funzione anti-saudita). Negli anni sono de facto diventanti fondamentali partner di Teheran nell’area Golfo. Sebbene, quindi, il gruppo yemenita sia divenuto un’eminenza politica rilevante nella rete di proxies iraniani, più che meri esecutori delle volontà di Teheran essi hanno maturato una loro capacità e strategia – per lo più di stampo locale – volta ad approfondire il confronto con gli altri attori yemeniti e regionali in senso stretto (in particolare contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti). L’obiettivo del gruppo non è però semplicemente stato mirato a mantenere uno spazio politico autonomo, ma anche nel riuscire ad ampliare la base di legittimità del potere sul piano interno e regionale . Infatti, nel corso degli ultimi 18 mesi, ossia dall’avvio del processo di pace yemenita – per lo più eterodiretto dall’Arabia Saudita –, gli Houthi avevano subìto un certo calo del consenso domestico motivato, anche, dalla loro incapacità di predisporre servizi e pagare gli stipendi ai lavoratori. Una condizione sfavorevole che li ha visti agire in chiave interna per impedire l’insorgere di quei prodromi di protesta che potessero incanalarsi in una sorta di insurrezione popolare – magari fomentata da attori esterni – che potesse delegittimarli e portarli a perdere il controllo del potere. Soprattutto in coincidenza con l’inizio della guerra tra Israele e Hamas, la milizia ha vietato qualsiasi forma di manifestazione in solidarietà con la Palestina, nel timore che queste potessero trasformarsi in mobilitazioni ideologiche contrarie alle politiche del gruppo. In questa prospettiva, un coinvolgimento di qualche tipo nella dinamica della guerra di Gaza potrebbe essere visto dal gruppo come un’opportunità funzionale per allargare la fetta di legittimità popolare dentro e fuori i suoi confini attraverso un uso strumentale della narrazione anti-sionista e anti-israeliana prodotta dalla crisi del 7 ottobre.
D’altra parte, gli Houthi hanno dovuto far fronte alle dinamiche regionali che li hanno visti sì come importanti esponenti dell’Asse di Resistenza, ma isolati dal resto dei Paesi del Golfo con i quali si confronta. Questo è particolarmente vero se rapportato con l’ Arabia Saudita , che non solo rappresenta l’antagonista tradizionale delle realtà filo-iraniane, ma con cui lo Yemen (e la zona settentrionale controllata dagli Houthi) condivide un confine molto poroso e difficilmente controllabile. Dal 2015, infatti, Riyadh, che ritiene la crisi yemenita un elemento fondamentale del suo perimetro politico domestico e, quindi, della sua sicurezza nazionale, è direttamente coinvolta nel conflitto e dal 2022 ha aperto un canale di dialogo con gli Houthi per avviare un processo di pace, con cui si sono accordati su un cessate il fuoco tutt’ora in atto. Benché i colloqui di pace non siano naufragati nonostante i recenti avvenimenti, essi hanno però conosciuto una flessione politica data dalla difficile congiuntura regionale e dalla difficoltà di tenere insieme le diverse anime del processo di pace yemenita. Dal 2014, lo Yemen è diviso con gli Houthi che controllano la maggior parte del popoloso Nord, il governo legittimo che opera dalla città portuale di Aden nel Sud e varie altre fazioni armate che perseguono i propri interessi nelle aree interne e orientali dello Stato. I sauditi e gli Houthi, infatti, hanno evitato in più modi una ripresa dei combattimenti, sebbene permangano ancora profonde differenze. Si spiegano anche in questi termini i tentativi vani tra settembre e ottobre 2023 compiuti da Riyadh, sede di alcuni incontri tenuti dal Ministro della Difesa saudita, il Principe Khalid bin Salman, prima con gli Houthi e poi con il Presidente del Presidential Leadership Council (PLC), Rashad Muhammad al-Alimi, per definire un deciso rilancio del processo di pace yemenita.
Ciò nonostante, gli attacchi missilistici e di droni che gli Houthi hanno perpetuato con l’intenzione di colpire la parte meridionale di Israele, hanno finito per destabilizzare maggiormente il territorio saudita essendo che molti di queste azioni sono abortite terminando nel regno degli al-Saud. Seppur, quindi, Riyadh sembra non abbia alcuna intenzione di ritornare a confrontarsi militarmente con gli Houthi, i continui attacchi rischiano di minare le trattative di pace, esacerbando le ostilità e minacciando una concatenazione di eventi che metterebbero in pericolo la stabilità del confine saudita-yemenita.
Oltre a rischiare di destabilizzare il proprio vicinato, un coinvolgimento degli Houthi nella crisi di Gaza potrebbe concorrere nel mettere in pericolo anche la stabilità dell’area del Mar Rosso . Le tattiche marittime asimmetriche performate dalla milizia yemenita, che comprendono anche attacchi a vascelli commerciali, hanno causato notevoli criticità per la sicurezza del Mar Rosso, snodo strategico fondamentale per il commercio e il trasporto marittimo mondiale con oltre 6,2 milioni di barili di greggio che ogni giorno passano attraverso lo stretto. Infatti, già alcune navi commerciali – seppur legate ad Israele – hanno deciso di cambiare la loro rotta e di non transitare per lo stretto di Bab al-Mandab, segnando un primo campanello di allarme per i Paesi (Egitto in primis) che del passaggio delle navi da commercio per gli stretti del Mar Rosso basano una buona fetta della loro economia. Infine, l’attacco con missili balistici anti-nave contro la cacciatorpediniere USS Mason, segnala, quindi, il rischio di un innalzamento della minaccia militare nell’area provocata dalla milizia. Di fatto, il Mar Rosso diverrebbe un possibile teatro di escalation, un canale vitale per il commercio globale, compreso il petrolio e il gas del Medio Oriente che viaggiano verso il Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.
Ecco, quindi, che gli Houthi sembrerebbero perseguire obiettivi differenti attraverso un adattamento circostanziato di talune strategie. Da un lato, la milizia punterebbe a valutare un approccio calcolato e mirato a rafforzare la posizione del gruppo nei colloqui di pace con l’Arabia Saudita, che a sua volta cerca di negoziare un’uscita onorevole dalla guerra in Yemen. Al contempo, però, gli Houthi sfrutterebbero questa condizione di incertezza per fare pressioni su sauditi e statunitensi – nella quale non è da escludere un potenziale interesse e vantaggio anche da parte iraniana – attraverso un coinvolgimento minimo nella dinamica del conflitto in corso a Gaza e dall’alto potenziale regionale. Un approccio duplice che mirerebbe ad aumentare l’influenza politica e la forza negoziale del gruppo armato in Yemen e nella regione più ampia. Sebbene, non sia ancora chiaro quale possa essere il grado di coinvolgimento e pericolosità legato alle recenti azioni mosse dalla milizia verso gli obiettivi nel Sud di Israele e il Mar Rosso, non sono però segnali da sottovalutare l’elevata portata degli attacchi messi a segno, nonché il progresso tecnologico delle capacità degli Houthi.
Tutti elementi che segnalano una rinnovata determinazione della milizia yemenita nel vedersi riconosciuta una capacità tale da (ri)definirne uno status rafforzato o, finanche, nuovo, come attore in grado di impegnarsi in situazioni di tensioni o conflitti regionalizzati anche allargati.