Geopolitical Weekly n.136
Sommario: Egitto, Nigeria, Regno Unito – Russia, Tunisia.
Egitto
Il 25 gennaio, durante la giornata della commemorazione della Rivoluzione e dei Martiri di piazza Tahrir, sono stati numerosissimi i casi di violenze scoppiati in tutto il Paese. In diverse città del Paese, si sono susseguite numerose manifestazioni da parte dei movimenti di opposizione al regime militare, le quali sono state represse violentemente. Il bilancio degli scontri tra manifestanti e forze di polizia è stato di circa 50 morti, centinaia di feriti e oltre mille arresti. La repressione delle manifestazioni è avvenuta in ossequio alla legge del 24 novembre scorso, con la quale vengono interdette e vietate tutte le manifestazioni non autorizzate. Al di là delle ragioni di ordine pubblico, la legge del 24 novembre può essere considerata uno strumento del governo per inibire le manifestazioni di dissenso da parte delle formazioni di opposizione, con in testa la Fratellanza Musulmana.
Gli eventi di piazza Tahrir hanno ulteriormente testimoniato il clima di grande tensione che domina il Paese e che potrebbe favorire la diffusione e l’ascesa di movimenti radicali. Un esempio di questa tendenza è offerto dal gruppo terrorista islamico Ansar Bayt al Maqdis (ABM), responsabile di due attentati, il 14 gennaio e il 24 gennaio, a causa dei quali sono morte 13 persone. Il duplice attacco è stato giustificato come rappresaglia contro l’Esercito reo, a detta di ABM, di aver destituito illegittimamente l’ex Presidente Morsi.
Appare preoccupante come il governo egiziano, nel contrastare la Fratellanza Musulmana e le organizzazioni terroristiche, abbia adottato una legislazione che considera illegale, in ugual maniera, la militanza nelle formazioni in questione. In questo modo, la Fratellanza e ABM vengono, di fatto, considerate simili, pur non, in realtà, non essendolo.
La perdurante ciclicità delle violenze in Egitto e l’affacciarsi sulla scena politica di nuove formazioni estremiste, denotano come il colpo di Stato del luglio scorso da parte dell’Esercito abbia radicalizzato ulteriormente i toni e le manifestazioni del conflitto politico all’interno del Paese.
Nigeria
Da qualche giorno il partito di governo nigeriano, il People’s Democratic Party (PDP), è percorso da forti tensioni interne, che rischiano di minare anche la stabilità dell’esecutivo. Infatti, il 29 gennaio, 11 senatori avrebbero deciso di confluire nel maggiore partito di opposizione, l’All Progressive Congress (APC), anche se il Presidente del Senato, David Mark, ha reso noto di non aver ricevuto ancora nessuna comunicazione ufficiale in merito. Se ciò venisse confermato, il Presidente si troverebbe a fare i conti con una maggioranza parlamentare ulteriormente assottigliata, dopo le dimissioni di 37 deputati del PDP, rassegnate lo scorso anno, che hanno sensibilmente ridimensionato la supremazia del partito nella Camera Bassa del Paese.
La ragione di questa ondata di defezioni è il contrasto tra i senatori del PDP e Goodluck Jonathan, cristiano di etnia Igbo, leader del partito e Presidente della Nigeria, accusato di una politica discriminatoria nei confronti della popolazione musulmana e Hausa-Fulani. Inoltre, ad esasperare il conflitto interno al PDP è l’intenzione, da parte di Jonathan, di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali del 2015 come leader del partito. Si tratta di una mossa che potrebbe alterare la consuetudine politica del Paese, che da decenni prevede una tacita l’alternanza alla guida del PDP (e dunque del governo visto che il partito ha vinto ogni elezione presidenziale sin dalla fine della dittatura militare nel 1999) tra un esponente musulmano, generalmente di etnia Hausa-Fulani, e uno cristiano, solitamente di etnia Yoruba.
In questo momento, appare difficile che il Presidente Jonathan riesca a portare a compimento il progetto di ricandidatura e conseguimento di un nuovo mandato, soprattutto perché, negli ultimi anni, l’equilibrio politico e sociale tra le maggiori etnie e confessioni nigeriane è già stato messo a dura prova dalle attività di Boko Haram (“l’Educazione Occidentale è peccato”) e da una preoccupante crescita del radicalismo islamico nelle regioni settentrionali del Paese.
