Il ritorno dell'insorgenza anti-indiana nel Kashmir
Asia e Pacifico

Il ritorno dell'insorgenza anti-indiana nel Kashmir

Di Monica Esposito
23.05.2017

La sera del 6 maggio, un gruppo armato di separatisti kashmiri ha aperto il fuoco contro le forze di polizia indiane che in quel momento stavano cercando di liberare una strada nei pressi del distretto di Kulgam, in Jammu a Kashmir, la porzione di territorio del Kashmir di amministrazione indiana. Nel confronto a fuoco sono morti tre civili, un poliziotto e uno dei militanti. Gli altri responsabili dell’attacco avrebbero trovato poi rifugio a Malpora, un villaggio a 65 km da Srinagar, la capitale estiva dello Stato federato. Questo episodio si inserisce in un periodo particolarmente turbolento per lo Stato di Jammu e Kashmir, a causa dell’inasprimento delle tensioni tra militanti violenti portatori di istanze anti-indiane e le forze indiane presenti sul territorio. Solo qualche giorno prima, il 4 maggio, la polizia indiana ha lanciato un’operazione di anti-terrorismo con lo scopo di arrestare possibili militanti affiliati a gruppi indipendentisti. Si è trattato di una delle operazioni più massicce degli ultimi 15 anni. Tuttavia nel tentativo di arginare potenziali focolai di insurrezione, l’operazione militare ha sortito l’effetto di deteriorare la percezione anti-indiana della popolazione, come era già successo in precedenza. Già il 28 marzo, infatti, nella città di Chadoora, erano scoppiate delle violenti proteste, dopo che la polizia aveva preso d’assalto l’abitazione di Tanseef Ahmand Wagay, sospettato di essere un militante separatista, poi ucciso durante l’operazione di polizia. In riposta all’aggressione, centinaia di persone si erano riversate in strada, intonando slogan anti-indiani e lanciando pietre contro le forze dell’ordine, che a loro volta avevano cercato di reprimere duramente le proteste. La confrontazione tra civili e militari aveva causato 3 morti e 20 feriti. Le manifestazioni si erano poi diffuse in altre città limitrofe. Ure critiche sono giunte da Syed Ali Geelani, fondatore del movimento islamista Tehreek-e-Hurriyat, Mirwaiz Umar Farooq e Yasin Malik, personalità di spicco all’interno dell’ All Parties Hurriyat Conference (APHC), movimento politico ombrello di diverse organizzazioni sociali, politiche e religiose, formatosi nel 1993 con lo scopo di rendere il Kashmir indipendente e di creare un governo islamico in Jammu e Kashmir. Gli scontri degli ultimi mesi riesumano l’attività dell’insorgenza indipendentista kashmiri che auspica un affrancamento dall’India, Paese in cui la popolazione dello Stato di Jammu e Kashmir, a maggioranza musulmana, non riconosce la propria identità. Dei tre Paesi che si spartiscono il territorio del Kashmir, ovvero il Pakistan che controlla indirettamente i territori del Nord, detti Azad Kashmir, la Cina che amministra la porzione settentrionale dell’Aksai Chin, l’India è l’unico ad avere un’amministrazione totale sullo Stato di Jammu e Kashmir. Secondo l’articolo 3 della sua Costituzione, infatti, lo Stato di Jammu e Kashmir è parte integrante dell’Unione Indiana. Questo Stato è caratterizzato da una grande eterogeneità etnico-religiosa distribuita tra diversi distretti. Mentre nella Valle del Kashmir la popolazione è a maggioranza musulmana, nel distretto di Jammu, prevale la religione induista, e ancora nel distretto di Ladakh è concentrato un maggior numero di buddisti e di musulmani sciiti. A ragione della loro affiliazione religiosa, il distretto di Ladakh e quello di Jammu si sono spesso mostrati inclini ad appoggiare le politiche di New Delhi. Al contrario, dal momento che il 97% della popolazione della Valle del Kashmir è di religione musulmana, questa porzione di territorio rappresenta una criticità per l’Unione Indiana, molto attenta