Geopolitical Weekly n.149

Geopolitical Weekly n.149

By Andrea Ferrante and Anna Miykova
06.19.2014

Sommario: Afghanistan, Israele, Kenya, Ucraina

Afghanistan

Sabato 14 giugno in Afghanistan si sono svolte le votazioni per il secondo turno delle elezioni Presidenziali. I due contendenti, Abdullah Abdullah, ex Ministro degli esteri e rivale diretto di Karzai nella corsa elettorale del 2009, e Ashraf Ghani, precedente titolare del Ministero delle Finanze, si sono presentati al ballottaggio rispettivamente con il 45% e il 31% delle preferenze ricevute al primo turno.

Con un’affluenza stimata intorno al 60%, anche il secondo turno è sembrato confermare, almeno in un primo momento, la volontà della popolazione di portare a termine l’iter elettorale e dare così nuova legittimazione al turnover istituzionale. Tuttavia, la recente denuncia di Abdullah contro pesanti brogli in favore del suo rivale, rischiano ora di inficiare la credibilità dei risultati.

Rispetto al primo turno, tenutosi in tutto il Paese lo scorso 5 aprile, il ballottaggio ha registrato un  aumento degli episodi di violenza da parte dei militanti talebani, che, complessivamente, hanno causato la morte di 39 civili, 18 membri delle Forze di sicurezza e circa 170 militanti. Benché gli attentati siano stati strettamente connessi con la consultazione elettorale,  l’incremento delle incursioni si inserisce nelle attività legate offensiva di primavera, la tradizionale ripresa, dopo la stagione invernale, delle violenze da parte dei miliziani talebani, iniziata lo scorso 12 maggio.

L’incognita legata alla sicurezza, dunque, continua a rappresentare una delle maggiori sfide per l’autorità afghane. In questo senso, la nomina del nuovo Presidente, che dovrebbe essere ufficializzata il prossimo 22 luglio, rappresenterà uno snodo fondamentale per le sfida di sicurezza del Paese. Spetterà al nuovo Presidente, infatti, la definizione del Bilateral Security Agreement (BSA), l’accordo bilaterale Kabul-Washington che dovrebbe disciplinare la presenza delle Forze statunitensi in Afghanistan dal prossimo gennaio.

Israele

Lo scorso 12 giugo, nei pressi dell’insediamento israeliano di Gush Etzion, in Cisgiordania, tre ragazzi di età compresa tra i 16 e i 19 anni, uno dei quali cittadino statunitense, sono stati rapiti da individui al momento non ancora identificati. Nelle ore successive al rapimento, le forze di sicurezza israeliane hanno setacciato l’area compresa tra Hebron e Betlemme, senza tuttavia trovare alcuna traccia dei giovani rapiti. Nel corso delle inerenti operazioni di polizia compiute dalle autorità israeliane sono stati arrestati circa 80 palestinesi, tra i quali figurano una dozzina di esponenti di Hamas.

L’avvenimento si colloca a sole due settimane dall’insediamento del governo di unità nazionale Hamas-Fatah e dalla conseguente rottura nelle trattative di pace israelo-palestinesi, annunciata dal Primo Ministro israeliano Netanyahu. Lo stesso Netanyahu ha accusato pubblicamente Hamas di essere dietro il rapimento dei tre giovani e ha dichiarato di ritenere Abu Mazen, Presidente dell’ANP e sostenitore della riconciliazione con il movimento islamista, il responsabile “politico” della sorte degli studenti. Hamas, d’altro canto, ha negato qualsiasi coinvolgimento, intravedendo nelle parole di Netanyahu la volontà israeliana di fomentare un clima di delegittimazione dell’intesa Hamas-Fatah.

In assenza di elementi sufficienti a delineare una dinamica chiara dei fatti, una delle ipotesi più concrete è che l’azione criminale possa essere stata opera di frange radicali presenti all’interno dell’universo palestinese, in segno di aperto contrasto rispetto alla strategia unitaria di Hamas e Fatah, e interessate a determinare una crisi dei rapporti interna al nuovo esecutivo del Primo Ministro Rami Hamdallah.

Lo scontro Ramallah-Tel Aviv entra, dunque, in una fase calda, ancor di più dopo la prevedibile presa di posizione del Segretario di Stato USA John Kerry, che ha sostenuto la linea di Netanyahu parlando di “forti indizi” a carico di Hamas. Sebbene lo scenario attuale resti ancora tutto da decifrare, la strategia accusatoria del governo di Tel Aviv sembra dettata, al momento, dal tentativo di indebolire il governo palestinese.

