I difficili colloqui di pace per lo Yemen
Mercoledì 30 marzo sono iniziati a Riyadh i colloqui di pace tra le principali fazioni coinvolte nella guerra in Yemen. Dopo tre giorni di intensi colloqui le parti avrebbero trovato un’intesa, grazie alla mediazione delle Nazioni Unite, per una tregua a livello nazionale di due mesi, che prevederebbe lo stop a tutte le operazioni offensive militari aeree, terrestri e marittime all’interno dei confini yemeniti, nonché l’importazione via mare di carburante nelle aree controllate dagli Houthi e alcuni voli operanti dall’aeroporto di Sanaa. Alla conferenza hanno partecipato centinaia di politici yemeniti, leader tribali e funzionari degli apparati di sicurezza e dell’esercito. Contestualmente, la coalizione per ripristinare la legittimità dello Yemen — guidata dall’Arabia Saudita — ha annunciato una tregua di tre giorni per permettere una riduzione delle ostilità e favorire i dialoghi tra le parti coinvolte nel conflitto. Tim Lenderking, Inviato Speciale degli Stati Uniti in Yemen, ha ufficialmente ribadito il supporto del suo Paese sia per questi colloqui organizzati dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), sia per quelli attualmente portati avanti dalle Nazioni Unite in Giordania.
Sebbene queste trattative siano riuscite a far dialogare per la prima volta personalità e fazioni politico-militari come il Congresso Generale del Popolo – il partito dell’ex Presidente Ali Abdullah Saleh – e il Consiglio di Transizione del Sud, i colloqui sono avvenuti in assenza di uno degli attori più importanti coinvolti nel conflitto, ovvero gli Houthi. Il gruppo ribelle ha infatti declinato l’invito del GCC definendo Riyadh un luogo “non neutrale” per le trattative, ma mantenendo, almeno formalmente, la propria disponibilità a dialogare in futuro in un altro Paese. Secondo i principali media locali, però, gli Houthi avrebbero approfittato della tregua adottata unilateralmente dall’Arabia Saudita – e da loro rifiutata – per continuare gli attacchi nella città di Marib, snodo strategico nei collegamenti del Paese e area nella quale potrebbe decidersi il futuro del conflitto stesso.
Attualmente lo Yemen si trova frammentato in una pluralità di centri di potere governati dalle diverse fazioni politico-militari coinvolte nel conflitto. Questo fenomeno si è manifestato in maniera emblematica a partire dal 2016 con la scissione della Banca del Centrale yemenita in due autorità diverse: una situata ad Aden, nella parte meridionale del Paese, e dotata dell’accesso ai capitali internazionali ed una situata nell’area nordoccidentale sotto il controllo dei ribelli Houthi. Questo fatto riflette le diverse tipologie di governance adottate nelle due aree. Nella parte nordoccidentale, infatti, gli Houthi hanno utilizzato alcuni strumenti repressivi, i fondi provenienti – presumibilmente – dall’Iran e un constante controllo del livello dei prezzi per preservare la stabilità sociale. Nella parte meridionale del Paese, invece, la Banca Centrale ha permesso al valore della valuta di oscillare seguendo la tradizionale legge della domanda e dell’offerta, contribuendo però ad aumentare l’inflazione e il deprezzamento del riyal saudita. Questo precario tentativo di adeguare l’economia locale agli standard internazionali si è inoltre scontrato nelle ultime settimane con gli effetti avversi della crisi ucraina, ovvero l’aumento dei prezzi dei generi alimentari – lo Yemen dipende infatti per circa il 40% dalle importazioni di grano russo-ucraino. Ciò ha fatto esplodere una serie di proteste sociali nelle aree del sud, motivate principalmente da rivendicazioni di carattere economico-alimentare.
Al di là degli aspetti economici, questa frammentazione dell’autorità politica ed economica yemenita rappresenta un ostacolo non indifferente alla risoluzione del conflitto, anche per via del suo impatto sulla polarizzazione socio-politica locale. A tal riguardo, i diversi modelli di governance adottati dagli Houthi e dal Consiglio di Transizione del Sud si sono rivelati entrambi inefficaci, seppur per motivi diversi, a garantire alla popolazione civile uno standard di vita dignitoso, quantomeno in termini di accesso ai servizi di base. Ciò non ha solo esacerbato la precarietà delle condizioni di vita dei civili, ma ha anche contribuito a erodere la base di un modello di sviluppo da adottare in un futuro post-guerra civile.
Oltre a questo aspetto più prettamente locale, è necessario sottolineare come il conflitto yemenita sia tuttora influenzato dalle più ampie dinamiche regionali e internazionali. Gli Houthi, infatti, sembrano per ora interessati a mantenere l’attuale status quo continuando, quindi, ad attaccare gli obiettivi presenti nell’area del Golfo – come testimoniato dalle recenti offensive missilistiche contro Abu Dhabi e Jeddah. Alla luce del rapporto – non sempre trasparente – che lega i ribelli yemeniti all’Iran, questa situazione contribuisce a rendere ulteriormente complesse le relazioni esistenti tra le monarchie del Golfo e la Repubblica Islamica.
Nonostante, quindi, la possibile svolta rappresentata dalla tregua nazionale, è improbabile immaginare che i colloqui in corso a Riyadh possano portare ad una fine immediata del conflitto, in quanto la dimensione militare racconta una realtà comunque suscettibile di cambiamenti: infatti lo scontro bellico attualmente in corso a Marib è considerato da molti analisti come l’evento decisivo in grado di far pendere l’esito della guerra dalla parte degli Houthi o dalla parte saudita.