Coraggio e senso dello Stato: così si sconfigge il terrorismo
Pubblichiamo l’intervento di Andrea Margelletti, Presidente del Ce.S.I. al convegno “Il futuro del terrorismo di matrice jihadista” del 29 ottobre a Roma
Io sono un sostenitore della certezza del dubbio e del fatto che, probabilmente, a 18 anni dall’11 settembre, a fronte di innumerevoli e importanti successi nel campo della prevenzione, ma riconoscendo che ci troviamo di fronte ad una galassia magmatica di realtà a noi avverse, forse è il caso di fare un ripensamento dottrinale su come noi stiamo approcciando il fenomeno del contenimento della minaccia terroristica.
Io sono da sempre, ed è la policy del Centro Studi Internazionali, un sostenitore del fatto che l’informazione abbia un valore relativo.
Dalla fine dell’800, il mondo occidentale, ed il particolare l’Europa, ha una conoscenza molto chiara degli iceberg, della loro formazione, del loro tragitto, dei loro percorsi. Eppure il capitano Smith, nell’aprile del 1912, non ritenne, a fronte di informazioni precise, di dover cambiare la rotta o di diminuire la velocità del Titanic. Com’è andata a finire lo sappiamo tutti. Questo sta a significare che, oggettivamente, avere un informazione, anche la più preziosa, anche la più pregiata, non necessariamente vuol dire tradurla in analisi ed avere la comprensione di quello che avviene nel mondo.
Credo che l’analisi sia, e io ovviamente sono di parte in questo, un po’ la chiave di lettura di alcuni fenomeni. Per questo sono particolarmente contento dell’accordo di collaborazione tra il mio istituto ed Il Comando Operativo di Vertice Interforze nell’ambito dell’analisi strategica.
Noi ci troviamo di fronte ad un conflitto che spesso ha una visione militare o una visione repressiva. Io credo che sia un conflitto che, come è stato detto dai molto autorevoli relatori prima di me, abbia una natura fondamentalmente politica (non partitica, politica).
Io non sono sinceramente interessato a vincere le battaglie di oggi, mi interessa molto di più vincere la guerra del domani.
E credo che una delle cose che dovremmo fare è cominciare a togliere a radicalizzati e miliziani jihadisti la scusante ideologica, ad esempio quella dell’eterno conflitto palestinese. Non ne parla nessuno, ma la Palestina viene vista come red flag in ogni occasione per giustificare le azioni in virtù di un interesse più alto.
Un’altra cosa che dovremmo fare è non distrarci dal silenzio. L’assenza di notizie non significa assenza di eventi e non bisogna fare un salto quantico più avanti pensando che senza notizie ci si possa sentire sereni e tranquilli.
E soprattutto, dovremmo cercare di comprendere che noi non ci troviamo di fronte ad un fenomeno solo sociale, risolvibile, come avvenuto in Europa negli anni 70, 80, 90, quando l’evoluzione dei sindacati ed un cambiamento nella società hanno permesso l’evoluzione del lavoro delle forze dell’ordine successivamente allo smantellamento dei gruppi sia terroristici di estrema destra e soprattutto di estrema sinistra.
Ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso.
Se si vogliono comprendere alcune dinamiche, e mi riferisco a quelle che avvengono all’interno di alcune banlieu, che in qualche maniera ricordano alcune no go area, come dicevano gli inglesi, di alcune nostre città, più che studiare una realtà religiosa, vale la pena concentrarsi su quella che è stata l’IRA**,** il cosiddetto esercito nordirlandese. In queste aree è possibile trovarepersone che danno ospitalità, che ti tengono una pistola, che ti fanno dormire una notte. Queste persone non sono terroristi, ma operano all’interno di quella che è definibile con il termine di solidarietà locale, in quanto riconoscono nella persona appartenente al gruppo armatonon qualcuno che vogliono diventare, ma comunque qualcuno più vicino a loro rispetto allo Stato.
Allora se in questi luoghi si perde il senso dello Stato, se noi non interveniamo affinché lo Stato venga riconosciuto in quanto tale, rischiamo di lasciare che l’arma più forte che questi hanno sia quella dello Stato sociale , come affermato molto bene dai miei predecessori.
Io sono molto preoccupato riguardo al cosiddetto Stato Islamico, non tanto per il presente o per il futuro, ma soprattutto per ciò che ha fatto. Non è possibile dominare su milioni di persone se non attraverso un vasto consenso. Ricordiamoci che le dittature si basano sul consenso, sono le democrazie a basarsi sul dissenso. E lo Stato Islamico ha basato il proprio potere sul consenso, è un dato oggettivo. Allora noi dobbiamo evitare che questo modello di welfare si imponga. Un modello dove questi gruppi sono meno corrotti del governo locale, in grado di offrire quello che il governo locale toglie alle popolazioni. Non è raro ad esempio che le forze dell’ordine derubino le persone fermate piuttosto che fare i controlli necessari. Queste situazioni le vivo spesso nei viaggi che il mio istituto conduce in queste aree. E’ terribile trovare delle persone che, pur non essendo dalla parte dei terroristi, pur non volendo essere terroristi in alcuna maniera, riconoscono a questi gruppi un contenuto morale diverso da quello che il governo dovrebbe avere.
