American swarms: lo sviluppo americano di sciami di droni ad uso militare
Difesa e Sicurezza

American swarms: lo sviluppo americano di sciami di droni ad uso militare

Di Davide Emanuele Iannace
25.03.2021

Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno impegnato ingenti risorse per lo sviluppo e la produzione di nuove tipologie di aeromobili a pilotaggio remoto (Unmanned Aerial Systems – UAS). Dopo due decenni in cui i droni di tipo MALE (Medium-Altitude, Long Endurance) tra cui i celebri MQ-9 Reaper e RQ-1 Predator, e HALE (High Altitude, Long Endurance) come l’RQ-4 Global Hawk, hanno dominato la scena, oggi una buona parte delle attività di R&D si concentra su aeromobili di taglia decisamente più piccola. Proprio in questa ottica, nel 2016, l’aeronautica americana ha prodotto il documento “Small Unmanned Aircraft Systems (SUAS) Flight Plan: 2016-2036”. Nonostante gli anni trascorsi dalla sua pubblica diffusione, questo report rimane ancora oggi una fonte privilegiata per comprendere il punto di vista dell’US Air Force sul futuro utilizzo dei droni di piccola e piccolissima dimensione all’interno di un contesto geopolitico, ma soprattutto tecnologico, in rapida evoluzione. Il Flight Plan offre inoltre una chiara e sistematica introduzione al tema dei drone swarms, che sta guadagnando una sempre maggiore attenzione, a fronte delle sue implicazioni sul piano operativo e dottrinale.

Si definiscono SUAS (Small Unmanned Aerial Systems) tutti quei droni con un peso inferiore ai 600 kilogrammi. Le mansioni a cui tali piattaforme sono destinate attualmente spaziano da operazioni di ricognizione fino alla possibilità di essere usati come proiettili guidati o munizioni circuitanti (Loitering Munitions). All’interno del mondo SUAS, un ruolo particolare è giocato dai mini e micro-droni, strumenti molto piccoli, capaci di adagiarsi sul palmo della mano di un soldato. Queste piattaforme vengono impiegate per svolgere operazioni di ricognizione a corto raggio direttamente sotto la guida della squadra operante sul campo. L’esempio più recente di micro-drone utilizzato dalle forze armate americane è il piccolissimo Black Hornet, prodotto dalla FLIR System, che nel 2020 ha sottoscritto un contratto da 20 milioni di dollari per fornire la terza versione dello stesso allo US Army. Pesante 33 grammi, lungo circa 100 millimetri, silenzioso, ha il compito di trasmettere immagini ad alta definizione alle squadre di fanteria, garantendo ricognizione di tipo BLOS (Beyond line of Sight) e migliorando la capacità di situational awereness delle squadre a cui è assegnato. Sviluppato nel 2008, ha cominciato la sua diffusione nel 2012 tra le forze inglesi impiegate in Afghanistan e poi tra le forze armate americane nel 2014. Da allora è rimasto saldamente il micro-drone da ricognizione di riferimento per le Forze NATO. Sebbene attualmente le mansioni che possono svolgere con efficacia ed efficienza i micro-droni come il Black Hornet siano relativamente limitate, i progressi tecnologici in materia di miniaturizzazione dei sensori e degli abilitanti potrebbero presto rendere tali piattaforme in grado di svolgere, in autonomia o in gruppi, mansioni complesse, che spaziano dall’ISR alla guerra elettronica, dalle comunicazioni all’attacco cinetico.

La versatilità e le caratteristiche strutturali dei SUAS hanno fatto sì che diversi attori militari, in primis l’Aeronautica americana, negli ultimi anni iniziassero a pensare come farli operare non più come singole piattaforme, ma in gruppi, chiamati sciami. Nel sopracitato Flight Plan, l’US Air Force definisce sciame l’utilizzo di due o più piattaforme autonome interconnesse tra di loro in cui è presente un operatore on or in the loop, il cui scopo è raggiungere in sincronia un unico obiettivo finale. Ciò presuppone che i singoli droni operanti all’interno di un drone swarm presenti un discreto grado di autonomia, che gli consenta di interagire con gli altri componenti del gruppo in tempo reale e di reagire ai repentini cambi nel loro rispettivo comportamento. Nonostante tale livello di autonomia, raggiunto grazie all’utilizzo di software e algoritmi basati sull’Intelligenza Artificiale (AI), sia considerevole, ad oggi i drone swarms nella loro interezza non sono concettualizzati come armi autonome (autonomous weapons), dal momento che l’operatore ne mantiene il controllo generale e si pone on the loop, e non out of the loop.

