Le dimissioni di Hariri e i fragili equilibri del Libano
Le dimissioni del Premier Saad Hariri, annunciate il 4 novembre, ma congelate due settimane più tardi, hanno scosso i già fragili equilibri del Libano. Il passo indietro rischia di far entrare nuovamente in stallo la vita politica del Paese, che nel corso dell’ultimo anno era progressivamente uscito da una lunga paralisi istituzionale. D’altronde, la ripresa del funzionamento delle istituzioni non è il risultato di un processo lineare e non conflittuale, bensì deriva dai mutati rapporti di forza tra i principali partiti e, in particolare, dal rafforzamento politico della formazione sciita Hezbollah, che ha capitalizzato sul fronte interno i successi ottenuti con la partecipazione nel conflitto siriano a fianco di Assad e Teheran, proprio a discapito di Hariri.
Lo sblocco dell’impasse sull’elezione del Presidente (ottobre 2016), la formazione di un nuovo Esecutivo (dicembre 2016) e l’approvazione della nuova legge elettorale (giugno 2017) hanno rappresentato tre importanti sconfitte per Hariri e il suo Partito Futuro (PF), che si trovano attualmente in una posizione di particolare debolezza, e altrettante vittorie per Hezbollah.
Infatti, il partito di Nasrallah è riuscito a raccogliere attorno al suo candidato, il cristiano-maronita Michel Aoun, un consenso trasversale alle due grandi coalizioni che dominano la politica libanese, l’Alleanza 8 Marzo (guidata da Hezbollah) e l’Alleanza 14 Marzo (dominata dal PF), proprio grazie a un passo falso di Hariri, che ha incautamente bruciato il proprio candidato Samir Geagea inducendolo ad appoggiare lo storico rivale Aoun.
L’elezione ha fatto emergere una seconda difficoltà per il già indebolito leader sunnita, perché ha spianato la strada alla formazione di un nuovo Esecutivo in cui però il suo peso è visibilmente limitato. Per non essere estromesso del tutto, Hariri ha dovuto accettare di far parte di un governo di unità nazionale, certificando in questo modo la centralità di Hezbollah nel lento riavvio della vita politica nazionale. Inoltre, per non rischiare di vedere contestata la propria leadership nel campo sunnita, Hariri ha dovuto acconsentire a ricoprire nuovamente la carica di Premier, per convenzione assegnata a un esponente di questa confessione, aumentando la sua esposizione a fianco del partito sciita. Questa coabitazione forzata, che ha agevolato il consolidamento politico del Partito di Dio, potrebbe rappresentare un motivo di disaffezione dell’elettorato sunnita verso il PF di Hariri, che viene accusato di tenere un atteggiamento eccessivamente succube rispetto ad Aoun ed Hezbollah.
L’ulteriore tegola su Hariri è arrivata con la promulgazione della nuova legge elettorale, lo scorso giugno, che ha modificato il sistema di voto in senso proporzionale e rimodulato la suddivisione delle circoscrizioni, prospettando così un’ulteriore affermazione della minoranza sciita e dei suoi partiti di riferimento non solo nelle regioni dove storicamente ha una presenza maggiore, ma sull’intero territorio nazionale.
In base a quanto detto finora, sembra evidente che Hariri si ritrovi in difficoltà nell’affrontare la prossima tornata elettorale, prevista per la primavera del 2018. In questo senso, le sue dimissioni vanno intese come il tentativo di smarcarsi in modo inequivocabile da Hezbollah prima del voto, in modo da poter affrontare la campagna elettorale con più libertà di criticare l’operato del Governo. Tuttavia, Hariri potrebbe ottenere l’effetto desiderato anche senza abbandonare effettivamente il Governo. Infatti, la semplice accusa rivolta a Hezbollah di svolgere un ruolo destabilizzante in Libano e nella regione gli permetterebbe di porre la sua presa di distanza dal Partito di Dio al centro del dibattito politico per i prossimi mesi. Non è quindi possibile escludere che le dimissioni, già congelate, vengano presto ritirate definitivamente.
