L’avanzata jihadista nel Burkina Faso
Mercoledì 11 giugno, un gruppo di uomini armati ha ucciso 19 persone e ferito altre 13 nei dintorni della città di Arbinda, nella provincia di Soum, nell’area settentrionale del Burkina Faso. L’obbiettivo dell’attacco erano i fedeli cristiani della comunità locale. Si tratta del quinto attentato terroristico che ha colpito la comunità cristiana burkinabè negli ultimi quattro mesi. Sebbene l’assalto non sia ancora stato rivendicato da alcun gruppo terroristico, i principali sospetti ricadono sulle milizie qaediste attive nel territorio del Burkina Faso.
Negli ultimi quattro anni, il Burkina Faso ha conosciuto un notevole incremento nel numero di attività svolte dai movimenti jihadisti sia regionali che nazionali, che hanno esteso il loro controllo soprattutto nella area nord-est del Paese, ovvero la regione amministrativa del Sahel (omonima della regione geografica a ridosso del deserto del Sahara). Si tratta di un fenomeno nuovo per il Paese, visto che il Burkina Faso è stato tradizionalmente immune alle ondate di violenza jihadista poiché, nonostante la netta predominanza islamica, il quadro sociale e politico era caratterizzato da un ampio pluralismo religioso. Tuttavia, in seguito al colpo di Stato che nel 2014 ha rovesciato il Presidente Blaise Compaoré, il Paese ha affrontato una complessa transizione politica che ha conseguentemente indebolito l’intero assetto istituzionale e le già precarie capacità di controllo del territorio da parte delle forze armate e di polizia, favorendo l’avanzata del terrorismo jihadista.
L’incremento nel bagaglio capacitivo dei movimenti jihadisti del Burkina Faso, oltre agli attacchi contro la comunità cristiana, è bene denotato dai feroci attentati che hanno insanguinato la capitale Ouagadougou negli ultimi tre anni. Nel gennaio 2016, nell’agosto 2017 e nel marzo 2018 commando jihadisti hanno assaltato obbiettivi istituzionali e militari, sia nazionali che stranieri (su tutti l’ambasciata e il centro culturale francesi) nonché target civili come ristoranti ed alberghi, molto frequentati da cittadini di origine europea ed asiatica. che nell’agosto 2017, le milizie jihadiste hanno mirato diversi luoghi di aggregazione della capitale, frequentati in larga misura da cittadini stranieri.
Di certo, questi tre attentati terroristici hanno segnato un duro colpo alle politiche di contrasto implementate dal governo nazionale e da attori internazionali direttamente impegnati nella lotta al terrorismo nell’Africa sub-sahariana, in primis la Francia.
Al pari degli altri Paesi del Sahel, anche il Burkina si è trasformato nel teatro delle operazioni del Gruppo per la Salvaguardia dell’Islam e dei Musulmani (GSIM), il cartello jihadista nato nel 2017 e che riunisce i gruppi armati salafiti attivi nella regione, precisamente: la brigata sahariana di al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), al-Morabitoun, Ansar al-Din, il Fronte di Liberazione di Macina (FLM) e Ansarul Islam. Quest’ultimo è un movimento jihadista squisitamente burkinabè, fondato nel novembre 2016 da Malam Ibrahim Dicko, un predicatore attivo nella regione di Soum ed allievo di Amadou Kouffa, fondatore del Fronte di Liberazione di Macina.
Ansarul Islam, al apri dei suoi sodali jihadisti, intende trasformare il Burkina Faso o parti del suo territorio in un emirato governato attraverso una interpretazione estremista e deviata della Sharia (Legge Islamica). L’estremismo religioso del movimento critica e punta a sovvertire l’ordine sociale e politico burkinarbè, dipingendo le istituzioni statali alla stregua di poteri usurpatori che alimentano discriminazione, nepotismo e mala-gestione della cosa pubblica. Sulla base di questa propaganda, i processi di radicalizzazione e di adesione ai gruppi jihadisti si fondano su un forte malcontento sociale ed economico da parte delle sezioni più vulnerabili e povere della società. In altre parole, l’alienazione politica ed economica rappresenta un incentivo fortissimo per il reclutamento e per il supporto alle realtà jihadiste che, grazie ad una sapiente opera di supporto umanitario, vengono percepite come interlocutori legittimi e credibili.
