Il ruolo del Pakistan negli equilibri regionali all’alba del ritiro di ISAF
Lo scorso 6 febbraio, a Islamabad, presso la Khyber Pakhtunkhwa House, giunta dell’omonima regione, si è tenuto il primo incontro ufficiale tra esponenti del Governo pakistano e del TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan). I due team di negoziatori erano rispettivamente guidati dall’autorevole giornalista Irfan Siddiqui, consigliere del Primo Ministro pakistano Sharif, e da Maulana Sami ul-Haq, influente leader religioso pakistano, direttore della scuola coranica Darul uloom Haqqania. Nell’occasione le due parti hanno auspicato la messa a punto di una road map che ponga fine alla ormai decennale insurrezione armata islamista nel Paese. Il Governo pakistano, tuttavia, ha tenuto a precisare che i negoziati potranno andare avanti solo a determinate condizioni, ossia che non superino i limiti e le prescrizioni costituzionali, che abbiano come unico oggetto le aree interessate dall’insurrezione (soprattutto Nord e Sud Waziristan, Kurram e Khyber), che vedano la cessazione di qualsiasi attività ostile durante il loro svolgimento e che i talebani chiariscano la reale funzione di una nuova commissione di 9 membri, ufficialmente creata per supervisionare il processo negoziale.
La repentina svolta nelle trattative si inserisce in un contesto di profonda incertezza per il Pakistan, sempre più dilaniato dalla spirale di violenza che nelle ultime settimane ha registrato tre nuovi attentati: il 9 gennaio un poliziotto ha perso la vita a Karachi in seguito all’esplosione di un’autobomba; il 19 gennaio, 20 soldati sono morti in un’imboscata nei pressi di Bannu, nel nord-ovest, mentre il giorno successivo un’esplosione al Royal Artillery Bazaar di Rawalpindi, sede del Comando delle Forze Armate, ha causato 13 vittime. Tutti e tre gli attacchi sono stati rivendicati dal TTP. I dati recenti sono allarmanti, dal momento che nel solo 2013 gli attentati di matrice islamista sono stati 645, causando la morte di 732 civili e 425 membri delle forze di sicurezza.
Nell’ultimo decennio la questione della sicurezza interna è divenuta centrale per Islamabad, soprattutto da quando, nell’ottobre 2001, l’allora Presidente Pervez Musharraf diede il pieno supporto agli Stati Uniti nell’Operazione Enduring Freedom. Negli anni successivi il destino politico del Pakistan è andato progressivamente a intrecciarsi con quello dell’Afghanistan sconvolto dalla guerra. Il supporto logistico fornito da Islamabad agli americani e ai loro alleati ha progressivamente esposto il Pakistan alla minaccia di movimenti d’ispirazione qaedista ostili al Governo centrale, come il TTP, Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Mohammed, il cui sviluppo è stato favorito dalla porosità della linea Durand, confine tra Pakistan e Afghanistan e area a maggioranza Pashtun, dove il controllo governativo è pressoché inesistente. In tal modo, Islamabad è stata indirettamente coinvolta nella complessa crisi afghana, trovandosi a dover gestire da un lato le pressioni occidentali per una più ampia collaborazione nella lotta al terrorismo, dall’altro il proliferare di cellule islamiste interne che ha indebolito l’effettività dell’autorità centrale minando significativamente la sicurezza del Paese.
In questo clima, l’imminente ritiro delle truppe americane e del contingente ISAF (International Security Assistance Force), previsto per il dicembre 2014, da un Afghanistan ancora lontano dalla pacificazione, non potrà che avere importanti ripercussioni sugli equilibri interni del Pakistan, nonché sulle sue future relazioni regionali.
Gli ultimi mesi hanno mostrato come le turbolenze in Afghanistan non si siano placate, lasciando il Paese in un quadro profondamente travagliato, aggravato dallo stallo dei negoziati sull’accordo di sicurezza con gli Stati Uniti e dalle imminenti elezioni presidenziali, previste il prossimo 5 aprile, che decreteranno il successore di Karzai. Pertanto, il prossimo disimpegno americano da un contesto così instabile sembra delineare prospettive tutt’altro che luminose per il Pakistan. Islamabad potrebbe trovarsi a fronteggiare una situazione di protratta guerra civile oltre confine, privo del fondamentale supporto militare occidentale, con il rischio concreto che un’escalation militare possa, di fatto, trascinarla nel conflitto, sia in termini bellici che di gestione dei flussi di rifugiati. Inoltre, il maggiore spazio di manovra di cui i talebani godrebbero in seguito al ritiro dell’ISAF, unito alla crisi del triangolo diplomatico Washington-Kabul-Islamabad, andrebbe inevitabilmente a rafforzare la stessa influenza talebana nelle nutrite fila estremiste pakistane che trovano riparo nelle FATA (Federally Administered Tribal Areas), quei distretti a maggioranza Pashtun, economicamente depresse e trascurate dai progetti statali di sviluppo, da anni ai ferri corti con l’autorità centrale e cuore pulsante della militanza islamica radicale della regione.
