Il mancato accordo tra Hamas e Fatah e il salafismo a Gaza
L’esecutivo di transizione palestinese – frutto dell’accordo tra il capo dell’ufficio politico di Hamas Khaled Meshaal e il leader di al-Fatah Mahmoud Abbas – che dovrebbe traghettare Cisgiordania e Striscia di Gaza sino alle prossime elezioni presidenziali e legislative non è ancora nato. I primi colloqui per la formazione del nuovo governo sono avvenuti a maggio 2011, grazie alla mediazione del Cairo, e, dopo una serie di ritardi, si sono ripetuti a novembre e a febbraio. Quest’ultimo accordo prevede un governo ad interim del leader dell’ANP Mahmoud Abbas con un gabinetto composto da tecnici. Una tale soluzione permetterebbe all’eventuale nuovo governo di avere al proprio vertice una personalità moderata di ampio profilo internazionale. Le scelte di Meshaal, però, non godono della condivisione della totalità del gruppo di Hamas, perché sono considerate delle concessioni politiche eccessive nei confronti di al-Fatah, oltretutto prese unilateralmente, senza consultare l’Ufficio Politico né il Consiglio della Shura.
L’origine dei dissidi interni ad Hamas sta nella coesistenza di un’ala moderata, che vuole una trasformazione in senso politico del movimento, e un’ala oltranzista che nega qualunque soluzione pacifica e rivendica la sua natura di movimento di resistenza militare. Al dualismo politico si unisce anche una questione di leadership tra Meshaal, leader in esilio, e l’attuale primo ministro dell’ANP Ismail Haniyah, palesatasi con la crisi siriana. Meshaal infatti, sino a poche settimane fa presiedeva l’ufficio politico di Hamas a Damasco, a suggellare l’appoggio del governo di Beshar al-Assad al movimento. Allo scoppio della crisi, la popolazione palestinese, in particolare nella Striscia di Gaza, ha sin dalla prima ora sostenuto gli insorti, in quanto sunniti anch’essi, mettendo in imbarazzo la leadership di Hamas e acuendone le differenze interne. E nonostante la visita di Haniya a Teheran, in occasione dell’anniversario della Rivoluzione Islamica, per rimarcare la vicinanza all’Iran – alleato strategico di Hamas, ma anche della Siria – Meshaal ha deciso di abbandonare il quartier generale a Damasco per rifugiarsi a Doha, nel Qatar. Quest’ultima mossa è apparsa come una rottura, poiché la posizione politica del Qatar nella regione è alternativa a quella dell’Iran.
La difficoltà di trovare una sintesi tra le due correnti ha provocato la diffusione di gruppi islamici-radicali legati agli ambienti salafiti, consolidatisi anche a causa delle pessime condizioni economiche in cui versa la popolazione. Come in altri contesti internazionali, gli ambienti salafiti fanno proseliti nelle fasce di popolazione giovanile a causa del loro disagio sociale e cominciano a vedere nello status quo del bipartitismo Hamas-Fatah l’impossibilità di ottenere risultati concreti sulla questione palestinese. I gruppi più rappresentativi di questa nuova realtà dell’Islam radicale sono la Jund Ansar Allah, la Jaish al-Islam e la Jaish al-Umma. A questi si affiancano altri gruppi come la al-Tahwid Wal-Jihad che ha compiuto il primo assassinio ai danni di un occidentale, l’italiano Vittorio Arrigoni. Questa “galassia” di gruppi salafiti contesta ad Hamas le mosse politiche più dialoganti degli ultimi anni che avrebbero allontanato i palestinesi dall’obiettivo della distruzione di Israele. La partecipazione di Gaza alle elezioni palestinesi del 2006, la mancata imposizione della Sharia e gli accordi sul cessate il fuoco con Israele sono le mosse maggiormente stigmatizzate.
L’attività di guerriglia non ancora sopita, infatti, proviene proprio da queste nuove realtà ispirate al jihadismo mondiale di stampo qaedista. Conseguentemente al successo dei jihadisti, comincia a erodersi il consenso di Hamas sia a livello di opinione che a livello di base militante, in quanto molti nuovi militanti salafiti provengono dallo stesso movimento fondamentalista. La gestione del cessate fuoco rappresenta tra l’altro per Gaza un banco di prova sul controllo del territorio. Hamas ha infatti ordinato una serie di arresti di leader e militanti e ha intrapreso anche delle operazioni militari contro di essi, i quali hanno risposto con attentati terroristici in punti sensibili come la moschea di Rafah.
Hamas, dunque, si trova ora davanti a un bivio. Deve scegliere se accreditarsi a livello internazionale come forza di governo, cercando di uscire dallo stallo nell’accordo con Fatah, oppure se chiudere le trattative. La prima opzione può essere facilitata, visto il mutamento del contesto regionale, dal ruolo dei Fratelli Musulmani in Egitto, mentre la seconda rischia di diventare un’arma a doppio taglio. Infatti, il rischio di tornare alla lotta armata potrebbe sì portare al riassorbimento dei gruppi jihadisti, ma allo stesso tempo potrebbe vanificare i progressi effettuati ultimamente nel rapporto con l’Occidente.