Nella cornice della crisi del Burkina Faso settentrionale, Ansarul Islam sfrutta soprattutto il dissenso delle comunità di etnia Fulani, una minoranza principalmente stanziata nella provincia del Soum. Ad oggi i Fulani, principalmente dediti alla pastorizia semi-nomadica e al commercio, sono una delle etnie più povere e discriminate del Paese. Dediti alla transumanza e sempre alla ricerca di nuovi pascoli per i propri armenti, i Fulani vengono in contatto con le comunità agricole sedentarie, alcune delle quali cristiane, che godono di una maggiore tutela da parte delle istituzioni nazionali. In un contesto di estrema povertà, scarsezza di risorse e diminuzione delle terre fertile a causa dei processi di desertificazioni, la competizione per lo sfruttamento delle terra si trasforma in una autentico conflitto armato. Molti esponenti delle comunità agricole sono oltretutto di etnia Mossi, un gruppo che, storicamente, ha controllato la vita politica e sociale del Burkina Faso. Essi, infatti, discendono dalle antiche caste nobiliari che governavano il Paese nei secoli scorsi ed oggi alimentano la fitta schiera di autorità tribali informali che gestiscono le controversie sui diritti di sfruttamento del suolo sulla base della legge tradizionale e della consuetudine. Come è possibile immaginare, i capi tribali Mossi tenderanno a favorire le comunità agricole, aumentando il risentimento dei Fulani.
Dunque, gli attacchi contro i cristiani avvengono in una cornice ideologica e simbolica che racchiude rivendicazioni socio-politiche ed economiche decisamente più profonde e articolate.
L’adesione dei Fulani a metodologie di lotta violenta, incluso il radicalismo jihadista, racchiude la necessità di trovare un’organizzazione che difenda quelli che loro ritengono essere diritti violati sullo sfruttamento della terra.
Sullo sfondo della crescita dell’attivismo jihadista potrebbe celarsi anche la lunga mano dell’ex Presidente Compaorè e del suo più fidato luogotenente Gilbert Dienderè, capo del disciolto Reggimento di Sicurezza Presidenziale, la vecchia guardia pretoriana del deposto Capo dello Stato. Infatti, secondo alcune fonti interne burkinabè, l’immunità del Paese al fenomeno jihadista era garantita da accordi informali tra il vertice dello Stato e i miliziani che, in cambio di denaro e libertà di reclutamento e stanziamento nelle aree settentrionali del Paese non compivano attentati in loco. Con la destituzione di Compaorè non solo il patto è decaduto, ma esiste la possibilità che i lealisti dell’ex Presidente abbiano supportato logisticamente i terroristi per indebolire il nuovo governo e le nuove classi dirigenti.
Le cause della crescita delle attività terroristiche sono anche il risultato di fattori esogeni. Le instabilità del contesto regionale, dovute alla presenza di una fitta rete jihadista nelle nazioni confinanti, ha creato forti ripercussioni anche all’interno dei confini del Burkina Faso. Nello specifico, il centro nevralgico del network qaedista è localizzato in Mali, divenuto terreno propizio per le principali organizzazioni jihadiste in seguito allo scoppio della guerra civile del 2011 e al collasso dell’apparato di sicurezza nazionale. In aggiunta, a favorire il processo di ramificazione islamista, vi è una profonda similarità tra le problematiche interne dei Paesi confinanti con il Mali. Difatti, le nazioni che occupano la fascia saheliana sono caratterizzate da un panorama politico nazionale piuttosto intricato e attraversato da simili tensioni etnico-sociali.
Per fermare il proselitismo jihadista in Burkina Faso, è quindi indispensabile dover porre uno sguardo onnicomprensivo sull’intera fascia del Sahel. I governi del Burkina Faso, insieme al Mali, la Mauritania, il Niger e il Ciad hanno creato nel febbraio 2014 il G5 Sahel, un forum istituzionale per la cooperazione dell’Africa occidentale. L’obiettivo è di incrementare la cooperazione securitaria tra le nazioni al fine di combattere l’avanzata della minaccia terroristica. Al G5 si affiancano diverse missioni volte alla neutralizzazione del fenomeno jihadista, quali: l’Operazione francese Barkhane, la missione ONU MINUSMA (Mission multidimensionnelle intégrée des Nations unies pour la stabilisation au Mali) e la missione europea EUCAP SAHEL MALI, estesa al territorio del Burkina Faso.
Nel quadro della cooperazione transfrontaliera nella regione del Sahel, appare chiaro l’impegno della Comunità Internazionale volta a rafforzare le capacità operative nazionali nelle attività di contrasto all’avanzata qaedista. Tuttavia, le missioni internazionali non sembrano abbastanza efficaci per rallentare la crescita del jihadismo. In effetti, la complessità del fenomeno e le molteplici criticità che ne sono all’origine mettono in chiara luce la necessità di dover lavorare su più fronti per favorire un processo di stabilizzazione interno alle nazioni. Lo sviluppo di un sistema di governance efficiente e la promozione dell’inclusività sociale sono prioritari per la risoluzione delle cause più profonde della radicalizzazione. Sarà pertanto necessario ridefinire le strategie di cooperazione trans-nazionale, favorendo il dialogo all’interno delle comunità tribali e ricostruendo un rapporto diretto tra la società civile e le istituzioni nazionali.