Geopolitical Weekly n.124
Afghanistan
Domenica 6 ottobre, in Afghanistan, si è conclusa la registrazione dei candidati alle prossime elezioni del 5 aprile. L’elenco definitivo, che raccoglie 27 candidati in lizza per le presidenziali, esclude la partecipazione dell’attuale presidente Hamid Karzai, per raggiungimento dei limiti costituzionali. Di fronte a questa moltitudine di candidature però, il cerchio sul possibile designato si stringe intorno a un numero più limitato di personalità, fra cui Abdul Rahim Wardak (pashtun) ex Ministro della Difesa sino al 2012, Zalmay Rassoul (pashtun) attuale Ministro degli Esteri, Abdul Rasul Sayyaf (pashtun) controverso signore della guerra dell’Alleanza del Nord, Abdullah Abdullah (tagiko) ex Ministro degli Esteri nel primo governo ad interim di Karzai, Ashraf Ghani (pashtun) già Ministro delle Finanze e direttore della commissione sulla transizione e infine il fratello del presidente, Qayum Karzai (pashtun). A prescindere dal difficile contesto di sicurezza in cui le elezioni avranno luogo e che certamente avrà un impatto sul processo elettorale, una prima considerazione positiva è il fatto che ciascun candidato si sia presentato con due vice-presidenti scelti fra esponenti degli altri gruppi etnici principali, un raro segno di distensione in un Paese dove i rapporti fra i vari gruppi sono tradizionalmente tesi. La tenuta di elezioni ragionevolmente libere e prive di irregolarità è un’importante tappa non solo per l’Afghanistan, ma anche per la Comunità Internazionale, che, proprio nel 2014, si appresta a ultimare il ritiro dei contingenti ISAF, dopo 13 anni di operazioni nel Paese.
Egitto
Lo scorso 6 ottobre, in occasione delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario del conflitto arabo-israeliano, nuovi scontri tra le Forze di polizia e i sostenitori della Fratellanza Musulmana hanno causato la morte di 50 persone, al Cairo e a sud della capitale. Nonostante il ministro dell’Interno, Mohammed Ibrahim, avesse dichiarato che le Forze di Sicurezza sarebbero intervenute per scongiurare qualsiasi forma di disturbo alle celebrazioni, i leader dell’Alleanza Anti-Golpe nei giorni scorsi avevano annunciato nuove manifestazioni di piazza per protestare contro la destituzione dalla presidenza di Mohammed Morsi da parte dell’Esercito egiziano. L’ex Presidente, da allora detenuto insieme a circa 14 esponenti della Fratellanza Musulmana, il prossimo novembre verrà sottoposto a processo con l’accusa di incitamento alla violenza per gli scontri successivi al referendum costituzionale del dicembre 2012.
Il perdurare della crisi in Egitto ha portato gli Stati Uniti a rivedere il piano di aiuti destinati al nuovo governo ad interim: oltre al taglio dei prestiti e dei trasferimenti finanziari, per un totale di 590 milioni di dollari, Washington ha annunciato la sospensione delle forniture militari, tra cui elicotteri Apache, caccia F16, missili Harpoon e componenti per la realizzazione di carri armati M1/A1. Nonostante il Segretario di Stato, John Kerry, abbia rassicurato il Cairo dell’intenzione di proseguire la cooperazione per la messa in sicurezza dei territori di confine, il ridimensionamento degli aiuti militari potrebbe compromettere la capacità delle Forze Armate di rispondere con efficacia in un momento di forte destabilizzazione per il Paese. Sono ripresi in questa settimana gli attacchi di militanti nella Penisola del Sinai contro Esercito e Forze di polizia: una serie di attacchi tra la città di Ismailiya, sul canale di Suez, di al-Tur e di al-Arish, rispettivamente nel sud e nel nord della penisola, hanno causato la morte una decina di soldati. In questa fase di transizione le Forze Armate, da sempre deus ex machina per l’equilibrio politico interno, sembrano trovare parecchie difficoltà nel ripristinare le condizioni di sicurezza in Egitto. Resta però da valutare quale sarà il ruolo che l’Esercito avrà all’interno del futuro assetto istituzionale: il Generale Abdel Fattah al-Sisi, nei giorni scorsi, non ha escluso una sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali previste per il 2014.