a preservare la sua identità induista, scatenando il malcontento della popolazione musulmana. Non è un caso, infatti, che gli scontri del 28 marzo siano avvenuti nella città di Chadoora, dal momento che si trova in un distretto, quello di Budgam, a maggioranza islamica. Quanto accaduto ultimamente nel distretto di Kulgam è sintomatico di una ripresa, dopo un periodo di relativa quiete, della resistenza anti-indiana nella Valle del Kashmir. Le cause principali di questo rinnovo delle ostilità sono da ritrovarsi in due eventi che hanno caratterizzato la vita politica del Kashmir negli ultimi anni. Da una parte, l’esito delle elezioni nel 2014, dall’altra, l’uccisione del militante indipendentista Burhan Wani, nel 2016. Per quanto riguarda le elezioni per l’Assemblea Legislativa di Jammu e Kashmir avvenute nel novembre 2014, i risultati elettorali, resi pubblici il 23 dicembre, hanno registrato l’ottenimento della maggioranza del numero dei seggi per il People Democratic Party (PDP), indipendentista, che al fine di assicurare la stabilità di governo si è aperto alla formazione di una coalizione con il Bharatiya Janata Party (BJP), partito nazionalista induista e anti-musulmano, che aveva già vinto le elezioni generali indiane avvenute qualche mese prima di quelle legislative. Questo risultato ha rappresentato un cambiamento di rotta della politica dello Stato di Jammu e Kashmir che fino al 2009 era stato dominato dalla famiglia di Sikh Abdullah, fondatore della Conferenza del Kashmir musulmano, adesso conosciuta come la Conferenza Nazionale di Jammu e Kashmir, portatrice di istanze autonomiste, contraltare del PDP. La formazione dell’alleanza governativa PDP-BJP è stata, dunque, interpretata dalla popolazione della Valle del Kashmir, indipendentista e a maggioranza musulmana, come un deterioramento delle possibilità di affrancamento dall’India e ha, dunque, marcato ulteriormente le divergenze tra la popolazione induista e quella musulmana. La politica del Primo Ministro indiano Modi ha spesso mostrato delle posizioni profondamente radicali nei confronti della minoranza musulmana indiana. Durante la campagna elettorale del 2014, ad esempio, il Primo Ministro aveva dichiarato che avrebbe accolto dal Bangladesh solo i rifugiati induisti e non quelli musulmani. Questo atteggiamento profondamente nazionalista e filo-induista, dunque ha, fatto sorgere molte preoccupazioni tra la popolazione della Valle del Kashmir. Tuttavia, l’assenza di un impegno politico serio per risolvere la relazione tra la Valle del Kashmir e l’India ha contribuito ad avviare una narrativa politica più radicale, concedendo sempre più spazio e legittimità a una nuova militanza anti-indiana, che talvolta ha assunto anche un carattere violento. Il simbolo di questa nuova insorgenza è stato Burhan Muzzaffar Wani, leader di Hizbul Mujaheedin, gruppo separatista del Kashmir, ucciso lo scorso 8 luglio a seguito di una speciale operazione congiunta del gruppo della polizia di Jammu e Kashmir e dell’apparato anti-terrorismo dell’Esercito indiano. Sebbene Hizbul Mujaheedin non sia un gruppo nuovo nella galassia dell’insorgenza del Kashmir- è stato, infatti, fondato nel 1989- la vera novità è stata rappresentata dal modus operandi di Wani. Burhan è stato, infatti, il primo dei militanti del gruppo di insurrezione a svelare la propria identità e ad usare i social media per perorare la causa dell’indipendentismo del Kashmir dall’India. Lo straordinario seguito accorso per il funerale di Wani e gli scontri perpetratisi tra separatisti kashmiri e le forze di polizia indiane dopo la sua uccisione testimoniano l’impatto della figura del militante sulla popolazione, soprattutto su quella più giovane, fomentata tanto da velleità indipendentiste quanto da un forte senso di opposizione alla pervasiva