Per questo credo che l’occidente, in quanto più ricco portatore di maggiori doveri, debba essere più incisivo. Non è soltanto nell’addestramento e nella formazione dei rapporti con i servizi collegati, con le forze dell’ordine locali, con le forze armate locali che bisogna agire, poiché se lo Stato centrale è percepito (la percezione è infinitamente più forte della realtà perché è oggettiva e non è soggettiva) come un governo non autorevole ma autoritario, questo lavoro non funziona.
Noi dobbiamo lavorare sul futuro. Non possiamo permetterci, non tanto che i terroristi non facciano attentati, ai quali in qualche maniera terribilmente ci siamo anche un po’ anestetizzati, ma che ci rubino i ragazzi. Poiché questi gruppi investono sulla formazione di bambini e ragazzi dai 6 ai 15 anni, dando a questi giovani un senso di appartenenza che noi tutti non siamo in grado di fornire, un po’ per mancanza di impegno, un po’ per una visione sempre molto interna delle cose che dobbiamo fare. In realtà in un mondo globalizzato dovremmo guardare non soltanto all’interno dei nostri confini, per quanto bellissimi, ma anche fuori.
Ribadisco ciò che ha detto in maniera magistrale l’amico e maestro Stefano Dambruoso, di cui ho parlato anche tante volte con Andrea Manciulli, con il Presidente Latorre, tutte persone di cui mi vanto di essere amico e dalla grande integrità morale e competenza. E’ indubbio che le prigioni, dove comunque c’è molta attenzione, siano una sorta di palestra di radicalizzazione , ma il lavoro va fatto sul futuro, cioè nelle scuole. Quest’ultime sono indiscutibilmente il luogo dove i giovani si confrontano e dove possono assumere una connotazione nazionale, o possono perderla e cercare una stella polare da qualche altra parte.
Per questo uno dei campi di battaglia, uso un termine improprio e me ne scuso, è il mondo cibernetico. Non tanto per il flusso di informazioni, quanto piuttosto perché molto probabilmente i futuri attacchi tra qualche anno saranno li. Non perché questi siano più pericolosi, ma semplicemente perché i terroristi sono figli della propria epoca. Gli anarchici, alla fine dell’800 e nei primi anni del 900 lanciavano le bombe. I terroristi negli anni 70-80-90 sparavano, tanto, con armi da fuoco. I terroristi recenti, quelli del Bataclan, ma quelli anche di Manchester e di Londra, hanno colpito con mezzi della nostra quotidianità (la macchina, il coltello, quello che trovavano in casa).
I bambini di oggi sono nativi digitali, a differenza nostra, o per lo meno mia che ho i capelli bianchi e sono un immigrato digitale. E’ è ovvio che ciascun figlio della propria epoca utilizzerà gli strumenti maggiormente propri per fare del bene, o fare del male, a seconda dei casi.
L’ultimo punto che vorrei sottolineare è di non avere il timore o il pudore ad utilizzare gli strumenti che si hanno a disposizione. Fino ad adesso ho detto che io ritengo che la politica sia la chiave fondamentale per la risoluzione e la diminuzione del fenomeno terroristico. Ci sarà sempre qualcuno che ci odia, ci sarà sempre qualcuno che ci vuole fare del male, su questo dobbiamo essere chiari. Ma non dobbiamo neanche essere timidi nel momento in cui abbiamo la necessità di mettere da parte il libro ed utilizzare il bisturi.
Ed in questo le Forze Armate sono lo strumento fondamentale, cui compito non credo sia quello di guardare le attività di sicurezza interna. A mio avviso le Forze Armate dovrebbero avere una proiezione all’estero, una proiezione di difesa al di la dei nostri confini. In emergenza va bene tutto, però è importante che l’emergenza non diventi una consuetudine.
Detto ciò, nel momento in cui si ha uno strumento militare, si paga per avere uno strumento militare efficace, credo che sia anche importante intervenire in alcuni casi all’estero. Perché quello che noi vediamo qui da noi sono i sintomi, ma il paziente 0 non è italiano, è in una serie di altri Paesi.
Allora in quel caso, permettetemi di dire che, avendone le capacità (le capabilities come dicono quelli bravi), si deve avere il coraggio di fare interventi mirati, anche unilaterali, se questo è importante per la propria sicurezza nazionale.
Questo è il mio augurio, che si possa avere una maggiore attenzione al lato politico e meno a quello militare (perché a volte diventa una scusa), ma dall’altra parte non avere il timore di utilizzare lo strumento militare in maniera netta, chiara e non ambigua quando è necessario