Il nuovo governo libanese e l'urgenza della riforma elettorale
Lo scorso 6 aprile il Parlamento libanese ha eletto Tammam Salam nuovo Primo Ministro, con un voto quasi unanime – 124 voti su 128 – e trasversale alle maggiori forze politiche. Sia la coalizione 14 Marzo (Movimento del Futuro, Partito Progressista Socialista, Forze Libanesi e Partito delle falangi Libanesi) sia l’alleanza 8 Marzo (Amal, Hezbollah e Movimento Patriottico Libero) hanno, infatti, trovato una convergenza sul nome di Salam, chiamato a formare il nuovo esecutivo. Sessantotto anni, sunnita e figlio di Saeb Salam – Primo Ministro per sei volte tra il 1952 e il 1973 – Tammam Salam ha corso con il Movimento del Futuro, partito di Hariri, alle ultime elezioni del giugno 2009 ed era stato precedentemente Ministro della Cultura durante il governo di Fouad Siniora.
Due sono le questioni che il nuovo Primo Ministro dovrà da subito affrontare: la formazione del nuovo esecutivo e la definizione di una nuova legge elettorale che raccolga il consenso delle forze parlamentari. Dalle consultazioni tenutesi l’11 aprile, è emerso che l’intento di Salam sarebbe riuscire a formare un governo di larghe intese, con Ministri non candidati alle prossime elezioni e una composizione omogenea, indipendente dalle quote stabilite dall’Accordo di Doha del 2008 (15 Ministri nominati dalla maggioranza, 10 dalla minoranza e 5 dal Presidente della Repubblica). Si tratterebbe di un governo ad hoc, funzionale all’organizzazione delle elezioni parlamentari previste per il prossimo 16 giugno. La linea del Primo Ministro è condivisa dalla coalizione 14 Marzo; diversa è invece la posizione dell’alleanza 8 Marzo, la quale spinge affinché Salam dia vita ad un governo di unità nazionale che sia proporzionalmente rappresentativo delle forze presenti in parlamento e in grado di lavorare nel lungo periodo.
Il disaccordo sostanziale sulle prospettive che dovrà avere il prossimo governo sta creando un’impasse che inevitabilmente rallenta sia la formazione del nuovo esecutivo sia l’iter di organizzazione delle nuove elezioni. Infatti, Non essendo riuscito a nominare i membri del comitato di supervisione elettorale e data l’impossibilità finanziaria di organizzare le elezioni entro le scadenze previste, il Parlamento ha approvato un disegno di legge che estende le deadlines per la presentazione delle candidature e l’espletamento delle questioni tecniche fino al 19 maggio. Questa proroga dovrebbe permettere inoltre ai diversi partiti di cercare una convergenza anche sulla formulazione della nuova legge elettorale, che vada a sostituire l’attuale legge del 1960, principale motivo di disaccordo tra le due coalizioni in Parlamento. Tale legge – votata nel 2008 a condizione che fosse utilizzata esclusivamente per le elezioni dell’anno successivo – recepisce gli accordi di Doha, introducendo un sistema maggioritario ad un turno e la divisione del Paese in 24 circoscrizioni. Rimane comunque invariato l’assetto sancito dagli Accordi di Taif, che garantiscono l’equilibrio istituzionale attraverso una divisione del potere su base etnica e religiosa. Dei 128 seggi in Parlamento, 64 sono destinati alla comunità cristiana e 64 alla comunità musulmana, da ripartirsi poi tra sunniti e sciiti. Tale ripartizione confessionale è riscontrabile anche nell’assegnazione delle più alte cariche dello Stato: il Presidente della Repubblica è di norma un cristiano maronita, il Primo Ministro sunnita e il Presidente del Parlamento sciita.
Nonostante l’approvazione nel settembre 2012 di un disegno di legge – che ha introdotto il criterio della proporzionalità e la suddivisione del territorio in 13 distretti – in parziale modificazione di questo sistema, la coalizione 8 Marzo considera prioritario arrivare ad una nuova legge elettorale prima di organizzare le elezioni. La proposta presentata dai partiti alleati ad Hezbollah, la così detta “Orthodox Gathering” con la quale verrebbe meno la divisione distrettuale, ha trovato il consenso delle forze cristiane, che si troverebbero avvantaggiate da un sistema proporzionale applicato in modo uniforme a tutto il territorio nazionale. Questa convergenza ha però causato una frattura nella coalizione 14 Marzo: le forze sunnite infatti si sono da subito opposte alla riforma, temendo che legare la possibilità di voto all’appartenenza religiosa e sovrastimare di conseguenza la componente confessionale del sistema, possa indebolire il proprio consenso elettorale. La componente cristiana dell’alleanza ha invece appoggiato l’”Orthodox Gathering” a discapito della proposta concordata con gli alleati, rallentando così ulteriormente il raggiungimento di un accordo.
