Geopolitical Weekly n.255
Corea del Nord
Lo scorso 9 aprile il Pentagono ha ordinato alla portaerei nucleare statunitense USS Carl Vinson, inizialmente diretta verso le coste australiane, di fare rotta verso la penisola coreana. La nave, salpata da Singapore, si dirige verso le acque coreane assieme al suo gruppo da battaglia, composto da diverse unità, quali incrociatori, cacciatorpediniere e sottomarini d’attacco. La notizia arriva pochi giorni dopo l’attacco missilistico americano in Siria e il vertice tenutosi a Mar-a-Lago, in Florida, tra il Presidente statunitense Donald Trump e quello cinese Xi Jinping. Al centro dei colloqui tra i due leader c’è stata l’attuale situazione geopolitica della penisola coreana, una delle aree più calde e critiche del pianeta per via del programma nucleare e missilistico nordcoreano. Trump ha affermato diverse volte come tutte le opzioni siano sul tavolo, compresa quella militare, e come gli Stati Uniti potrebbero agire anche senza un eventuale supporto della Cina. Pechino da parte sua ha ribadito come l’unica strada percorribile sia rappresentata dal dialogo e da una soluzione pacifica, al fine di evitare un’escalation nell’area. Risulta difficile affermare se Washington e Pechino abbiano concordato una strategia precisa durante il vertice: di fatto, mentre gli Stati Uniti hanno deciso di rischierare una portaerei nella zona e pattugliare più attivamente le acque coreane, la Cina ha da parte sua bloccato una nave cargo nordcoreana diretta verso le proprie coste che trasportava carbone, obbligandola a rientrare in Corea. Questo potrebbe essere un primo segnale di come Pechino, principale partner commerciale di Pyongyang, abbia deciso di dare efficacia alle sanzioni previste contro il regime nordcoreano, un tentativo per mettere pressione sul leader nordcoreno, Kim Jong-un. Nonostante i ripetuti toni di scontro nei confronti della mossa statunitense, infatti, la Corea del Nord sembrerebbe aver riaperto la commissione parlamentare per le trattative sul programma nucleare, un primo, ipotetico passo per instaurare un dialogo con gli Stati Uniti e la comunità internazionale. È presto per dire se il riposizionamento della portaerei americana abbia più un valore politico piuttosto che militare. Trump vuole rassicurare gli alleati regionali, Corea del Sud e Giappone, e contemporaneamente inviare un chiaro messaggio di forza a Pyongyang. Non bisogna dimenticare inoltre come nei prossimi giorni il regime nordcoreano si appresti a festeggiare con imponenti parate, e forse nuovi test, il 105esimo anniversario della nascita del suo fondatore, Kim Il-sung, e l’85esimo anniversario della fondazione delle Forze Armate. La tensione nell’area rimane dunque molto elevata, e potrebbe salire ulteriormente nelle prossime settimane.
Egitto
Lo scorso 9 aprile, un attacco suicida ha colpito la Chiesa di San Giorgio, nella città di Tanta, a circa 90 km dal nord del Cairo, mentre veniva celebrata la liturgia domenicale. A causa dell’esplosione, 29 persone sono morte e 71 sono rimaste ferite. Qualche ora dopo, un uomo si è fatto esplodere all’entrata della Cattedrale copta di San Marco, ad Alessandria d’Egitto, mentre cercava di passare i controlli di sicurezza, provocando la morte di circa 18 persone. Entrambi gli attentati, avvenuti in un momento altamente simbolico per il culto cristiano, ossia la Domenica delle Palme, sono stati rivendicati dal gruppo jihadista Wilayat Sinai (Provincia del Sinai, ex Ansar Bayt al-Maqdis), organizzazione affiliata allo Stato Islamico (IS o Daesh) e particolarmente attiva nella Penisola del Sinai. L’attività terroristica di Wilayat Sinai si è intensificata negli ultimi mesi e ha preso di mira sia le forze dell’Esercito egiziano, come è accaduto il 9 Gennaio scorso, quando i militanti del gruppo jihadista hanno attaccato un posto di blocco nella città di el-Arish, nel Nord del Sinai, sia la minoranza copta. A febbraio, infatti, una serie di attacchi perpetrati dai miliziani jihadisti nei confronti della minoranza religiosa cristiana ha costretto la parte copta dei cittadini di el-Arish a scappare e a cercare rifugio nella Chiesa Evangelica di Ismailyia, cittadina che si affaccia sul Canale di Suez. L’insorgenza jihadista costituisce un grave problema di sicurezza per il governo egiziano che si trova a dover gestire sia i miliziani affiliati allo Stato Islamico, sia altre formazioni estremiste come Lewaa el-Thawra (Brigata della Rivoluzione), gruppo eversivo formato dai fuoriusciti della Fratellanza Musulmana all’indomani dell’avvio della campagna repressiva del governo di al-Sisi contro di essa. Lewaa el-Thawra il 1 aprile scorso ha rivendicato l’attentato contro un centro di addestramento della polizia nella stessa città di Tanta. Alla luce del deterioramento della situazione di sicurezza, che dopo il duplice attentato di domenica risulta ancora più precaria, il 10 aprile, il Presidente al-Sisi, ha proclamato lo stato di emergenza di tre mesi. Le misure previste dal piano di emergenza concedono ampio margine di manovra alle forze di sicurezza. Il Presidente al-Sisi ha, inoltre, annunciato che dispiegherà le forze dell’Esercito in tutte le zone sensibili del Paese.