Regno Unito - Russia
Pochi giorni fa il Ministro della Cultura britannico, Maria Miller, ha reso nota l’erogazione di finanziamenti, da parte del suo Paese, per le associazioni di attivisti gay che operano in Russia.
Un gesto questo, che, a pochi giorni dall’apertura dei giochi olimpici di Sochi, assume un forte valore simbolico. Già molte voci si erano infatti levate contro l’opportunità di ospitare una manifestazione sportiva di tale importanza in un Paese, come la Russia, che lo scorso giugno ha approvato una legge che vieta ogni forma di propaganda omosessuale, a costo di pesanti multe. La decisione di Barack Obama di designare come portabandiera della delegazione statunitense l’ex tennista lesbica Billie Jean King, ha rapidamente trasformato l’avvenimento sportivo in occasione di confronto politico sul tema dei diritti umani.
Il finanziamento, con cui la Gran Bretagna ha voluto mostrare alla comunità internazionale il proprio impegno per i diritti umani sfruttando la vetrina delle Olimpiadi, va inoltre a sfidare la legislazione russa sulle ONG finanziate da governi stranieri, equiparate dal Cremlino a veri e propri “agenti” anti-establishment. Dato il divieto per i gruppi russi di attivisti di ricevere direttamente finanziamenti da altri Paesi, il supporto economico britannico dovrà passare per ONG di natura internazionale, come Stonewall, organizzazione molto attiva per i diritti dei gay.
Il Presidente Vladimir Putin, in questi mesi, ha cercato di smorzare il più possibile le polemiche sull’argomento, affermando che il suo Paese non condanna i comportamenti omosessuali, ma la propaganda di questi nei confronti dei minori e che a Sochi sarà predisposta un’area dove gli attivisti potranno svolgere le loro manifestazioni. Tentativi questi di offrire alla comunità internazionale l’immagine di una Russia tollerante pur nel rispetto del conservatorismo valoriale che ha caratterizzato il più recente corso politico della presidenza di Putin. La decisione del governo britannico, in ogni caso, rischia di inasprire ulteriormente i rapporti non certo idilliaci con Mosca, contribuendo a prolungare la freddezza dei rapporti diplomatici tra i due Paesi.
Tunisia
Il 26 gennaio, l’Assemblea Costituente tunisina ha adottato la nuova Costituzione. Dopo un lavoro andato avanti per più di due anni, questa è stata approvata con 200 voti su 216, superando ampiamente i 2/3 necessari.
Il testo attuale è stato sottoscritto nel suo complesso dopo la precedente approvazione dei singoli articoli. Questa fase intermedia è stata la più complessa, a causa delle forti divergenze tra gli islamisti moderati di Ennahda, detentori della maggioranza all’interno dell’Assemblea, e i secolaristi dall’altra, rappresentanti l’insieme dei partiti socialisti.
La Costituzione approvata è di stampo liberale e vede garantiti al proprio interno le libertà fondamentali, come la parità tra uomini e donne, la libertà di coscienza, il divieto dell’accusa di apostasia. Particolarmente interessante appare il generale riferimento all’identità islamica del Paese, prova evidente del compromesso tra le forze islamiste e quelle socialiste e laiche. Infatti, tra le intenzioni iniziali di Ennadha c’era quella di imporre la Sharia quale legge fondamentale dello Stato. Tuttavia, l’instabilità del Paese, le proteste sociali e la graduale perdita di consensi da parte del partito islamico moderato, hanno reso necessaria una soluzione di compromesso.
Anche se l’approvazione della Costituzione rappresenta un positivo segnale del dialogo tra le differenti forze politiche tunisine, la piena stabilità del Paese appare ancora lontana a causa del perdurante conflitto tra Ennadha e le formazioni laiche e socialiste, con in testa l’Unione Generale dei Lavoratori Tunisini, il potente sindacato che, ad oggi, costituisce uno dei principali avversari del partito di governo.