Arabia Saudita e Cina: visioni geo-economiche complementari
La tappa cinese del tour asiatico del re dell’Arabia Saudita (15-17 marzo 2017) conferma che Vision 2030 (2016) e The Belt and The Road (Bri, 2013), rispettivamente la strategia e l’iniziativa economica elaborate da Riyadh e Pechino, sono disegni involontariamente complementari. Pertanto, la cooperazione sino-saudita, già una realtà, è destinata ad aumentare e a consolidarsi nel medio-lungo periodo. Inoltre, la crescente interdipendenza economico-commerciale tra i due Paesi favorisce l’individuazione di interessi di sicurezza convergenti.
Lo scopo del Piano di Trasformazione Nazionale (NTP) e di Vision 2030 è diversificare l’economia saudita: accrescere le rendite non dipendenti dagli idrocarburi affinché il rentier state sia sostenibile a lungo termine. Riyadh continua ad aumentare le spese per la difesa (pari al 10% del PIL nel 2015), ma deve affrontare la discesa del prezzo del petrolio, con conseguente contrazione degli introiti statali, l’espansione demografica nonché i costi militari della guerra in Yemen. Pertanto, gli obiettivi del NTP (riduzione della spesa pubblica, tagli ai sussidi e creazione di nuovi posti di lavoro nel settore privato), sono realizzabili solo attraverso massicci investimenti diretti esteri e miglioramento del know how locale.
The Belt and The Road, l’iniziativa di accesso dei prodotti cinesi ai mercati occidentali, ha il suo pivot nel Golfo. Infatti, è attraverso il Golfo che la rotta marittima asiatica si congiunge a quella europea: il regno wahhabita, soprattutto la sua costa occidentale lambita dal mar Rosso, diviene allora un hub naturale per BRI, poiché crocevia tra Asia, Europa e Africa. Da questa prospettiva, è facile contestualizzare i cospicui investimenti di Pechino per la riconversione industriale e lo sviluppo della città saudita di Yanbu, futuro centro dell’innovazione tecnologica (vedi l’accordo con Huawei siglato nel marzo 2017), nonché polo logistico per il settore petrolchimico e minerario. Protesa sulla costa occidentale dell’Arabia, Yanbu è un avamposto per l’Africa continentale e insieme vicina alla capitale commerciale del regno, Jedda. Infatti, la “geopolitica dei porti” è parte dell’iniziativa cinese: è il caso degli investimenti di Pechino per lo sviluppo del porto di Gwadar in Pakistan (distretto di Makran, Baluchistan). Attraverso la geopolitica dei porti si giocano anche altre due partite per l’influenza regionale, che hanno il loro fulcro nel Golfo e incrociano quindi gli interessi cinesi: la rivalità egemonica, anche marittimo-commerciale, tra Arabia Saudita e Iran, nonché la competizione fra Cina e India. La Cina ha inoltre finanziato, con un prestito di 300 milioni di dollari, l’espansione del porto omanita di Al-Duqm, proteso sull’Oceano Indiano.
Il successo di Vision 2030 e di BRI, nonché la loro efficace sinergia, necessita però di stabilità regionale. Quindi, crescono gli interessi di sicurezza convergenti fra Arabia Saudita e Cina. Infatti, The Belt and The Road tratteggia due rotte verso l’Europa: una terrestre, settentrionale, che attraversa l’Asia centrale, meridionale (con un focus su Af-Pak) e i Balcani, e una marittima, meridionale, che risale dall’Oceano Indiano fino al mar Rosso. Quest’ultima non può che passare da due choke-points che circondano la penisola Arabica: lo stretto del Bab el-Mandeb e il canale di Suez. Nella penisola egiziana del Sinai, la saldatura tra le formazioni jihadiste locali, di matrice tribale e beduina, e il network di Daesh è avvenuta da tempo. Soprattutto, le minacce alla libertà di navigazione lungo lo stretto del Bab el-Mandeb sono in forte aumento, dato il conflitto in Yemen (attacchi missilistici e con imbarcazioni-drone, mine sottomarine): più di tre milioni di barili di greggio attraversano ogni giorno questo stretto.
