Xi Jinping ripensa la comunicazione mediatica cinese
Il 20 aprile, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese (RPC) e Segretario Generale del Partito Comunista Cinese (PCC) Xi Jinping ha sottolineato l’imprescindibilità della gestione di Internet come campo di battaglia per plasmare l’opinione pubblica. Un mese dopo, il 31 maggio, in un discorso rivolto ai funzionari cinesi, il Presidente si è raccomandato di ridimensionare i toni nel dialogo con i media occidentali, per veicolare un’immagine positiva e rispettabile della Cina. Soprattutto alla luce delle recenti tensioni con la Comunità Internazionale, infatti, secondo Xi sarebbe necessario che si il Paese si mostrasse “aperto e fiducioso, ma anche umile e modesto” (既要开放自信又要谦虚谦虚 Jì yào kāifàng zìxìn yòu yào qiānxū qiānxū) nella comunicazione con il resto del mondo. Tra i responsabili di questa ingenuità espressiva, Xi ha anche individuato le agenzie mediatiche e di stampa statali, alle quali ha ribadito quanto l’opinione pubblica internazionale si costruisca con toni amichevoli.
Le nuove direttive di Xi sono legate all’iniziativa di istituire un “nuovo ordine mediatico mondiale” (世界传媒新秩序 shìjiè chuánméi xīn zhìxù) per limitare il predominio anglofono nel giornalismo e nella gestione dei media, giudicati intrisi di ideali e modelli occidentali. Tale obiettivo non è nuovo nell’agenda del Presidente. ha assunto connotazioni accomodanti o assertive a seconda del contesto. Nel 2019, Xi Jinping esortò il corpo diplomatico cinese ad assumere un atteggiamento più combattivo nei confronti dei media occidentali, allo scopo di difendere l’immagine e la dignità nazionali, per cercare di contrastare la narrativa costruita dall’ex Presidente statunitense, Donald Trump. Si è dunque diffusa la retorica della “wolf warrior diplomacy”, la cui denominazione deriva dal tono adottato da alcuni funzionari cinesi, più aggressivo e ostile che in passato, per tutelare gli interessi strategici nazionali, attraverso campagne di comunicazione più serrate sia sui social media sia mezzo stampa. L’assertività della wolf warrior diplomacy trova le sue radici nell’impostazione stessa del Partito Comunista Cinese (PCC). A tutti i membri, a tutti i livelli dell’organizzazione del PCC, infatti, non solo è richiesta la partecipazione e l’espressione di opinioni su questioni politiche chiave secondo il principio organizzativo del “centralismo democratico” (di ispirazione leninista), ma, al tempo stesso, l’aspetto centralista richiede che i livelli organizzativi subordinati seguano i dettami di quelli superiori. Inoltre, il PCC continua a promuovere i “quattro aspetti in cui avere fiducia” (四个自信 sì gè zìxìn): percorso scelto, sistema politico, teorie guida e cultura cinese. La classe dirigente cinese si ritrova dunque a lavorare in un contesto in cui la lealtà nei confronti della linea politica del Segretario Generale del Partito diventa fondamentale.
La wolf warrior diplomacy ha conosciuto una rapida accelerata in seguito all’attenzione posta dai media internazionali su questioni ritenute da Pechino di prioritario interesse nazionale, quali la violazione dei diritti umani in Xinjiang, la repressione dell’attivismo pro-democratico a Hong Kong e la gestione delle informazioni divulgate alla comunità internazionale in seguito alla diffusione del Covid-19. Tuttavia, la risolutezza comunicativa della diplomazia cinese nel corso del’ultimo anno non sembra aver sortito i risultati sperati. Come registrato dai dati del PEW Research Center risalenti al 6 ottobre 2020, vi sembra essere stato uno storico calo delle opinioni positive della Cina in 14 Paesi ad economia avanzata coinvolti nel sondaggio: la Nuova via della Seta è spesso vista sotto la lente di ambizioni egemoniche atte a creare un nuovo ordine mondiale, alternativo a quello impostato dagli Stati Uniti; la gestione efficace della pandemia non ha influito positivamente sull’immagine della Cina, accusata di scarsa trasparenza fin dal principio e di sfruttare la “diplomazia delle mascherine” solo per raccogliere consenso.
L’inefficacia della strategia comunicativa cinese sembra mettere in discussione l’impostazione stessa impartita dal governo a partire dal 2021, per cercare di elaborare una campagna mediatica che procedesse di pari passo, e fosse funzionale, al processo di ascesa della Cina stessa. Il “Sogno Cinese” (中国梦 Zhōngguó mèng) di Xi Jinping incarna gli obiettivi del governo cinese del 21° secolo: a partire dal 2012, l’espressione è difatti entrata nel discorso politico, contribuendo alla creazione di una narrativa nazionale che punta a rappresentare la Cina all’estero. La Cina ha sempre puntato a veicolare l’immagine di una nazione pacifica e in ascesa “armoniosa” (中国和平崛起 Zhōngguó hépíng juéqǐ), in continuità con la politica ufficiale dell’ex Presidente della RPC e quarto Segretario Generale del PCC, Hu Jintao. Il termine “armonia” ha un significato estremamente profondo nell’ambiente socio-culturale cinese. Il concetto di una “società armoniosa” (和平社会 hépíng shèhuì) risale infatti alla Cina imperiale: secondo i principi del Confucianesimo, l’armonia sociale era il riflesso dell’armonia interna al nucleo famigliare, regolato da consuetudini gerarchiche e dal rispetto dei propri doveri. Solo la piena realizzazione del proprio ruolo all’interno della società poteva garantire sicurezza e armonia. Hu Jintao estese poi il concetto della società armoniosa a un’ideologia dalla dimensione internazionale, con un focus sulla cooperazione win-win tra Paesi al fine di garantire la pace in tutte le società coesistenti in un mondo armonioso (和谐世界 héxié shìjiè). In seguito, Xi Jinping ha inglobato il concetto nell’ideologia chiave del suo governo: il Sogno Cinese, appunto. L’attuale Presidente cinese e Segretario Generale del PCC preferisce, tutt’ora, legittimare il discorso del Sogno Cinese all’estero perfezionando l’idea di un mondo armonioso con il concetto di una “comunità umana dal futuro condiviso” (人类命运共同体 rénlèi mìngyùn gòngtóngtǐ), implicando la necessaria simbiosi tra la Cina e la comunità internazionale per garantire la pace internazionale.