Kenya

Nella tarda serata di domenica 15 giugno, almeno 49 cittadini di religione cristiana sono rimasti uccisi in un attacco avvenuto a Mpeketoni, località turistica in prossimità della costa keniota, 30 km a sud di Lamu. Dalle prime ricostruzioni emerge che circa 20 uomini armati hanno aperto il fuoco sui passanti prendendo di mira numerose strutture alberghiere, una banca e una stazione di polizia, andate completamente distrutte. A distanza di 48 ore, un nuovo attentato verificatosi nel vicino villaggio di Poromoko ha causato la morte di altre 15 persone, tutte non musulmane. Entrambi gli attentati sono stati rivendicati dal gruppo terroristico somalo al-Shabaab, nonostante persistano dubbi sul coinvolgimento di organizzazioni criminali legate ad avversari politici del Presidente keniota Uhuru Kenyatta o del Consiglio Repubblicano di Mombasa (MRC) che si batte per l’autonomia della regione costiera a maggioranza musulmana. Tuttavia, la modalità degli attacchi e la decisione di risparmiare i musulmani, proprio come avvenuto nell’attentato al centro commerciale Westgate di Nairobi nel settembre 2013, lascia presumere la veridicità della rivendicazione di al-Shabaab, che mira a indebolire il governo keniota impegnato nella lotta contro i ribelli islamisti sul territorio nazionale e in Somalia.

Appare particolarmente significativo come i miliziani jihadisti si siano scagliati nello specifico contro i cristiani, che rappresentano la maggioranza religiosa nella provincia di Mpeketoni, in evidente segno di rappresaglia contro il governo, accusato di perpetrare una brutale repressione contro i musulmani in Kenya. In questo senso, la scelta di colpire l’indotto turistico, che ogni anno porta nelle casse governative oltre un miliardo di dollari, è diretta a ridurre significativamente gli introiti dello Stato, colpendo con un gesto eclatante anche gli interessi e i cittadini dei Paesi occidentali. Di fronte a questo scenario, l’intensificarsi degli attacchi armati sul suolo keniota portano a ritenere che il Paese sia diventato un fronte particolarmente intenso del jihad islamico nel Corno d’Africa, confermando la crescente internazionalizzazione dell’azione degli insorgenti somali legati ad al-Qaeda.

Ucraina

Nella notte di sabato 14 giugno un aereo militare che trasportava 49 soldati dell’Esercito ucraino, viveri e munizioni destinati a sostenere lo sforzo militare di Kiev nell’Est del Paese è stato abbattuto dalle forze filorusse mentre effettuava una manovra di atterraggio a Novohannivka, 20 Km a sud-est di Lugansk, una delle roccaforti dell’insorgenza separatista, causando la morte di tutto l’equipaggio. L’attacco, avvenuto presumibilmente con un missile anti-aereo spalleggiabile, ha inflitto un altro duro colpo alla campagna antiterrorismo che il governo ucraino ha lanciato a partire dalla fine di aprile e ha rappresentato un’ulteriore conferma delle notevoli capacità militari dei ribelli filorussi.

La tensione tra la Russia e l’Ucraina è resa ancor più grave dall’acquisizione, da parte delle milizie anti-governative, di 3 carri armati, la cui provenienza è tutt’ora incerta, che lo scorso 13 giugno hanno transitato lungo il confine ucraino e successivamente sono entrati a Donetsk. A questo proposito, la Russia è stata accusata  da di Kiev, Bruxelles e Washington di essere responsabile della fornitura dei carri e di altri sistemi d’arma complessi ai separatisti al fine di alimentare l’insorgenza nella regione del Donbass. In un simile contesto di instabilità e incertezza, la proposta di un cessate il fuoco unilaterale avanzata dal Presidente ucraino Petro Poroshenko sembra costituire un segnale distensivo che potrebbe scongiurare un’ulteriore recrudescenza degli scontri. Tuttavia, sui già difficili rapporti tra Kiev e Mosca pesa anche la questione del gas che pare aver messo a dura prova le volontà negoziali dei due governi.

Infatti, i colloqui di pace avvenuti a Bruxelles hanno subito una battuta d’arresto dopo che la Russia ha annunciato di essere pronta ad interrompere i rifornimenti di gas a Kiev a causa del mancato rispetto della scadenza del 16 giugno per il pagamento del debito con Gazprom. Qualora l’Ucraina non accettasse le condizioni economiche proposte da Gazprom, ci potrebbero essere rischi per l’approvvigionamento energetico ai Paesi dell’Europa Centrale e Meridionale, compresa l’Italia, il cui flusso gasifero passa per le condotte transitanti dall’Ucraina.  Tale situazione è resa ancor più preoccupante a causa dello stallo per la costruzione di South Stream, gasdotto che servirebbe a bypassare il territorio ucraino e garantire la sicurezza energetica europea, dovuto alle divisioni interne al fronte di Bruxelles. Il rischio, dunque, è che l’Europa possa dover affrontare una nuova crisi di approvvigionamento come quelle del 2006 e del 2009.

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