Nel regional security complex di Aden, i rischi alla sicurezza marittima provengono attualmente dagli insorti sciiti yemeniti, ovvero l’alleanza tra gli Houthi e la fazione dell’ex presidente Saleh: quattro navi da guerra (due statunitensi, un’emiratina e una saudita) sono già state attaccate negli ultimi sette mesi, moltiplicando le incognite anche per la navigazione commerciale. Inoltre, la pirateria -fenomeno ridottosi grazie a numerose missioni internazionali e nazionali- torna ad affacciarsi al largo delle coste della Somalia. Nel 2017, due navi commerciali (un’emiratina e un’indiana) sono state dirottate da pirati: non accadeva dal 2012. Dall’inizio dell’anno, il numero confermato degli attacchi, compresi quelli sventati, è già salito a cinque: il 16 aprile scorso, proprio una fregata cinese ha impedito ai pirati somali di assaltare una petroliera degli Emirati Arabi Uniti in transito nel golfo di Aden. Sia la Cina che l’Arabia Saudita hanno deciso l’apertura delle loro prime basi militari estere proprio a Gibuti, nel cuore di quest’area di instabilità dalle possibili ricadute internazionali. Dunque, lo sviluppo di blue-water capabilities da parte della Marina cinese, così come gli investimenti economici e militari dei sauditi nel Corno d’Africa, rientrano in un’ottica di sicurezza non solo marittimo-commerciale, ma nazionale al contempo.
Tra il 26 febbraio e il 18 marzo scorsi, il sovrano dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz al-Sa‘ud, ha compiuto un lungo e inusuale viaggio in Asia, con tappe in Malesia, Brunei, Indonesia, Giappone e Cina. Tale agenda estera, che vuole anche frenare le costanti voci sulla salute del sovrano, è già di per sé un evento: dal gennaio 2015, data della sua ascesa al trono, re Salman ha compiuto un solo viaggio al di fuori del Medio Oriente (Washington, settembre 2015). Significative le tappe in Indonesia (l’unico precedente è quello di re Faysal nel 1970) e in Giappone, la prima volta in assoluto per un monarca saudita. Re Salman ha incontrato il presidente cinese per la seconda volta in un anno: nel gennaio 2015, Xi Jinping aveva già visitato Riyadh.
Gli obiettivi interrelati del tour del re dell’Arabia Saudita in Asia sono stati tre: relazioni economiche e commerciali, politica estera e di difesa, diplomazia culturale e religiosa. Dal punto di vista economico, il Piano di Trasformazione Nazionale e Vision 2030, i pilastri della strategia post-oil del regno wahhabita, richiedono forti investimenti stranieri. Da una prospettiva di politica estera, l’Arabia Saudita prosegue la strada della differenziazione delle alleanze internazionali, già intrapresa durante il secondo mandato della presidenza Obama. Infatti, l’accordo sul nucleare iraniano e il mancato intervento militare Usa contro il regime di Bashar al-Assad in Siria avevano rafforzato la percezione dei sauditi in merito al progressivo disimpegno degli statunitensi dalla sicurezza del monarchie del Golfo. Al momento, l’amministrazione Trump non ha ancora espresso una politica mediorientale coerente, anche se l’irrigidimento nei confronti dell’Iran lascia presagire una maggiore sintonia, rispetto al recente passato, tra Riyadh e Washington. Comunque, la Cina rappresenta per i sauditi un partner in più per l’approvvigionamento militare, non certo un fornitore esterno di sicurezza alternativo agli statunitensi. Il viaggio di re Salman in Asia è stato poi una grande vetrina mediatica per l’Arabia Saudita, sede dei luoghi santi dell’Islam (Mecca e Medina), desiderosa di riaffermare il suo primato nella comunità islamica, specie in Malesia e Indonesia. Tra l’altro, il rafforzamento del turismo religioso (aumento dei pellegrinaggi annuali hajj e umrah) rientra tra gli obiettivi del NTP.