Una seconda definizione di swarm, fornita da Zachary Kallenborn, consulente dell’Esercito americano e ricercatore in materia di UAV, lo differenzia dall’attacco en masse di diverse piattaforme interconnesse. Il drone swarm è un sistema logico, neurale, di sistemi collegati tra di loro, vicini o a miglia di distanza, uniti nell’obiettivo di svolgere una singola operazione. Lo sciame, secondo Kallenborn, è reattivo, ha la capacità di adattarsi a diversi scenari e all’evoluzione in tempo reale dell’ambiente operativo.

Attualmente si registra grande interesse da parte americana nello sviluppo di tattiche di swarming da applicare ai droni di piccole dimensioni. Tra gli scenari in cui si prevede una grande utilità dell’utilizzo di sciami di droni di taglia medio-piccola rientra certamente il contrasto alle capacità A2/AD avversarie, uno dei temi scottanti dell’attuale dibattito sulla sicurezza internazionale. Uno sciame che impiega un cospicuo numero di piccoli droni, infatti, può penetrare all’interno di una bolla A2/AD, eludendo i sistemi radar, creando falsi bersagli, sovraccaricando e saturando le difese aeree e andando a colpire cineticamente, o con un attacco di guerra elettronica, il cuore dell’architettura A2/AD. Tutto ciò senza esporre a rischi concreti risorse umane e tecnologiche particolarmente sofisticate e costose come gli aerei da caccia e i loro piloti qualificati. Questa tecnologia, rispetto agli aeromobili convenzionali, consente di rispondere più rapidamente agli output esterni. Essendo collegate tra di loro, come neuroni di uno stesso cervello, la capacità di reazione dei singoli droni all’interno dello swarm è infatti maggiore rispetto ad un gruppo di piattaforme, manned o unmanned, dipendenti dal comando e controllo interamente umano. Tuttavia, trattandosi di una tecnologia per certi versi ancora sperimentale, le sue applicazioni nei diversi teatri operativi sono svariate e in crescita. Uno sciame composto da piattaforme eterogenee, per dimensioni e tipologia di impiego, può svolgere un attacco complesso e coordinato su più domini, che vada a soddisfare l’intero ciclo dell’azione militare, dalla ricognizione alla neutralizzazione della minaccia.

Attualmente sono diversi i progetti di ricerca americani, condotti da enti di varia natura, per lo sviluppo delle tecnologie necessaria agli sciami di droni. Il primo è Perdix. Sviluppato in collaborazione con il MIT, lanciato dall’Ufficio acquisizioni del Dipartimento della Difesa, finalità di tale programma è quella di sviluppare prima di tutto un modello di drone capace di funzionare efficacemente all’interno di uno sciame, rispondendo allo stesso tempo alla necessità di avere costi e dimensioni contenuti. Il drone Perdix pesa meno di una libbra, consta di quattro rotori ed è stato costruito affinché resista a stress molto elevati, capacità messa in luce durante un esperimento condotto già nell’ottobre del 2016, quando oltre un centinaio di droni Perdix furono lanciati da un F/A-18 in volo. Il progetto Perdix è iniziato come un progetto civile, al MIT, come esperimento sulla possibilità di costruire piccoli droni stampabili in 3D grazie a poche, efficaci, istruzioni. La loro semplicità costruttiva e le loro dimensioni contenute hanno offerto un ideale campo di prova all’applicazione delle swarming technologies, la possibilità di studiare tutte le fasi di lancio e dispiegamento e poi di comportamento di gruppo dello sciame stesso.