L’impostazione di questa strategia comunicativa riprende e potenzia i “cinque principi di coesistenza pacifica” (和平共处五项原则 hépíng gòngchǔ wǔ xiàng yuánzé) adottati dalla politica estera cinese fin dagli Anni ‘50, sulla base dei quali Pechino ha instaurato relazioni diplomatiche con la maggior parte dei Paesi del mondo: la non ingerenza negli agli affari interni, il rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, la non aggressione reciproca, l’uguaglianza, il vantaggio reciproco e la coesistenza pacifica. Tale narrativa è stata la base della promozione del progetto della Nuova via della Seta: i valori promossi di cooperazione mutuamente vantaggiosa tra civiltà, il sostegno infrastrutturale, la creazione di un mondo armonioso e il sostegno attivo al multilateralismo hanno creato la cornice comunicativa all’interno della quale il governo di Pechino ha cercato di presentre la propria iniziativa agli interlocutori internazionali.
Tuttavia, gli obiettivi di Xi includono anche la necessità di rendere la Cina “una nazione prospera” (国家富强 Guójiā fùqiáng) in qualunque circostanza e di realizzare il “grande ringiovanimento della nazione cinese” (中华民族伟大复兴 Zhōnghuá mínzú wěidà fùxīng). È dunque fondamentale che la Cina si dimostri una nazione matura, affidabile e cooperativa sul piano internazionale, immagine pienamente rappresentativa della prosperità e modernità della nazione. Celato dietro a toni accomodanti e inclusivi, quel ringiovanimento nazionale è un concetto imprescindibile per il PCC e allude a un periodo di ricaduta storica della Cina, quello rappresentato dai cento anni di umiliazione nazionale – dalle Guerre dell’oppio e i Trattati ineguali fino alla fine della Seconda guerra mondiale e la ritirata giapponese dal territorio cinese – che hanno oscurato la grandezza e la centralità della civiltà cinese. Il governo della RPC ha lavorato con zelo su quelle cicatrici, ponendo le basi per un’educazione patriottica che facesse germogliare sentimenti di nazionalismo, coesione e identità tra la popolazione, come nel caso della già citata wolf warrior diplomacy.
Ad oggi, Pechino continua a veicolare la propria interpretazione di un nuovo ordine internazionale tramite i cinque principi di coesistenza pacifica, funzionali all’ascesa nazionale e alla strategia mediatica cinese. Tuttavia, le nuove direttive mediatiche di aprile e maggio sono legate alla complessità dell’ambiente in cui Pechino si ritrova a operare. Da un lato, la volontà di proporre una narrativa nazionale rassicurante e positiva; dall’altro, l’evoluzione delle contingenze internazionali, le ambizioni di Xi in politica estera e il marcato nazionalismo che ha caratterizzato la diplomazia cinese degli ultimi anni. Il cambiamento di immagine proposto ad aprile e maggio riflette la presa di coscienza in merito al danno che una retorica diplomatica aggressiva può causare – e in alcuni casi ha già causato – alla Cina. L’iniziativa di istituire un nuovo ordine mediatico mondiale sembrerebbe destinato a non venir meno nel breve termine. Tutt’altro: la portata dell’influenza della RPC sui media internazionali è fondamentale e continuerà a costituire un punto focale della strategia mediatica cinese, attraverso l’acquisizione di testate internazionali o di spazi pubblicitari all’interno di esse. Inoltre, la Cina sembra intenzionata a investire in modo massiccio in testate, canali ed emittenti cinesi poi trasmessi in diverse lingue straniere. Alcuni esempi rilevanti di questa strategia già in atto sono Xinhua, CCTV, CGTN, Radio Cina Internazionale, Voice of China, Quotidiano del Popolo e China Daily. L’insistenza verso la costruzione di uno spazio di influenza nei media internazionali, infatti, ricopre un’importanza strategica per Pechino, in un momento in cui la Cina si torva a dover trovare un compromesso tra gli obiettivi ricercati e la reazione ai messaggi veicolati da una campagna comunicativa che sembra ancora faticare a trovare un proprio bilanciamento. In questo senso, il cambio di impostazione promosso da Xi sembrerebbe funzionale ad indirizzare la strategia comunicativa della Repubblica Popolare verso un binario maggiormente dialogico, all’interno del quale rilanciare l’immagine del Paese agli occhi dei potenziali partner internazionali. La ricerca di questo equilibrio è così funzionale a trovare un nuovo modo rafforzare un soft power attualmente in bilico, la cui messa in discussione potrebbe compromettere l’obiettivo di Pechino di accreditare a tutti gli effetti la Cina come nuovo punto di riferimento riconosciuto all’interno della Comunità Internazionale.