Considerando la fondatezza di tali prospettive, non sembra azzardato ritenere che il Pakistan possa divenire il Paese maggiormente danneggiato dalla smobilitazione militare occidentale. La valutazione dei rischi di destabilizzazione futura potrebbero aver portato il Primo Ministro, Nawaz Sharif, a imprimere un’accelerata alle trattative con il TTP, superando le forti resistenze interne, soprattutto dei militari, che scorgono nell’apertura dei talebani solo una strategia per guadagnare tempo.
Sharif, rieletto lo scorso maggio per la terza volta in vent’anni, è tornato in Pakistan nel 2007 tra le fila dell’opposizione, dopo un lungo esilio in Arabia Saudita iniziato nel 1999 con la sua esautorazione ad opera del Generale Musharraf. Alla luce della crisi delle istituzioni politiche pakistane, la sua figura appare fondamentale nel riassetto interno del Paese e nel rilancio della sua posizione internazionale. Ad ogni modo, il successo, e probabilmente la durata, del suo mandato saranno in buona misura determinati dalla gestione dei rapporti con i cosiddetti “poteri non eletti”, quali le Forze Armate, e le organizzazioni islamiste. Innanzitutto, il Primo Ministro dovrà cercare di ricucire lo strappo tra le istituzioni civili e quelle militari. Le prime spesso sono state critiche verso le eccessive concessioni fatte agli USA per le strike operation contro i leader talebani nelle regioni settentrionali pakistane, e appaiono propense a un’apertura al dialogo con l’India. Al contrario, le seconde sono strettamente legate e dipendenti dai finanziamenti di Washington e appaiono riluttanti a compiere passi verso la normalizzazione dei rapporti con Nuova Delhi. Tuttavia, il declino della figura di Musharraf e l’operazione unilaterale statunitense che nel 2011 ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden, ad Abbottabad, hanno causato grande imbarazzo a Rawalpindi, ridimensionando il prestigio delle élite militari. A questo si aggiunge la recente nomina a Capo di Stato Maggiore del Generale Raheel Sharif, figura professionale di spessore e priva di ambizioni politiche, vista con moderato apprezzamento dagli ambienti governativi.
Alla vigilia del ritiro dell’ISAF dall’Afghanistan, è evidente che la partita di Sharif con l’establishment militare si giocherà anche, e soprattutto, nelle relazioni con i talebani afghani e pakistani. In questo senso, la visita del Primo Ministro pakistano in Afghanistan, avvenuta lo scorso novembre, è servita a rassicurare Kabul sul reale impegno di Islamabad a lavorare per facilitare i negoziati tra Governo afghano e talebani. Per ampliare i suoi margini di manovra interni il Premier pakistano, avvalendosi della collaborazione di Raheel Sharif, dovrà confrontarsi con il potere dell’ISI (Inter-Services Intelligence), la più influente agenzia d’intelligence pakistana, strettamente legata alle Forze Armate e da più parti sospettata di intrattenere rapporti ambigui con i talebani. L’ISI sembra avere regolarmente interagito con il Mullah Omar fin dalla metà degli Anni 90, e in seguito al rovesciamento del regime in Afghanistan nel 2001, avrebbe favorito il rifugio delle milizie talebane, fornendo loro supporto economico, logistico, e addestramento militare.
Alla radice di quella che può apparire come un’insolita partnership risiedono celate ragioni più strettamente politiche. In primo luogo, i talebani appaiono a molti ambienti militari pakistani un male minore rispetto alla minaccia costituita da un’eventuale espansione dell’influenza indiana nell’area e la stessa militanza islamista radicale è stata tradizionalmente manipolata dal governo pakistano come strumento politico e militare contro l’India. In secondo luogo, l’establishment militare teme che un drastico ridimensionamento della minaccia talebana finirebbe per marginalizzare il ruolo stesso dell’Esercito e declassare il Paese agli occhi degli Stati Uniti, impegnati in un consistente rebalancing verso la regione Asia-Pacifico. La recente svolta dell’elezione del Governo civile di Sharif e la decisa ostilità dei nuovi vertici militari verso i talebani potrebbero, tuttavia, smorzare queste tendenze, fermo restando che l’ISI sia assoggettato a un più rigido controllo istituzionale e sia incentivato a collaborare con maggiore trasparenza.
