Il futuro del Mali tra il ritiro di MINUSMA e la nuova costituzione
Il 30 giugno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato all’unanimità la risoluzione 2690 (2023) che prevede il graduale ritiro, da ultimare entro il 31 dicembre prossimo, della United Nations Multidimensional Integrated Stabilization in Mali (MINUSMA). Questa missione di peacekeeping, operativa in Mali dal 2013, è stata tra le più costose della storia dell’ONU, sia in termini economici, con un costo annuo stimato di oltre un miliardo di dollari, sia in termini di vite umane, con la morte di 303 peacekeepers. Tuttavia, non sono state le Nazioni Unite ad aver interrotto la missione a causa dei costi considerevoli, ma è stata la giunta militare guidata dal Colonnello Assimi Goïta ad aver chiesto, tramite il Ministro della Difesa Abdoulaye Diop, il ritiro del personale di MINUSMA, comprendente 12.237 militari, 1598 poliziotti e 1790 membri dello staff.
Tra i motivi che hanno mosso la decisione della giunta militare, spicca la critica nei confronti del mandato di MINUSMA, ritenuto insufficientemente incisivo contro le minacce jihadiste e invasivo rispetto agli affari interni, soprattutto con riferimento alle violazioni dei diritti umani e alla transizione democratica. Questo ritiro si inserisce in un clima di deterioramento dei rapporti tra l’Occidente e il Mali che, iniziato con la condanna dei colpi di Stato del 2020 e del 2021, era culminato con il ritiro della missione francese Barkhane e di quella europea Takuba, senza dimenticare il rapporto ONU sui crimini commessi dall’esercito maliano e dal gruppo Wagner nella città di Moura, dove sarebbero stati massacrati circa 500 civili. In questo contesto ha inciso anche la mancata cooperazione del Mali che, fino al marzo del 2023, ha negato 297 delle 1231 richieste di autorizzazioni di volo, inserite nell’ambito delle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione.
Parallelamente, Mosca ha saputo sfruttare la crisi tra il Mali e l’Occidente, incrementando i suoi legami con Bamako tramite la fornitura di armi, munizioni, veicoli e aerei militari. Un ruolo chiave è stato affidato alla PMC russa Wagner che, arrivata nel Paese nel dicembre del 2021, ha schierato circa 1000 unità, divise tra forze combattenti ed istruttori, coinvolte nell’addestramento delle forze locali e in operazioni antiterrorismo, in cambio dello sfruttamento delle importanti risorse minerarie maliane, principalmente oro ed uranio. Infatti, in Mali la Russia agisce sul contrabbando delle risorse auree, provenienti dalle miniere artigianali concentrate nella parte meridionale del Paese. La crisi interna al sistema di potere russo, esplosa il 23 giugno con il tentativo da parte di Evgenij Prigozhin, capo del Wagner Group, di destituire i vertici delle Forze Armate, non ha spinto il Cremlino a smettere di servirsi del gruppo in Africa, dove, come garantito dal Ministro degli Esteri Lavrov, i mercenari continueranno le proprie operazioni e gli interessi di Mosca non muteranno. Nonostante queste affermazioni testimoniano l’assoluta centralità dei mercenari russi e del complesso reticolo di società da loro controllato, il futuro del capo wagnerita e del suo gruppo rimane incerto.
Inoltre, domenica 18 giugno, i cittadini maliani sono stati chiamati al voto per il referendum costituzionale che, proposto dalla giunta militare e più volte rimandato, ha rappresentato un vero e proprio test per la stabilità del Paese. La nuova Costituzione, approvata con circa il 97% dei voti, propone delle importanti novità, in quanto introduce un sistema presidenziale che, basato sul secolarismo e, per questo, osteggiato dagli imam locali, permetterà al Presidente (non più al governo) di accentrare il potere e definire le politiche nazionali. Oltre a concedere la possibilità a Goïta di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2024, la nuova costituzione prevede l’amnistia ai partecipanti dei colpi di Stato del ’20 e del ’21 e trasforma il francese da lingua ufficiale a lingua di lavoro, come segno di un’ennesima rottura nei confronti del passato coloniale.
Tuttavia, il contesto in cui si è tenuto il referendum fotografa l’elevata instabilità e l’incertezza sul futuro del Paese. Basti pensare che nella regione di Mopti, al centro del Mali, 85 dei seggi totali sono stati chiusi e si è registrato un attacco terroristico nella città di Bodio, mentre in quella di Kidal, a Nord Est, la votazione è stata impedita dalle milizie armate tuareg. Ne segue che il governo di Bamako non sembra garantire un effettivo controllo dell’intero Paese e, come noto, è costretto a confrontarsi con il potere dei gruppi jihadisti, principalmente Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin (JMIN) e lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), a loro volta protagonisti di un sanguinoso scontro.
