Geopolitical Weekly n.312

Geopolitical Weekly n.312

By Andrea Posa, Antonio Scaramella and Luca Tarantino
12.06.2018

Afghanistan

Il 6 dicembre la Independent Electoral Complaints Commission (IECC) afghana ha dichiarato che tutti i voti espressi nelle elezioni dello scorso ottobre nella provincia di Kabul (circa un milione) sono da considerarsi non validi. La commissione non ha ancora divulgato il contenuto delle 25 ragioni per cui l’annullamento si sia reso necessario, citando però frodi e una mala gestione del voto da parte della Independent Electoral Commission (IEC), organo preposto all’approvazione del risultato elettorale.

L’annullamento dei voti nella circoscrizione della capitale rende ancora più complessa una già travagliata consultazione elettorale che, dopo più di un mese, ancora non ha raggiunto una conclusione. Infatti, i risultati elettorali sono stati annunciati solo per 14 delle 33 province che hanno partecipato al voto.  Poiché il distretto di Kabul esprime 33 rappresentanti su 250 alla Wolesi Jirga, l’invalidazione è destinata a creare un problema complesso per il governo in relazione alla legittimità di tutto il processo elettorale, già macchiato da accuse da parte di elettori e candidati di frodi, problemi tecnici e dalle problematiche relative alla gestione della sicurezza interna. le difficoltà riscontrate nell’organizzazione delle elezioni parlamentari stanno dando sempre maggior adito all’idea avanzata dalle stesse IEC e IECC di posporre le elezioni presidenziali previste per il 20 aprile prossimo.

Ufficialmente motivata da limiti gestionali, la scelta di rinviare l’elezione del nuovo Presidente potrebbe, in realtà, avere effetti anche sul delicato processo di dialogo che il governo di Kabul sta cercando di portare avanti con l’insorgenza talebana. In un momento di grande incertezza sul proseguo del negoziato, la posticipazione della deadline a data da destinarsi, infatti, potrebbe essere funzionale a trovare un bilanciamento tra le diverse posizioni sul tavolo e a far maturare delle condizioni di dialogo che potrebbero essere fondamentali per la sostenibilità del processo di formazione del nuovo governo.

Israele

Domenica 2 dicembre, la Polizia israeliana ha raccomandato alla Magistratura l’incriminazione del Primo Ministro Benyamin Netanyahu e di sua moglie Sarah. Le accuse sono di sospetta corruzione, frode e abuso d’ufficio in riferimento al cosiddetto “Caso 4000”.

Le indagini si sono concentrate sui rapporti tra il Premier ed il magnate della compagnia telefonica israeliana Bezeq, Shaul Elovitch, nel periodo dal 2015 al 2017, quando Netanyahu aveva assunto anche la carica di Ministro delle Comunicazioni ad interim. Le accuse riguardano un giro di centinaia di milioni di dollari che avrebbe permesso al Governo di Tel Aviv di ricevere una copertura mediatica favorevole sul sito giornalistico “Walla! News”, di cui Elovitch è proprietario, in cambio di emendamenti concordati a leggi che regolavano le telecomunicazioni. Nell’ambito delle indagini, già nel febbraio scorso, erano state arrestate 7 persone tra cui l’ex portavoce del Premier, Nir Efez, e il Direttore Generale del Ministero delle Comunicazioni, Shlomo Filber, accusati anche di corruzione.

Questa è la terza richiesta d’incriminazione per Netanyahu, già coinvolto in altri tre casi di corruzione: i cosiddetti “Caso 1000”, “Caso 2000” e il “Caso 3000” (per quest’ultimo le indagini sono ancora in corso), che in vario modo hanno riguardato tangenti, scambi sospetti di regali costosi e copertura mediatica.

La legge israeliana non prevede l’obbligo di dimissioni del Premier in caso di sentenze provvisorie, ma il Governo potrebbe risentire di questo nuovo colpo in un contesto già precario in termini di stabilità e consenso. Dallo scorso novembre, infatti, il Primo Ministro controlla una maggioranza striminzita in Parlamento, ovvero 61 deputati su un totale di 120. Questo a seguito dell’uscita dalla compagine governativa del Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, a capo del partito di estrema destra Yisrael Beiteinu. La posizione di Netanyahu appare sempre meno solida, soprattutto in vista delle elezioni di novembre 2019. Infatti, se i danni alla sua immagine e la pressione delle opposizioni per le sue dimissioni rendono incerto l’esito della consultazione elettorale, sarebbe piuttosto rischioso anche l’indizione di elezioni anticipate, mossa con cui in passato Netanyahu era riuscito più volte a spiazzare oppositori interni ed esterni e a uscire vincitore dalle urne.