Lo stallo sulla legge elettorale aveva già portato lo scorso marzo alle dimissioni dell’ex Primo Ministro, Najib Mikati, nominato nel giugno 2011 a guida di un governo provvisorio dopo la caduta dell’esecutivo di Saad Hariri. La decisione di Mikati è stata motivata anche dal rifiuto di Hezbollah a votare il prolungamento dell’incarico per il capo della polizia (Internal Security Forces), Generale Ashraf al-Rifi, prossimo al pensionamento. Il Generale Rifi, sunnita, è sempre stato vicino alla coalizione 14 Marzo e considerato da molti musulmani sunniti una figura di protezione all’interno delle Forze di Sicurezza, fortemente politicizzate. L’opposizione di Hezbollah – la cui componente armata rimane la principale forza militare del Paese – e dei suoi alleati alla proroga dell’incarico ha alimentato la paura di un rafforzamento del gruppo sciita.
Le dimissioni di Mikati sono state interpretate come un riflesso della crescente tensione tra le due confessioni islamiche, da sempre componente endemica della vita politica libanese e già causa di due precedenti impasse dell’esecutivo Mikati: nel novembre 2011, per il temporeggiamento del governo nel trovare i finanziamenti per il tribunale incaricato delle indagini per l’omicidio di Rafik Hariri – per il quale sono sospettati sia Hezbollah sia il governo siriano – e nell’autunno 2012, in seguito all’attentato in cui ha perso la vita Wissam al-Hassan, sunnita, capo del servizio di intelligence delle Internal Security Forces libanesi.
Le divergenze tra sciiti e sunniti, oltre ad aver compromesso la stabilità del governo precedente, legano inevitabilmente la crisi politica libanese alla crisi in Siria. Benché il governo non prenda ufficialmente nessuna posizione a riguardo, il sostegno di Hezbollah alle forze lealiste di Assad e, al contrario, l’appoggio dei sunniti alle forze anti-regime accrescono il pericolo di un’estensione del conflitto siriano al di là del confine con il Libano. Gli scontri verificatesi a Tripoli, a Beirut e a Sidone potrebbero infatti degenerare al perpetuarsi delle ingerenze di entrambe le parti, mettendo a repentaglio la sicurezza dell’intero Paese. La crisi siriana comporta per le autorità di Beirut anche una notevole pressione per il flusso continuo di profughi – 400 mila secondo le stime dell’Alto commissario ONU per i rifugiati – che entrano nel Paese dei Cedri. Nonostante l’Unione Europea abbia previsto lo stanziamento di 30 milioni di euro per arginare gli effetti della crisi umanitaria, il Presidente Suleiman nelle scorse settimane ha paventato l’opportunità di creare una “buffer zone” in territorio siriano, avvicinandosi alla posizione del Ministro degli esteri turco Davutoglu e al Primo Ministro giordano Abdullah Ensour.
I rapidi sviluppi della crisi siriana rallentano di fatto l’iter di formazione del nuovo governo. Quello che succede oltre confine ha e avrà sicuramente delle ripercussioni sugli equilibri interni libanesi. Le scadenze tecniche per le elezioni complicano ulteriormente il compito di Salam, che non solo deve cercare di raggiungere nel breve periodo un accordo sulla legge elettorale per poter portare il popolo libanese alle urne entro giugno, ma vede anche l’approssimarsi del 25 marzo 2014, data di elezione del nuovo Presidente. Lo stesso Salam ha ammesso che non è possibile definire con certezza la tempistica necessaria a formare il nuovo esecutivo.
Questa incertezza sul fronte politico rischia, però, di trascinare il Libano in una pericolosa spirale di instabilità. Formare un governo in grado di indire le elezioni parlamentari e di nominare il nuovo capo delle Forze di polizia, contribuirebbe ad arginare il pericolo di uno spill over della guerra siriana oltre il confine, andando così a rafforzare uno scenario di sicurezza interna altrimenti pericolosamente precario.