Molti i contratti firmati durante il viaggio asiatico di re Salman. In Malesia, Saudi Aramco e l’omologa locale Petronas hanno stretto un accordo da 7 miliardi di dollari per lo sviluppo del complesso petrolifero malese di Jobar; in Indonesia, Saudi Aramco e Pertamina hanno invece siglato un patto da 6 miliardi di dollari. Oltre alla cooperazione in tema di desalinizzazione dell’acqua, Giappone e Arabia Saudita esploreranno la possibile creazione di una zona economica speciale nel regno per attrarre investimenti da Tokyo (si parla già della Toyota), nell’alveo della “Saudi-Japan Vision 2030”. A Pechino, re Salman e Xi Jinping hanno firmato accordi per un totale di 65 miliardi di dollari, finalizzando i memorandum d’intesa già siglati, nell’agosto 2016, in occasione della visita di Mohammed bin Salman (vice principe ereditario e Ministro della Difesa) in Cina. Non è casuale che il 31enne figlio del Re saudita sia anche il regista e il volto mediatico di Vision 2030.
Le partnership firmate riguardano investimenti industriali e infrastrutture, la cooperazione spaziale, progetti energetici nonché di potenziamento del settore nucleare saudita per usi civili. Interessante l’accordo per la costruzione di una fabbrica di droni in Arabia Saudita: sarà la prima in Medio Oriente, grazie alla collaborazione fra la King Abdulaziz City for Science and Technology (KACST) e la China Aerospace Science and Technology Corporation (CASC). I sauditi stanno accelerando lo sviluppo dell’industria locale della difesa, come strumento di diversificazione economica ma non solo: in prospettiva, c’è la crescente centralità del fattore militare nella politica regionale di Riyadh. Re Salman e Xi Jinping hanno anche discusso dell’attesa quotazione in borsa, nel 2018, del 5% di Saudi Aramco, che avverrebbe alla borsa di Hong Kong e nella quale la Cina investirebbe in maniera significativa.
Oggi più che mai, la cooperazione sino-saudita è possibile proprio perché le visioni economiche dei due Paesi sono fondamentalmente complementari: il regno wahhabita ha subito aderito alla Asian Investment Infrastructure Bank (AIIB). Arabia Saudita e Cina hanno già strutture economiche speculari, in cui domanda e offerta si incrociano: Pechino è per i sauditi un grande mercato per l’export petrolifero, così come Riyadh è per i cinesi un’imprescindibile fonte di approvvigionamento energetico. L’Arabia Saudita è il primo Paese esportatore di petrolio in Cina (1,02 milioni di barili di petrolio al giorno, superata nel 2016 dalla Russia con 1, 05 milioni). Su queste premesse, la compresenza di Vision 2030 e di The Belt and The Road moltiplica le opportunità di cooperazione: il regno saudita si rivolge a Est in cerca di investitori, mentre il gigante cinese intende consolidare le rotte commerciali che furono della Via della Seta e aprire nuove vie marittime.
Tuttavia, la partnership geo-economica fra Riyadh e Pechino deve confrontarsi con l’acuta instabilità del quadrante mediorientale. In tale contesto, la Cina ha davanti a sé un sentiero sempre più stretto: in Siria e in Yemen, conflitti proteiformi spingono la diplomazia cinese ai limiti del “coinvolgimento creativo”, pur nel rispetto della tradizionale politica di non-interferenza. Il Golfo è pertanto un impegnativo banco di prova per l’equilibrismo geopolitico cinese: il gigante asiatico intende ribadire la consueta equidistanza tra le capitali rivali, Riyadh e Teheran, ma ciò diviene sempre più faticoso. Pertanto, la Cina non può che auspicare una de-escalation nei rapporti tra le due sponde del Golfo: perché la Belt and Road Initiative deve passare anche da lì.