Qatar

Lunedì 3 dicembre, il Ministro per gli Affari Energetici Saad al-Kaabi ha annunciato che il Qatar, a partire dal 1° gennaio 2019, non farà più parte dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC), l’organismo fondato nel 1960 con lo scopo di regolare e concordare la produzione di petrolio dei maggiori Paesi esportatori.

La decisione molto probabilmente non condurrà a grandi mutamenti nella governance internazionale del petrolio, né porterà ad alterazioni del suo prezzo nel mercato. Infatti, il Qatar non ha riserve di petrolio particolarmente copiose e rappresenta meno del 2% della produzione di greggio dell’OPEC. Tale quota non è comparabile con quella di altri membri dell’organizzazione come l’Arabia Saudita, il primo esportatore di petrolio al mondo, pari al 31%.

Tuttavia, l’uscita di Doha dall’OPEC può essere letta come l’ultima manifestazione della frattura in corso con le altre Monarchie del Golfo. Da giugno 2017, l’Arabia Saudita e un gruppo di Paesi comprendente gli Emirati Arabi Uniti (EAU), il Bahrein e l’Egitto hanno infatti interrotto le relazioni diplomatiche e il traffico aereo e navale con il Qatar.

Le ragioni della decisione vanno individuate in una politica dell’Emirato sempre più divergente e autonoma da quella dell’Arabia Saudita. In questo senso, Doha vuole certamente smarcarsi dalle politiche regolative energetiche che Riyad porta avanti in seno all’OPEC, e aumentare la sua produzione sia di petrolio che di gas, di cui il Qatar è il maggior esportatore a livello globale. Soprattutto, però, con la scelta di uscire dall’OPEC, l’Emirato guidato dallo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani vuole scalfire quel tradizionale ruolo, rivendicato con forza dall’Arabia Saudita, di attore egemone della regione, incrinandone potenzialmente la leadership anche in altri consessi regionali, a partire dal Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC), organizzazione internazionale volta all’integrazione economica dei Paesi del Golfo Persico.

Taiwan

Sabato primo dicembre il Ministro dell’Ambiente Lee Ying-yuan, quello dei trasporti Wu Hong-mo e quello dell’Agricoltura Lin Tsung-hsien hanno rassegnato le proprie dimissioni. Queste fanno seguito alle premature dimissioni il 24 novembre del Presidente della Repubblica di Cina Tsai Ing-wen. Ora la tenuta del Governo potrebbe essere a rischio, con le opposizioni che fanno pressione denunciando una perdita di legittimità dell’esecutivo e le dimissioni di altri Ministri.

All’origine di ciò vi è la débâcle subita dal Partito Progressista Democratico (PPD), il partito al Governo di cui la Tsai è il leader, alle elezioni locali del 24 novembre 2018, in cui il PDD ha perso sette tra città e provincie rispetto all’ultima tornata (passa da 13 a 6), tra cui la città portuale di Kaohsiung, importante centro industriale che, dalla fine degli Anni’90 è stata una roccaforte del PPD. Il vincitore della tornata elettorale è stato invece il Kuomintang (KMT), il partito nazionalista nato nel 1919, che ha vinto in 15 delle 21 provincie in cui si è votato, ben 9 in più rispetto a quelle che aveva vinto alle elezioni precedenti del 2014.

La sconfitta del PDD risponde molto probabilmente ad un dissenso sulle riforme promosse negli ultimi anni e ad una crescita economica dell’isola di Formosa ancora al di sotto delle aspettative più che ad un effettivo aumento dei consensi nei confronti dell’agenda del KMT. Tuttavia, la vittoria di quest’ultimo dà ora la possibilità alla sua classe dirigente di avere maggior margine di manovra a livello locale per rilanciare la proria immagine in vista delle prossime elezioni generali, che si dovrebbero tenere nel 2020. In particolare, di importante sarà l’impostazione delle relazioni con Pechino. Lo storico partito è infatti favorevole ad un allentamento delle tensioni e all’aumento delle relazioni economiche con la Repubblica Popolare Cinese (RPC), come dimostrato dal neoeletto sindaco di Kaohsiung Han Kuo-yu, che subito dopo la vittoria si è recato nella RPC e ha incontrato una delegazione cinese.

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