Sul piano internazionale, contrariamente ai timori di parte dell’Esercito, il disimpegno militare di Washington dalla regione non sembra precludere il protrarsi del supporto politico ed economico a Islamabad. La frustrazione per le resistenze di Karzai alla firma del patto di sicurezza con gli Stati Uniti sta progressivamente spingendo l’amministrazione Obama a limare le divergenze con il Pakistan, soprattutto relative all’affaire Afridi, fisico pakistano detenuto nel Paese con l’accusa di aver collaborato con la CIA nella localizzazione di Osama Bin Laden, e ai raid dei droni. In questo senso, il nuovo corso Sharif pare godere della fiducia della Casa Bianca che, per voce del Segretario di Stato, John Kerry, ha espresso la speranza di veder appianate le divergenze tra Islamabad e Nuova Delhi. Per Washington, un progressivo miglioramento dei rapporti tra India e Pakistan, per quanto imprevedibile nella sua durata, potrebbe gettare le prime basi per un ipotetico futuro sistema di sicurezza e cooperazione nell’Asia Meridionale che veda protagoniste le due potenze nucleari regionali. Ovviamente, l’amministrazione statunitense è perfettamente consapevole che, ad oggi, questa è un’ipotesi poco più che accademica la cui realizzazione passa attraverso l’apertura di tavoli negoziali riguardanti i dossier del Kashmir, dei progetti idrici e della regione del Kargil. In questa prospettiva, nel dicembre scorso, la visita in India di Shahbaz Sharif, fratello minore del Primo Ministro pakistano e governatore del Punjab, ha riaperto la strada del dialogo tra i due Paesi, discutendo tutti i temi caldi, a partire proprio dalla disputa sul Kashmir, passando per la collaborazione sulla lotta al terrorismo e la gestione dei processi per gli attentati di Mumbai del 2008.
Ad avvalorare l’ipotesi che gli Stati Uniti intendano proseguire una politica diplomatica attiva nell’Hindu Kush, anche dopo il ritiro del loro contingente, sarebbe la concreta prospettiva di un crescente protagonismo cinese in Asia Meridionale. Pechino fino a questo momento ha mantenuto una posizione attendista sulla questione afghana, lasciando agli Stati Uniti l’onere di stabilizzare un contesto rivelatosi col tempo sempre più ingestibile. Il ritiro americano spingerà inevitabilmente la Cina ad approfondire il dialogo con il Pakistan, storico alleato, sulle questioni strategiche, nella cui agenda spicca l’irrisolta questione della minoranza islamica degli Uiguri, le cui cellule più radicalizzate hanno trovato nelle FATA pakistane un importante retroterra logistico, nonché su temi energetici e minerari. Pertanto, agli occhi di Washington il rebalancing cinese verso l’Asia meridionale e più in generale verso il continente, la cosiddetta “March West”, potrebbe rivelarsi non meno insidioso del più celebre dinamismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. In questo contesto, il Pakistan andrebbe a collocarsi in una posizione strategica, costituendo per la Cina la breccia verso l’Asia Centrale e per gli Stati Uniti il baluardo del containment anti-cinese. Considerando questi sviluppi, la strategia americana di rebalancing verso l’Asia orientale potrebbe estendere il suo raggio d’azione dall’Asia-Pacifico per riassestarsi sulla più ampia area Indo-Pacifico, includendo l’Oceano Indiano, il principale corridoio commerciale marittimo del mondo.
Alla luce di quanto detto, qualsiasi processo di ri-orientamento della strategia americana in Asia che escludesse Islamabad risulterebbe incompleto. Washington è consapevole che la stabilità del Pakistan, anche in virtù del suo arsenale nucleare, è fondamentale nella complessa riorganizzazione degli equilibri regionali. La cronica questione afghana, il rafforzamento dell’islamismo militante nelle FATA, unito alla gracilità dell’economia e alla debolezza delle nuove istituzioni civili pakistane, suonano come un monito davanti a cui l’amministrazione Obama non può e non vuole rimanere inerte. Al tempo stesso, il tentativo di consolidamento interno di Sharif non sembra poter prescindere dal supporto politico ed economico occidentale, come conferma il recente finanziamento di 6,6 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale. In questo gioco a somma zero s’inserisce la variabile della militanza radicale islamista, a cui lo stesso Sharif ha posto rigide condizioni di dialogo, in controtendenza al recente passato, in cui, non troppo celatamente, i governi succedutisi hanno spesso agitato lo spettro del terrorismo per rafforzare la loro posizione negoziale con gli Stati Uniti. Sul piano strettamente regionale, la normalizzazione dei rapporti con l’India e una più attiva cooperazione strategica con la Cina andrebbero a dar respiro a una manovra pakistana altrimenti limitata all’unico interlocutore statunitense e pericolosamente esposta ai rischi di destabilizzazione in Afghanistan. Appare evidente come si tratti di un sottile gioco diplomatico la cui realizzazione garantirebbe a Sharif quella più ampia agilità politica necessaria a sbloccare lo stallo istituzionale e rilanciare le ambizioni di crescita economica del Paese.