Somalia
Il 10 aprile, un giovane, fingendosi una recluta, si è infiltrato in un campo di addestramento militare nella periferia di Mogadiscio e si è fatto esplodere, provocando la morte di almeno 9 persone, tra cui il Colonnello Abdi Hassan, comandante della base. Solo il giorno prima, il 9 aprile, un’autobomba era scoppiata nei pressi di una base militare vicino al Ministero della Difesa nella capitale con l’obbiettivo di colpire il convoglio nel quale viaggiava il nuovo Capo di Stato Maggiore, il Generale Mohamed Ahmed Jimale, fortunatamente sopravvissuto. Nell’esplosione è stato coinvolto anche un mini-bus che si trovava nelle vicinanze. Nel complesso, sono morte circa 15 persone. Entrambi gli attacchi sono stati rivendicati da al-Shabaab, gruppo terroristico affiliato ad al-Qaeda e attivo nel Paese dal 2006. Gli attentati di matrice jihadista sono ripresi a Mogadiscio a partire dall’agosto 2016, in occasione dell’inizio del processo elettorale, e si sono intensificati in seguito all’elezione del Presidente Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, l’8 febbraio. Solo il 21 marzo scorso, ad esempio, era stato colpito un checkpoint della polizia nei pressi di Villa Somalia, residenza ufficiale del Presidente, provocando la morte di circa 10 persone. Nonostante la missione dell’Unione Africana AMISOM (African Union Mission in Somalia) dal 2011 sia riuscita ad espellere al-Shabaab da Mogadiscio e a privarlo di importanti avamposti, il gruppo filo-qaedista continua a protrarre una perdurante e logorante campagna terroristica e, ultimamente, anche un’operazione di riconquista territoriale. Il 3 aprile, infatti, al-Shabaab è riuscito a riprendere il controllo della città di el-Bur, capitale della regione di Galguduud, nello Stato Federale di Galmudug, subito dopo il ritiro delle forze etiopi, parte di AMISOM, che nel 2014 erano riuscite a strappare la città dalle mani del gruppo terroristico. La resilienza di al-Shabaab rappresenta un ostacolo sempre maggiore al percorso di normalizzazione del Paese. Per contrastarlo, giovedì scorso, il Presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, che ha definito la Somalia una zona di guerra, ha nominato i vertici dell’Esercito, dell’Intelligence e della Polizia in vista della messa a punto di una strategia contro-terrorismo più efficace. Al contempo, il Presidente somalo ha annunciato di voler concedere l’amnistia ai miliziani di al-Shabaab che decideranno di abbandonare la lotta armata e consegnarsi al governo nei prossimi 60 giorni.
Svezia
Lo scorso 7 aprile, nella capitale, Stoccolma, un camion ha travolto la folla a Drottninggatan (Strada della Regina), una delle zone pedonali più frequentate della città, per poi sfondare la vetrina di un negozio, provocando la morte di 4 persone e ferendone 15. Il conducente del veicolo è sceso dal veicolo in corso ed è riuscito a scappare prima dell’impatto. Il responsabile dell’attentato è Rakhmat Akilov, un uomo uzbeko di 39 anni, arrestato a Marsta, nella periferia settentrionale della capitale qualche ora dopo l’accaduto. Akilov aveva richiesto il permesso di soggiorno nel 2014, ma nel 2016 il governo aveva respinto la richiesta e concesso quattro settimane per lasciare il Paese. Da allora, l’uomo risultava scomparso. Anche se al momento le indagini non hanno rivelato connessioni dirette tra l’attentatore e la galassia jihadista internazionale e seppur non è giunta alcuna rivendicazione da parte delle principali sigle terroristiche di ispirazione salafita, Akilov sembrerebbe simpatizzare per gruppi estremisti violenti e per lo Stato Islamico (IS o Daesh). Sebbene si tratti del primo attacco terroristico avvenuto in Svezia da dicembre 2010, quando due bombe esplosero nel centro di Stoccolma per mano di un cittadino svedese di origini irachene, il Paese scandinavo non è stato, negli anni, avulso dal fenomeno della radicalizzazione di matrice islamica. La Svezia ha, infatti, registrato uno dei numeri più consistenti (circa 500) di foreign fighters che si sono arruolati nello Stato Islamico in Siria e in Iraq. Di coloro che sono partiti, è stimato che 140 starebbero rientrando, ponendo il problema per il governo svedese di creare programmi di re-integrazione e de-radicalizzazione adeguati. Inoltre, grazie alla diaspora somala presente nel Paese, la Svezia è stata anche un’importante hub di reclutamento per il gruppo jihadista filo-qaedista al-Shabaab. L’attentato a Stoccolma riapre, dunque, il dibattitto sul modello di accoglienza svedese. Infatti, la Svezia, che a pari degli altri Paesi europei ha accolto il numero più consistente di rifugiati negli ultimi anni, ha iniziato a rendere le sue politiche di accoglienza più restrittive già dopo gli attentati di Parigi del 2015. Non è da escludere, dunque, che quanto accaduto possa rafforzare le posizioni del movimento populista di estrema destra, Sverigedemokraterna (Democratici Svedesi-SD), che accusa la coalizione di governo di centro-sinistra, formata dal Partito Svedese Socialdemocratico e dal Partito dei Verdi, di aver reso il Paese vulnerabile al terrorismo attraverso le sue politiche favorevoli all’immigrazione.