Dall’arrivo del Wagner, la questione securitaria pare essere peggiorata. Infatti, varie fonti riferiscono che sono aumentati sensibilmente gli episodi di violenza che hanno condotto all’uccisione di 1576 persone (con un aumento significativo della quota rappresentata dai civili) in 682 incidenti. L’aumento delle attività dei gruppi jihadisti è stato registrato sia nelle regioni settentrionali che in quelle orientali, come Ménaka e Gao, dove l’ISGS ha condotto un’offensiva, riuscendo ad occupare vaste aree del territorio e aggravando ulteriormente l’emergenza umanitaria. Anche in quelle centrali di Segou e Mopti, in cui il Wagner ha concentrato la maggior parte delle sue forze, i russi hanno subito diversi attacchi, successivamente rivendicati dalle forze jihadiste di JNIM. Ad aggravare la situazione securitaria del Paese contribuisce l’incapacità dell’aeronautica maliana ad utilizzare i suoi velivoli russi per impedire l’espansione dell’ISGS che, in passato, aveva sofferto gli attacchi aerei condotti dalla Francia con il sostegno del governo. Lo stesso si può dire dei droni Bayraktar-TB2, di provenienza turca, scarsamente utilizzati al di fuori della regione di Bamako. Quindi, il mancato utilizzo di attacchi aerei ha reso inefficace la lotta alle forze jihadiste che sono riuscite così a recuperare un maggiore controllo dei territori maliani. In questo ambito, non si può omettere il ruolo fondamentale delle percezioni e dei sentimenti popolari che hanno contribuito, spesso in maniera decisiva, alle decisioni del governo centrale. Il popolo maliano ha subito la disinformazione e la propaganda jihadista che hanno attecchito in un contesto dove la situazione generale di crisi ha spinto i cittadini a rigettare le forze occidentali, percepite come colonialiste e responsabili dell’insicurezza. Tali sentimenti sono stati ampiamente sfruttati sia dai jihadisti, mostratisi come interlocutori legittimi e credibili in un contesto politico, economico e securitario altamente instabile, sia dal gruppo Wagner il quale è riuscito ad ottenere larghi consensi sia presso le élite militari sia presso l’opinione pubblica.
Particolarmente preoccupante, poi, è la situazione relativa alla comunità tuareg che abita nel nord del Paese. Infatti, dopo aver lanciato la rivolta armata nel 2012, parte di essa, ovvero il CMA (Coordination des Mouvements de l’Azawad), ha siglato un accordo con il governo centrale maliano che, grazie alla mediazione dell’Algeria e dell’ONU, avrebbe dovuto attenuare le tensioni nella regione, offrendo autonomia politica ai tuareg i quali, in cambio, sarebbero stati inquadrati nell’esercito nazionale regolare. Nonostante lo scorso aprile Bamako e Algeri abbiano riconfermato la rinnovata intenzione di rispettare gli accordi del 2015, il pericolo è che, senza la mediazione dell’ONU, costretta al ritiro dal Paese contro cui si erano schierati i tuareg, il dialogo possa definitivamente saltare, destabilizzando ulteriormente la regione saheliana.
In conclusione, non si può omettere l’assoluta centralità del Mali nel più ampio contesto africano occidentale, in quanto il Paese non è solo ricco di risorse minerarie, tra cui oro ed uranio, ma è attraversato da rotte migratorie che successivamente interessano ed investono l’Europa. Inoltre, se si tiene conto dell’elevato grado di influenza delle vicende maliane sul vicinato, tra cui la Libia meridionale, il Niger e il Burkina Faso, il protrarsi dell’instabilità da Bamako a Kidal condiziona negativamente tutta la regione saheliana. In questo contesto, il ritiro della missione MINUSMA, preceduto da quello delle missioni Barkhane e Takuba, rischia di rappresentare un grande pericolo per i Paesi europei la cui presenza, particolarmente osteggiata dalla società civile maliana e dalla sua giunta militare, è stata ormai ridotta ai minimi termini. Quindi, diventa doveroso riformulare i termini della strategia di cooperazione e dialogo politico in Mali e, più in generale, nella regione saheliana tramite un approccio critico e pragmatico.
Dinanzi a tale contesto, è possibile adottare due tipi di strategie: la prima inizia con una sostanziale ammissione del fallimento delle politiche adottate sinora e si sviluppa nella direzione di contenere le drammatiche ripercussioni a cui si assisterebbe con un ulteriore aggravamento della crisi securitaria maliana. Tuttavia, l’opzione “contenitiva”, basata su un maggiore consolidamento nei Paesi vicini, da realizzare non solo in termini economici ma anche politici e militari, potrebbe essere gravemente compromessa dalla labilità dei confini saheliani.
La seconda consta nel superamento dell’approccio occidentale attuale, e la ricerca di un compromesso tra esigenze securitarie di breve periodo e necessità di promozione di governance virtuose nel lungo periodo. In sintesi, tanto l’Europa quanto l’Italia dovrebbero ripensare le clausole di condizionalità degli aiuti in maniera più flessibile e meno restrittiva, modificando la scala delle priorità e distinguendo gli interventi urgenti (lotta al terrorismo e alla criminalità, contenimento del traffico di esseri umani, ripresa dell’influenza economica) da quelli strategici (miglioramento delle condizioni strutturali del Paese, dalla governance alla resilienza climatica.