Ad ogni modo, minacciando di abbandonare il Governo, a ben vedere Hariri ha replicato la stessa manovra compiuta nel 2013, quando sembrava imminente un ritorno alle urne, dall’allora Primo Ministro Najib Mikati, per non dare adito a identiche accuse di sudditanza a Hezbollah. D’altronde, un simile riposizionamento nello scacchiere politico depotenzierebbe le critiche provenienti dall’interno dello stesso PF, dove raccoglie crescenti consensi una fazione oltranzista, guidata dall’ex Ministro della Giustizia Ashraf Rifi, che adotta posizioni intransigenti tanto verso il ruolo militare quanto verso quello politico di Hezbollah, con una retorica mirata a far leva sulle divisioni settarie e funzionale a contrastare l’egemonia di Hariri nel campo sunnita. Proprio la volontà di ribadire la sua posizione egemonica e sottolineare i forti legami (economici prima ancora che politici) tra i Saud e la famiglia Hariri, che resta il principale referente saudita in Libano, contribuisce a chiarire la modalità con cui il Premier ha dato le dimissioni, ovvero tramite un discorso televisivo da Riyadh.
Tuttavia, proprio in virtù del legame di dipendenza che unisce gli Hariri a Riyadh, non si può escludere che tale modalità, fortemente irrituale, sia stata dettata anche da forti pressioni saudite. Non a caso la prolungata assenza del Premier dal Paese ha fornito un’arma propagandistica ai suoi oppositori, che non faticano a screditarlo alludendo a un suo assoggettamento all’agenda saudita. D’altro canto, un ruolo di Riyadh nelle dimissioni di Hariri rappresenterebbe solo l’ultimo tassello di un’evidente ribilanciamento dell’azione saudita che, negli ultimi mesi, ha riportato ai primi posti dell’agenda di politica estera il Libano e il ruolo degli alleati di Teheran.
Di fatto, nell’ultimo anno la leadership saudita ha fatto leva sulla profonda influenza che esercita sulla stabilità economica e finanziaria del Libano per cercare di orientare le scelte politiche del nuovo Governo. In particolare, attraverso l’attivismo del Ministro per gli Affari del Golfo Thamer al-Sabhan, Riyadh ha prospettato un miglioramento dei rapporti economici bilaterali in cambio di una limitazione degli spazi di manovra di cui il Partito di Dio può disporre. Da un lato, l’Arabia Saudita ha effettivamente agevolato il ripristino dei flussi turistici dal Golfo verso il Paese dei Cedri, vitali per l’asfittica economia libanese, e ha dato stabilità finanziaria al Paese mantenendo i propri depositi presso la Banca centrale. Dall’altro lato, ha richiesto alle autorità libanesi l’esplicita condanna del ruolo militare di Hezbollah per sbloccare un finanziamento di 3 miliardi di dollari alle Forze Armate Libanesi.
Tuttavia, questa strategia non ha piegato il Presidente Aoun né ha prodotto spaccature nell’Alleanza 8 Marzo. Così, i Saud hanno optato per un atteggiamento decisamente più assertivo verso Hezbollah, ribadendone l’assimilazione a gruppo terroristico e prospettando la necessità di creare una coalizione internazionale contro il Partito di Dio, fino a dichiarare all’indomani delle dimissioni di Hariri, per voce di al-Sabhan, che l’esistenza stessa del partito di Nasrallah costituisce una dichiarazione di guerra del Libano all’Arabia Saudita.
Con questi tentativi, Riyadh mira in modo chiaro a isolare Hezbollah, così da ridurne il peso specifico nel panorama politico libanese e evitare che capitalizzi alla prossima tornata elettorale il rafforzamento guadagnato con la partecipazione al conflitto in Siria. Qualora nel breve periodo non ottenessero risultati tangibili, non si può escludere che i Saud, per indebolire il Partito di Dio e aumentare la pressione sui suoi alleati, tentino sia di indurre Hariri ad assumere un atteggiamento ancora più intransigente verso Hezbollah, sia di colpire direttamente l’economia libanese nel suo complesso, trascinando definitivamente il Paese al centro della competizione regionale che contrappone il Regno alla Repubblica Islamica.
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