Iacovino: «Il jihad europeo è più forte e pericoloso di quanto crediamo»

Iacovino: «Il jihad europeo è più forte e pericoloso di quanto crediamo»

04.10.2016

Mohamed Abrini, il presunto «uomo col cappello» dell’attentato all’aeroporto di Zaventem, era pronto a colpire di nuovo in Francia insieme ad altri terroristi. Le conferme che arrivano dalla procura federale belga potrebbero segnare una svolta, chiarire una volta per tutte quali erano (o quali sono) gli obiettivi dei jihadisti di casa nostra, illuminare la trama che unisce gli attacchi al cuore d’Europa, che da Bruxelles porta a Parigi e torna indietro. Il condizionale, però, è d’obbligo.

Quanto credito possiamo dare alle parole del franco-marocchino arrestato venerdì scorso? Gabriele Iacovino, responsabile analisti del Centro Studi Internazionali, sulle confessioni di Abrini è molto cauto «perché ancora tutte da dimostrare», ma ha pochi dubbi sulla potenza della rete: «La cellula, o le cellule che hanno operato tra le due capitali, sono più forti di quello che noi immaginiamo».

Ma cos’è che le rende tanto forti? Su cosa possono contare i foreign fighters una volta rientrati in Europa?
«Su una collaudata capacità logistica e strategica, e sulla facilità con cui riescono a procurarsi armi ed sostanze esplosive. Il fatto stesso che gli attentati a Bruxelles siano stati organizzati negli stessi giorni in cui c’era la caccia a Salah Abdeslam, il ricercato numero uno d’Europa, oltre a provare l’esistenza di preoccupanti falle nel sistema di sicurezza del Belgio dimostrano che il jihad europeo può contare su una serie di tasselli che uniti insieme formano un mosaico micidiale: il silenzio e il sostegno che trova in certe periferie come Molenbeek, dove la polizia fino continua ad entrare col contagocce; le risorse umane, finanziarie e i nascondigli; e ovviamente quel cuore pulsante di radicalizzazione, molto più efficace di Al Qaeda, rappresentato dal Daesh, forse oggi in difficoltà in Siria e in Iraq ma capace di farsi sentire in Europa».

Secondo Abrini sarebbero state le mezze rivelazioni di Salah alla procura a far cambiare obiettivo ai terroristi: anziché tornare a Parigi hanno colpito Bruxelles perché «spiazzati da un’inchiesta che faceva progressi da gigante». Ma è credibile? In quei giorni gli investigatori brancolavano nel buio.
«Dall’arresto di Salah agli attacchi è trascorso pochissimo tempo. Di certo attentati come quelli all’aeroporto di Zaventem e alla metro, per potenza di fuoco ed efficacia strategica, non si organizzano dall’oggi al domani, vanno pianificati, preparati, studiati. Può darsi però che la prima scelta dei jihadisti fosse davvero, di nuovo, la capitale francese, e che dopo le prime rivelazioni di Abdeslam si siano sentiti braccati e abbiano cambiato le carte in tavole. Ma una volta che i terroristi hanno a disposizione armi, cinture o valigie esplosive, attaccare una stazione o un aeroporto, che sia a Parigi o a Bruxelles, cambia ben poco. Quel che è certo è che le bombe non sono state preparate dopo l’arresto di Salah. Forse le sue confessioni hanno velocizzato o addirittura spostato l’obiettivo, forse i terroristi si sentivano più sicuri attaccando Bruxelles, ma l’idea di colpire era in programma già da molto tempo. Detto questo, mi chiedo come sia possibile che la procura belga lasci circolare stralci delle dichiarazioni di Abrini».

Era successa la stessa cosa con Salah. Errore gravissimo?
"Grandissima superficialità. Questo è un problema enorme. Stiamo parlando di informazioni delicatissime, che non possono uscire dagli uffici di una procura, semplicemente perché possono far detonare altri attentati, o lanciare segnali ad altre persone, ad altre cellule sparse per l’Europa. I jihadisti di cui parliamo non sono degli sprovveduti, le parole pronunciate da uno di loro possono essere pesanti come il piombo, diventare codici o avvertimenti che solo chi è dentro la loro rete può decriptare. Se non possiamo sapere che effetto può avere una qualsiasi dichiarazione, nel dubbio bisogna sempre censurare, non far filtrare. In questo senso gli inquirenti e gli investigatori italiani, perlomeno nelle indagini sul terrorismo o sulla mafia, potrebbero far lezione ai colleghi belgi, sia nella gestione della raccolta informativa sia negli atti giudiziari».

Accennava prima alle capacità dei foreign fighters di reperire armamenti in Europa. Ma sarebbero capaci di arrivare ad armi chimiche, o addirittura radiologiche, o di fabbricarle?
«Lo ritengo improbabile. Dal gennaio 2015 fino a marzo 2016, dalla sede di Charlie Hebdo a Bruxelles, gli attentati non hanno avuto alle spalle un granissimo budget: sono stati utilizzati fucili mitragliatori che oggi si comprano sul mercato nero, con spese relativamente piccole, e ordigni esplosivi abbastanza rudimentali, realizzati con prodotti di facile reperimento a prezzi abbastanza bassi. Detto questo, se è impossibile pensare al trasporto di agenti chimici su un volo che da Ankara - porta d’ingresso e d’uscita verso la Siria - porta a Bruxelles, non possiamo escludere che nel mercato nero possano essere trovati prodotti utili a creare le cosiddette bombe sporche, e non possiamo neanche escludere che i foreign fighters siano addestrati ad assemblarli. Di certo, l’arma chimica o radiologica è la chimera della rete del terrore, fin dai tempi di Al Qaeda. Ma neanche Bin Laden ci è arrivato: è molto difficile, anche se non impossibile».

Anche se il budget usato per le armi non è stato finora elevato, la rete jihadista ha potuto comunque contare su una certa disponibilità finanziaria. Da dove arriva il flusso di denaro?
«È possibile che provenga da fuori l’Europa, anche dalle donazioni e dalle reti di sussistenza legate alle moschee e alle comunità islamiche. Un flusso molto difficile da controllare, perché non ha registrazioni, non lascia tracce. Stiamo però parlando di movimenti relativamente modesti. La forza dei foreign fighters, una volta entrati nei confini europei, non è tanto il denaro, ma la complicità, la connivenza, il silenzio, quel velo che li ha nascosti, protetti e continua a proteggerli, nelle banlieue parigini come nelle periferie di Bruxelles. La minaccia terroristica, le armi, la preparazione militare e strategica dei combattenti addestrati in Siria, in Libia o in Iraq, sarebbe monca senza questo substrato».

Fonte: Giornale di Sicilia

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