Lo studio e analisi delle caratteristiche informatiche, di comunicazione e cooperazione tra i membri dello sciame è stato al centro anche dei primi test del programma LOCUST (_Low Cost UAV Swarming Technologie_s), lanciato dalla Marina americana per introdurre dei droni-sciame che potessero essere lanciati come supporto alle proprie piattaforme navali. In questo caso, Raytheon, che si è aggiudicata il contratto, ha dispiegato il suo drone Coyote. Capace di essere lanciato come un missile da una nave o da piattaforme ruotata come gli MRAP, il Coyote è stato adattato per il volo in singolo o in sciame ed è stato, soprattutto, migliorato per affinare le sue capacità di contrasto agli altri droni (C-UAS). In combinazione con i radar KRFS sempre di Raytheon, sviluppati per il rilevamento di droni di medie e piccole dimensioni, questa combinazione drone-radar sta venendo approfondita come possibile prima contromisura contro altri sciami. Una volta rilevata la minaccia, i Coyote possono essere lanciati dal sistema di difesa in maniera autonoma e inviati contro lo sciame avversario. La capacità del drone di reagire, muoversi e colpire in maniera molto più veloce quando autonomo, rispetto quando sottoposto al controllo umano, è uno dei punti che stanno spingendo più la ricerca attuale nella direzione degli swarm.

Sempre in questa direzione si muove anche OFFSET (OFFensive Swarm-Enabled Tactics_)_, il programma DARPA che, in collaborazione con ricercatori indipendenti e diversi enti esterni di ricerca, mira a studiare in maniera approfondita le capacità dei piccoli droni di svolgere missioni in sciame più o meno complesse in ambienti particolarmente poco permissivi come quelli urbani. OFFSET si concentra non solo sullo sviluppo di algoritmi dedicati e il design di tattiche di sciame da utilizzare con droni di tipo UAV (volanti) o UGV (di terra), ma anche sulla creazione di nuovi modi approcciare la comunicazione tra l’operatore e lo sciame, come la realtà virtuale, e nuovi tipi di simulazione attraverso cui testare i diversi sciami. L’ultimo esperimento pratico di OFFSET si è svolto nel settembre 2020 e ha visto dispiegati le squadre di Northrop Grumman Mission Systems e Raytheon BBN Technologies nel testare, all’interno di un ambiente urbano, gli sciami e i playbook proposti dalle due compagnie. Il progetto OFFSET non mira di per sé a creare nuove piattaforme, ma piuttosto studiare come gli sciami si comportino, come è possibile introdurre nuovi schemi di comportamento e come i comandanti umani possano interfacciarsi con i propri sciami e adattare il loro uso ai più diversi contesti. Tra gli esperimenti condotti all’interno del programma OFFSET, vi è anche l’UAV Cluster Munitions, che mira a sviluppare tattiche efficaci di impiego di mini-micro droni armati di cariche esplosive, per creare sciami in grado di effettuare attacchi cinetici contemporanei, come se fossero vere e proprie munizioni circuitanti (loitering munitions). Tale tipologia di impiego, potrebbe essere in un futuro anche del tutto automatizzata, conferendo agli sciami la capacità autonoma di discernere, designare e colpire determinati obiettivi, secondo le informazioni inserite all’interno del loro cosiddetto “playbook”.

Contestualmente, gli Stati Uniti stanno portando avanti importanti programmi di ricerca a livello militare anche per sviluppare capacità di contrasto ai drone swarms, dal momento che, negli ultimi anni, anche i loro pear e near-peer competitor si sono mossi in tale direzione, sebbene con diversi livelli di sofisticazione tecnologica. È emersa empiricamente infatti la coscienza che gli attuali strumenti di contrasto alle minacce SUAS sono inadeguati e inefficienti per una serie di ragioni tecnologiche, prima su tutti la ridotta firma radar dei SUAS, che consente di eludere la quasi totalità dei sistemi di rilevamento.

Recentemente, nel gennaio 2021, il Dipartimento della Difesa americano ha infatti pubblicato il “Counter-Small Unmanned Aircraft System Strategy”, in cui ha illustrato lo stato dell’arte dello sviluppo di nuove strategie e strumenti di contrasto alla minaccia SUAS. Attualmente la ricerca si muove principalmente in due direzioni. Da un lato, mira a sviluppare dei sistemi di rilevazione sempre più raffinati nell’identificare oggetti di piccole e piccolissime dimensioni. Dall’altro si cerca di sviluppare sistemi di difesa in grado di intercettare con grande velocità un elevato numero di bersagli in grado di seguire traiettorie non predefinite, dunque difficilmente prevedibili. Le soluzioni individuate in questo senso spaziano dall’utilizzo a loro volta di sciami di droni dotati di un certo livello di autonomia, all’utilizzo di armi ad energia diretta e ad impulsi elettromagnetici.

