Geopolitical Weekly n.167
Sommario: Australia, Pakistan, Russia
Australia
Lunedì 15 dicembre un predicatore iraniano di fede sunnita, Man Haron Monis, ha preso in ostaggio in un caffè di Sydney 17 persone. Dopo aver fatto irruzione nella caffetteria, il sedicente chierico islamico ha esposto una bandiera con inscritta la Shahada (professione di fede musulmana: “Non c’è altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”), ha fatto disporre i presenti di fronte alle vetrine e ha iniziato a comunicare alla polizia australiana le sue condizioni: ottenere una bandiera dell’ISIS e un colloquio con il premier australiano Tony Abbott. Dopo quasi 17 ore dall’inizio del sequestro, le Forze Speciali australiane hanno effettuato un blitz per liberare gli ostaggi e neutralizzare Monis, uccidendolo. Sfortunatamente, nel corso del blitz, sono rimasti uccisi anche due ostaggi. Man Haron Monis era arrivato in Australia nel 1996 con lo status di rifugiato politico ed era già noto alle Forze di Sicurezza del Paese per una serie di lettere offensive e minacciose inviate alle famiglie dei soldati australiani morti in Afghanistan e per esternazioni deliranti in merito al presunto terrorismo occidentale ai danni degli islamici e al collaborazionismo degli apostati e dei credenti che avrebbero dimenticato i reali precetti e doveri previsti dal Corano. L’azione ha ribadito all’attenzione mondiale il rischio dei cosiddetti “lupi solitari”, fondamentalisti o esaltati che risiedono nei Paesi occidentali in grado di organizzare individualmente azioni difficilmente prevedibili, poiché frutto del proprio deliro personale. Slegati dalle organizzazioni terroristiche monitorate dalle Forze di Sicurezza e dai Servizi di Intelligence, i lupi solitari rappresentano un reale pericolo per quei Paesi, come l’Australia, che hanno tradizionalmente un ruolo sempre di primo piano al contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamica.
Pakistan
Lo scorso martedì 16 dicembre, i talebani del TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan, gruppo ombrello che raccoglie le diverse realtà afferenti all’insorgenza talebana pachistana) hanno attaccato l’Army Public School and Degree College di Peshawar, istituto gestito delle Forze Armate pachistane, causando la morte di oltre 140 persone tra docenti e studenti.
L’attacco è iniziato circa alle 10 del mattino, quando un numero imprecisato di miliziani jihadisti ha fatto irruzione nella scuola e ha iniziato a sparare su studenti e insegnanti. Nonostante le Forze di Sicurezza pakistane abbiano reagito prontamente all’attacco, l’assedio del complesso è durato fino alle 18.
L’assalto giunge in risposta alla massiccia campagna militare (Operazione Zarb-i-Azb) avviata dalle Forze Armate pakistane lo scorso giugno nell’Agenzia Tribale del Nord Waziristan (parte delle Federally Administrative Tribal Areas – FATA) contro l’insorgenza talebana, che trova rifugio proprio all’interno di questo impervio territorio al confine con l’Afghanistan.
L’attacco è tra i peggiori attentati terroristici della storia del Paese ed è solo l’ultimo episodio di un’escalation di violenza causata dall’attività dell’insorgenza contro obiettivi militari e civili. L’assalto al complesso scolastico, infatti, segue di poco più di un mese il grave attentato messo a segno dal TTP alla cerimonia di ammaina bandiera al confine tra Pakistan e India contro le Forze di guardia presenti alla frontiera, costato la vita a 60 persone.
Se tradizionalmente il Governo e le Forze Armate hanno sempre avuto posizioni diverse in merito alla gestione della minaccia talebana nel Paese, con il primo maggiormente favorevole al dialogo e il secondo più incline alla repressione militare, simili attacchi contribuiscono a far pendere l’ago della bilancia popolare verso la strategia dei militari e orientare anche il governo di Islamabad verso l’adozione di misure più incisive per cercare di arginare la deriva di sicurezza nel Paese. Un segnale in questa direzione sembrerebbe giungere dalla decisione, annunciata dal Primo Ministro Nawaz Sharif all’indomani della strage di Peshawar, di abolire la moratoria sulla pena di morte per i casi di terrorismo.
Russia
Lo scorso martedì sui mercati finanziari si è registrato un attacco speculativo senza precedenti nei confronti della Russia.
Già in fibrillazione a causa delle sanzioni occidentali, del crollo del prezzo del petrolio e dell’assertività del Cremlino riguardo la crisi ucraina i mercati finanziari non hanno accolto con favore la misura straordinaria decisa dal consiglio d’amministrazione di Bank of Russia, l’istituto di credito nazionale, che ha portato i tassi d’interesse dal 10,5 al 17%. L’effetto, opposto a quello auspicato, è stato quello di diffondere il panico sui mercati internazionali, che hanno reagito scatenando un crollo delle quotazioni del rublo e del listino azionario espresso in dollari americani.
Nel giro di poche ore il cambio rublo-dollaro ha toccato quota 100, facendo segnare il massimo storico degli ultimi anni, e la Borsa di Mosca ha registrato perdite pesanti, arrivando a cedere sino al 17%, la peggior perdita dal 1998.
La Banca Centrale, di concerto con il Governo, ha evitato un ulteriore peggioramento della crisi valutaria iniettando cospicue quantità di valuta pregiata nel mercato per riequilibrare il cambio rublo-dollaro e rublo-euro, riuscendo a rassicurare momentaneamente i mercati.
Anche i moderati toni del Presidente Vladimir Putin nel corso della tradizionale conferenza stampa pre-natalizia dello scorso 18 dicembre hanno avuto l’effetto di tranquillizzare momentaneamente i mercati, che tra mercoledì e giovedì hanno fatto rimbalzare il listino azionario moscovita e ridotto i tassi di cambio del rublo.
L’incognita più pesante che però permane nei confronti della stabilità economica e finanziaria del Paese è però per quanto le istituzioni di governo riusciranno a tamponare questa vera e propria emorragia di capitali e liquidità, dato che dall’inizio della crisi in Ucraina - e quindi dell’isolamento sui mercati finanziari della Russia - la Banca Centrale ha già dovuto bruciare più di 100 miliardi di dollari di riserve valutarie per stabilizzare la moneta nazionale e ricapitalizzare le banche, sempre più con l’acqua alla gola per effetto delle tensioni sui mercati.
Come evidenziato dallo stesso Presidente Putin, l’economia russa è troppo dipendente dall’esportazione di materie prime (oltre il 70% dell’export nazionale), connotandosi come un’economia di tratta (un sistema economico che esporta materie prime e importa prodotti finiti). La scarsa differenziazione del sistema economico post-sovietico è un vistoso tallone d’Achille per la Federazione, che è tra l’altro sprovvista di un polo tecnologico all’avanguardia e di un polo finanziario di rilevanza globale.
Di conseguenza, l’economia russa, pur godendo di asset rilevanti dal punto di vista delle risorse, ha importanti deficit strutturali, che se non saranno colmati rapidamente continueranno a rappresentare fattori di vulnerabilità politica per l’establishment al potere, come ha ampiamente dimostrato la recente storia del Paese, tanto nel 1990 quanto nel 1998.