Libia
Gli ultimi giorni sono stati segnati dalle conseguenze del raid con cui, sabato 5 ottobre, un team delle Forze Speciali statunitensi ha arrestato a Tripoli Abu Anas al-Libi, ritenuto da Washington tra i responsabili degli attacchi del 1998 alle ambasciate USA in Kenya e Tanzania. Abu Anas è stato fermato da un gruppo di 8-9 uomini armati e a viso coperto mentre viaggiava a bordo di un’ auto assieme a suo figlio nella zona orientale della capitale libica, area roccaforte di più gruppi di matrice islamista. Secondo la testimonianza del figlio di Abu Anas, all’interno del gruppo vi sarebbero stati almeno due libici, cosa che lascia presupporre il coinvolgimento di gruppi locali nel raid statunitense.
L’operazione, seguita dall’interrogatorio di Abu Anas a bordo della USS San Antonio nelle acque del Mediterraneo, ha suscitato inevitabilmente fortissimi strali polemici in Libia. Provocati, in particolare, dalla notizia – diffusa da Washington – secondo cui il governo di Tripoli avrebbe saputo in anticipo del raid e ne avrebbe dunque consentito l’attuazione. Le tensioni sono culminate nel sequestro, per alcune ore, del Premier Ali Zeidan nella giornata di giovedì 10 ottobre. Il capo del governo è stato prelevato dalla sua stanza all’Hotel Corinthia, a Tripoli, da un gruppo di circa 150 uomini armati parte del Libya Revolutionaries Operations Room (LROR), milizia preposta alla protezione della capitale e alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Zeidan sarebbe stato liberato poche ore dopo grazie all’intervento di altre miliziani locali. L’episodio ha comunque confermato, ancora una volta, il grave vuoto di sicurezza che affligge il Paese e la capacità delle milizie islamiste – spesso rispondenti a obiettivi e agende diverse - di minacciare e influenzare le fragili istituzioni democratiche realizzate dopo la caduta del regime di Gheddafi.
Somalia
Il 5 ottobre un commando appartenente al Team 6 dei Navy Seals, Forze Speciali della Marina statunitense, ha effettuato un raid presso Barawe, città costiera nel sud della Somalia tra i principali avamposti di al-Shabaab, organizzazione terroristica locale affiliata ad al-Qaeda. L’obbiettivo dell’operazione era la cattura di Abdulkadir Mohamed Abdulkadir “Ikrima”, miliziano somalo di passaporto keniota responsabile del coordinamento tra al-Shabaab e la sua costola keniota al-Hajira, gruppo responsabile dell’attacco al Westgate Mall di Nairobi del 21 settembre scorso. Sfortunatamente, il raid dei Navy Seals è fallito, sia a causa dell’imprecisione delle informazioni sulla posizione dell’obbiettivo sia per la resistenza offerta dai miliziani somali, abili nel creare confusione chiamando a raccolta la popolazione civile. La caduta dell’effetto sorpresa e la presenza di molte donne e bambini ha spinto il commando dei Navy Seals ad interrompere lo scontro a fuoco e a ritirarsi, senza subire perdite. Infatti, lo scopo del raid era la cattura di “Ikrima” e non la sua uccisione. L’operazione del commando statunitense, avvenuta a poche ore di distanza dalla cattura, in Libia, del noto terrorista Abu Anas al-Libi, rappresenta la risposta del governo di Washington all’aumento delle attività di al-Qaeda e dei movimenti ad essa affiliati nel continente africano, con particolare riferimento all’attacco al Westgate Mall di Nairobi. Tuttavia, la Somalia si conferma essere un terreno molto difficile sul quale operare e al-Shabaab un gruppo ben organizzato e difficile da contrastare. Infatti, occorre ricordare come, a gennaio di quest’anno, un commando di forze speciali francesi aveva fallito il tentativo di liberazione di due ostaggi detenuti a Bulo Marer, cittadina poco distante da Barawe.