ATLAS: Hong Kong, Mali, Yemen
Hong Kong: le prime informazioni sulla nuova legge di sicurezza nazionale
Il 20 giugno il Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo Cinese si è riunito per discutere la nuova legge sulla sicurezza di Hong Kong, che dovrebbe essere approvata tra la fine di giugno e l’inizio di luglio.
La bozza rilasciata dalle autorità cinesi sembra orientata ad un rafforzamento del ruolo di Pechino all’interno della città: nonostante l’implementazione spetti alle autorità di Hong Kong, verrà aperto un ufficio cinese per la sicurezza nazionale, verrà nominato un consigliere del governatore di Hong Kong per l’attuazione della legge ed è previsto l’intervento diretto di Pechino in alcuni casi straordinari, non ancora meglio definiti, ma probabilmente legati agli ambiti che la legge mira ad attaccare: separatismo, sovversione, terrorismo e collusione con attori esterni. A questo si somma il fatto che la legge potrebbe essere retroattiva, ossia applicabile anche agli arresti delle ultime manifestazioni. Sarebbe prevista, peraltro, la nomina governativa dei giudici responsabili per i casi relativi alla sicurezza nazionale e un controllo più stretto della sicurezza all’interno degli istituti scolastici e universitari.
L’allungamento della mano cinese nell’ambito scolastico ed universitario potrebbe agire da scintilla per lo scoppio di nuove grandi proteste nella città. Infatti, non solo gli studenti sono un’importante spina dorsale delle proteste che hanno animato le strade di Hong Kong negli ultimi anni, ma soprattutto gli ambienti scolastici sono da sempre i vivai per la trasformazione delle istanze e delle forme di espressione delle componenti pro-democratiche.
Il rilascio della legge potrebbe avere ripercussioni anche in ambito internazionale e, in particolar modo, nel dialogo tra Pechino e quegli attori internazionali che fino ad ora hanno espresso la propria contrarietà alle prese di posizioni da parte della Cina sulla Regione Autonoma, in primis l’Unione Europea. Una prima conferma in questa direzione è giunta in occasione del EU-China Dialogue, tenutosi il 22 giugno, a margine della quale la Presidente della Commissione Europa, Ursula von der Leyen, ha ribadito l’irremovibilità di Bruxelles per la tutela del sistema “Un Paese, due sistemi”.
Mali: una nuova ondata di proteste investe la capitale
Il 19 giugno, un’ondata di proteste ha nuovamente investito le strade della capitale Bamako, replicando quanto avvenuto il 5 giugno precedente. All’origine di entrambe le manifestazioni di piazza c’è la richiesta popolare di dimissioni del Presidente Ibrahim Boubacar Keita, accusato di malgoverno, corruzione e incapacità nel ripristinare la sicurezza del Paese, compromessa dall’insurrezione della minoranza Tuareg scoppiata nel 2012 e dalla crescita del terrorismo jihadista.
Il cosiddetto ‘Movimento del 5 giugno’, che ha riunito migliaia di maliani, è il prodotto dell’appello lanciato dall’opposizione, tra i cui quadri spicca l’imam Mahmoud Dicko, leader religioso e personalità politica di lungo corso. Inizialmente sostenitore di Keita, Dicko ha gradualmente preso le distanze dall’attuale Presidente, fino ad arrivare a guidare l’opposizione. In contrasto con l’inabilità di Keita nel negoziare con le minoranze etniche ribelli, fra i punti chiave della retorica di Dicko c’è il rafforzamento del dialogo con i gruppi armati, inclusi i movimenti jihadisti.
Il Mali continua ad essere lacerato dal conflitto interno, combattuto prevalentemente nelle regioni settentrionali, che coinvolge una schiera di gruppi affiliati ad al-Qaeda e Daesh, oltre a milizie etniche filo-governative. Il perdurare dell’instabilità ha contribuito a peggiorare i fattori di emergenza umanitaria preesistenti. Come se non bastasse, le misure di lockdown attuate da governo per frenare il diffondersi dell’epidemia di covid-19 hanno sensibilmente danneggiato il settore agricolo, impoverendo ulteriormente migliaia di lavoratori del settore. La combinazione di emergenza securitaria, economica, sociale e politica ha determinato la crescita della rabbia popolare e ha dato impulso alle proteste.
Nonostante gli sforzi e le concessioni di Keita per placare le tensioni, tra cui l’impegno a formare un nuovo governo di unità nazionale che includa figure dell’opposizione, il Movimento 5 giugno appare contrario a qualsiasi compromesso.
Yemen: nuovi missili su Riyadh allontanano la ripresa dei negoziati
Lo scorso 23 giugno, le milizie yemenite Houthi hanno lanciato un nuovo attacco contro l’Arabia Saudita, sconfessando l’apertura a riavviare i negoziati di pace avanzata soltanto 10 giorni prima. L’attacco è stato condotto con droni esplosivi e un ampio numero di missili balistici. I bersagli non sono stati soltanto alcune città saudite situate presso il confine yemenita, Jazan e Najran, ma la stessa capitale Riyadh. Benché non sia la prima volta nel corso del conflitto civile in Yemen che gli Houthi colpiscono la capitale del Regno saudita, in questa occasione hanno scelto obiettivi di alto valore simbolico: il Ministero della Difesa e dell’Intelligence e la base militare Re Salman, tra le più importanti del Paese.
La ragione di questa nuova escalation va rintracciata nell’evoluzione dei difficili rapporti interni alla coalizione che si oppone agli Houthi. Infatti, questi ultimi hanno attaccato il giorno dopo gli annunci da parte del governo del Presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, riconosciuto dalla Comunità Internazionale come legittimo e appoggiato dai sauditi, di aver finalmente siglato un cessate il fuoco con il Consiglio di Transizione del Sud (CTS), movimento separatista supportato dagli Emirati Arabi Uniti (EAU). Benché Riyadh e Abu Dhabi siano alleate e abbiano guidato congiuntamente l’intervento contro gli Houthi a partire dal 2015, le crescenti tensioni tra i rispettivi proxy yemeniti hanno progressivamente indebolito l’azione militare. Fin dall’estate 2019, le forze di Hadi e del CTS sono arrivate più volte a scontrarsi direttamente, in alcuni casi con il coinvolgimento dei rispettivi sponsor esterni. A fine aprile, il CTS è arrivato addirittura a dichiarare l’auto-governo, disconoscendo formalmente Hadi. L’annuncio del cessate il fuoco, dunque, sembra chiudere questa lunga fase conflittuale e preludere a un rimpasto di governo, con l’ingresso di esponenti del Sud a fianco delle forze fedeli a Hadi. Ovviamente, l’eventuale riappacificazione permetterebbe alle diverse anime della coalizione anti-Houthi di tornare a coordinarsi anche sul piano della diplomazia, impedendo agli Houthi di sfruttare le loro divergenze per strappare condizioni più vantaggiose.