militarizzazione delle città. Nel 2015, si è registrato un aumento dei giovani provenienti dal Kashmir indiano che si sono arruolati nei gruppi di insurrezione. Pertanto a differenza dei vecchi gruppi di insorgenza come Lashkar-e-Taiba con un retroterra ben radicato in Pakistan, i nuovi ribelli hanno assunto una connotazione più autoctona, prettamente kashmiri. Il fronte della giovane insorgenza si divide, tuttavia, tra coloro che hanno una maggiore tendenza alla radicalizzazione delle proprie posizioni, su imitazione di Wani, e coloro che, invece, sono parte di una nuova generazione formata da giovani educati all’estero, pertanto più consapevoli della propria storia. Questi ultimi, grazie a un maggiore accesso alla tecnologia e all’istruzione, hanno potuto constatare la possibilità di fare attivismo attraverso una retorica più incisiva, che permetta di sensibilizzare il consesso internazionale alla questione del Kashmir. Questa retorica, però, non riesce ad incanalarsi in un dialogo politico costruttivo. I vecchi partiti indipendentisti, come ad esempio il Fronte di Liberazione di Jammu e Kashmir, hanno perso la loro attrattività e credibilità nei confronti dei giovani. Infatti, i membri dei vecchi partiti sono stati spesso coinvolti in diversi scandali di corruzione e non hanno mai fornito un’agenda politica che andasse oltre la protesta e si concretizzasse in un programma effettivo. Inoltre, dal momento che molti degli affiliati ai partiti indipendentisti sono stati spesso repressi dalle forze di polizia e arrestati, attualmente la maggior parte dei giovani kashmiri non è disposta a subire questo tipo di trattamento. Ne deriva che, a causa della mancanza di una valida leadership e di capacità organizzative, è più frequente che i nuovi militanti vengano attratti da figure come Burhan Wani, anziché che creino nuove formazioni partitiche. Oltre alla dimensione domestica caratterizzata da forti tratti etnico-religiosi, il conflitto in Kashmir si declina anche in una dimensione regionale. Da questo punto di vista, il Kashmir rappresenta il barometro delle relazioni tra India e Pakistan. Sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947, diverse confrontazioni tra i due Paesi si sono difatti susseguite al fine di legittimare la propria egemonia nelle proprie zone di influenza. Prima tra il 1947 e il 1948, poi nel 1965. Sebbene nel 1999 gli accordi di Simla formalizzarono la creazione di una linea di “cessate-il-fuoco”, la linea de facto che separava i territori amministrati rispettivamente da Pakistan e India, nel 2002 si verificò una nuova escalation di violenze, che si spense per poi riaccendersi nel 2010. A livello regionale, infatti, il Kashmir ha sempre fornito un casus belli sia per l’India che per il Pakistan. L’India teme che il proliferare dei movimenti islamisti all’interno del Kashmir possa minare alla coesione della nazione indiana. Dall’altro, per il Pakistan è sempre stato importante ottenere una propria presenza in Kashmir per mantenere il proprio status di potenza in un rapporto di forza con l’India. Non è da escludere che ad un inasprimento delle tensioni in chiave anti-indiana in Kashmir possa corrispondere un deterioramento delle relazioni indo-pakistane che metterebbe in pericolo la già precaria situazione di sicurezza dell’intera regione. La questione del Kashmir si inserisce, di fatto, in un rapporto già molto teso tra i due Paesi. Le confrontazioni a fuoco che sono avvenute l’11 e il 13 maggio lungo la Line of Control (LoC), la linea di confine de facto tra il territorio di amministrazione indiana e quello pakistano, che hanno provocato in tutto 4 morti e circa 11 feriti, potrebbero diventare, dunque, una petulante goccia che potrebbe di far traboccare il già ricolmo vaso.

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