Nello specifico, i sistemi d’arma ad energia diretta e laser sembrerebbero essere una delle soluzioni migliori per la capacità C-SUAS. Accanto ai progetti di ricerca e sviluppo condotti delle principali aziende della difesa americana, tra cui l’ALADIN di Lockheed Martin, risulta di particolare rilievo il sistema sperimentale AN/SEQ-3 (XN-1), in fase di test presso la US Navy. Il sistema, in un primo momento installato e testato a bordo della LPD USS Ponce nello Stretto di Hormuz, è attualmente pronto per essere installato anche su altre navi. L’US Air Force, invece, sta sperimentando il sistema HELWS (High-Energy Laser Weapon System), un’arma ad energia diretta, originariamente pensata in funzione antiaerea e attualmente testata anche in funzione anti-drone e anti-sciame. L’idea alla base del sistema HELWS è quella di sviluppare un’arma particolarmente versatile, in grado di essere equipaggiata su diversi velivoli, dagli elicotteri Apache agli aerei da trasporto tattico. L’HELW è destinato principalmente ad ingaggiare unità particolarmente veloci e di piccole dimensioni, quali barche, droni, missili e munizioni guidate.

Anche dal lato dei sistemi di jamming sono in corso diversi tentativi di adattare la tecnologia C-UAS corrente in chiave anti-sciame, anche se rimangono importanti ostacoli tecnologici. A livello commerciale e militare, sistemi per arginare droni nemici sono già disponibili, sia man-portable che su veicolo o ad installazione fissa. Questi strumenti, in particolari i man-portable point and shoot, veri e propri ‘fucili anti-drone’ sono stati ideati per contrastare SUAS singoli, non interi sciami. I classici sistemi di interferenza che dovrebbero inibire la capacità di comando e controllo (C2) dell’operatore umano verso la piattaforma, risultano efficaci quando la piattaforma è gestita da remoto direttamente da un operatore. Tuttavia, qualora i droni operanti all’interno di uno sciame presentino un discreto grado di autonomia o di semi-autonomia, potrebbero contrapporre delle contromisure. All’interno del playbook di comportamento del drone, infatti, potrebbe essere scritto un codice di safe return home, per spingere i droni a ritirarsi verso la base in caso di perdita di contatto. Ancora, lo sciame potrebbe innescare dei comportamenti compensativi per completare la missione in totale autonomia, al di là del controllo esercitato direttamente su di esso. Diviene fondamentale, in tal senso, sia quindi lo sviluppo di gruppi sensori capaci di rilevare le tracce radar a basso profilo dei droni, ma anche la capacità di analizzare lo sciame, per neutralizzare il sistema di comunicazione interno ad esso. Diventerà fondamentale, nelle strategie C-UAS, sviluppare l’expertise in campo cyber per riuscire a decriptare il linguaggio dello sciame, identificare i nodi centrali, contrastarli e disattivare la sua capacità offensiva o difensiva.

Attualmente, rimangono ancora numerosi ostacoli nel percorso di sviluppo degli sciami di droni e delle relative capacità di contrasto, di carattere etico, legale, tecnologico ed operativo. Da un punto di vista industriale, di ricerca e sviluppo, la partita si gioca non soltanto sulla componente hardware, ma anche e soprattutto su quella software. Le capacità dei droni di interoperare, comunicare e compiere operazioni complesse in sciame non sono state ancora del tutto definite, dal momento che si basano su un elemento, l’Intelligenza Artificiale, le cui potenzialità non sono state ancora del tutto espresse. Gli Stati Uniti, in tal senso, stanno portando avanti importanti programmi di ricerca e sviluppo, utilizzando le sinergie esistenti tra i vari enti deputati, e creandone di nuove. Tuttavia, per le specifiche caratteristiche di tale tecnologia, ancora oggi ai suoi albori, risulta lunga la strada per affermare la stesso competitive edge che possono vantare in altri ambiti della sfera militare. Tuttavia, le recenti iniziative e la pubblicazione di documenti strategici in tale ambito, restituiscono l’assoluta importanza di questa tematica all’interno dell’attuale dibattito americano su difesa e sicurezza, nonché l’urgenza da parte del Dipartimento della Difesa di sviluppare in tempi brevi sistemi di difesa in grado di contrastare efficacemente questa nuova tipologia di minaccia, mettendo in campo strategie sinora inusitate.

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